Rivoluzione Civile apre le porte al mondo del lavoro e approda oggi in Senato con i suoi candidati simbolo della lotta ai diritti dei lavoratori e presenta le sue proposte.
Antonio Di Luca - FIOM di Pomigliano
I primi passi per cambiare il mondo del lavoro
- Piergiovanni Alleva da quarant’anni difende i lavoratori nei
tribunali. “E’ tempo di riconquistare diritti e dignità, guardare al
sistema nel suo complesso. La strada? Penso all’introduzione del reddito
di cittadinanza; ad una seria lotta alla disoccupazione giovanile
tramite una serie di strumenti ad hoc a disposizione delle aziende, ad
una legge sulla rappresentanza che porti la democrazia nei luoghi di
lavoro”.
La degenerazione politica porta degrado dei diritti
– Antonio Di Luca, uno degli operai Fiom reintegrati alla Fiat di
Pomigliano d’Arco per sentenza. “Mio malgrado sono diventato uno dei
simboli della cancellazione del lavoro e dei diritti. Ma se ciò accade
nella casa madre, nella multinazionale, cosa mai accadrà nelle piccole
aziende che lavorano nell’indotto Fiat?”.
Giovanna Marano - Presidente del Comitato Centrale della FIOM
Parola chiave: “riconvertire”
– Giovanna Marano, storica rappresentante della Cgil, siciliana ha
vissuto le battaglie che hanno visto protagonisti gli operai di Termini
Imerese e del Petrolchimico di Gela. Parla a nome di quei 60mila che
ogni anno lasciano la loro terra per cercare lavoro altrove, di un
Mezzogiorno nel quale rimarrà, se si persevera con queste politiche
scellerate, solo l’industria pesante: “Se non si pensa alla
riconversione, non ci saranno prospettive per il futuro. Perché quando
inizierà la ripresa rischieremo di affrontarla a mani nude”.
Ad ognuno il suo contratto
– Maria Cristina Bigongiali, giornalista, donna e madre. Una lunga
storia di precariato alle spalle, le difficoltà di “ricominciare” ogni
volta, ad ogni cambio di contratto tutto di nuovo in ballo. “Non c’è
libertà di stampa se non ci sono i giusti contratti. La giungla del
mercato del lavoro ha indebolito i lavoratori e non ha creato un solo
posto di lavoro in più”.
Lavoro e legalità contro l’economia opaca
– Claudio Giardullo, dirigente e sindacalista delle forze di polizia.
“Se Rivoluzione Civile sta suscitando tanto entusiasmo e tanta
attenzione è perché pone al centro del suo programma lavoro e legalità,
per combattere la deriva dell’economia opaca. La ricetta Marchionne, che
si è voluta riprodurre sull’intero Paese, non funziona: con il solo
rigore, non c’è crescita”.
Le difficoltà di un operaio, giorno dopo giorno
– Luca Votoni, operaio delle acciaierie di Terni. “Sono stanco di dire a
mio figlio che in Italia vanno avanti solo gli arroganti. Stanco di
dover sentire, da figlio, le lamentele di un padre che, con altre decine
di persone in ospedale, viene trattato come un numero. Stanco dei
contratti a termine rinnovati di volta in volta, senza mai una certezza,
di mia moglie”.
“UNA RIVOLUZIONE CIVILE PER RICOSTRUIRE IL PAESE” UN PROGRAMMA PER GOVERNARE L’ITALIA Vogliamo realizzare una rivoluzione civile per attuare i principi di uguaglianza, libertà e democrazia della Costituzione repubblicana. Vogliamo realizzare un “nuovo corso” delle politiche economiche e sociali, a partire dal mezzogiorno, alternativo tanto all’iniquità e alla corruzione del ventennio berlusconiano, quanto alla distruzione dei diritti sociali, del lavoro e dell’ambiente che ha caratterizzato il governo Monti.
VOGLIAMO UNA RIVOLUZIONE CIVILE:
• per l’Europa dei diritti, contro l’Europa delle oligarchie economiche e finanziarie. Vogliamo un’Europa autonoma dai poteri finanziari e una riforma democratica delle sue istituzioni. Siamo contrari al Fiscal Compact che taglia di 47 miliardi l’anno per i prossimi venti anni la spesa, pesando sui lavoratori e sulle fasce deboli, distruggendo ogni diritto sociale, con la conseguenza di accentuare la crisi economica. Il debito pubblico italiano deve essere affrontato con scelte economiche eque e radicali, finalizzate allo sviluppo, partendo dall’abbattimento dell’alto tasso degli interessi pagati. Accanto al Pil deve nascere un indicatore che misuri il benessere sociale e ambientale;
• per la legalità e una nuova politica antimafia che abbia come obiettivo ultimo non solo il contenimento ma l’eliminazione della mafia, che va colpita nella sua struttura finanziaria e nelle sue relazioni con gli altri poteri, a partire da quello politico. Il totale contrasto alla criminalità organizzata, alla corruzione, il ripristino del falso in bilancio e l’inserimento dei reati contro l’ambiente nel codice penale sono azioni necessarie per liberare lo sviluppo economico;
• per la laicità e le libertà. Affermiamo la laicità dello Stato e il diritto all’autodeterminazione della persona umana. Siamo per una cultura che riconosca le differenze. Aborriamo il femminicidio, contrastiamo ogni forma di sessismo e siamo per la democrazia di genere. Contrastiamo l’omofobia e vogliamo il riconoscimento dei diritti civili, degli individui e delle coppie, a prescindere dal genere. Contrastiamo ogni forma di razzismo e siamo per la cittadinanza di tutti i nati in Italia e per politiche migratorie accoglienti;
• per il lavoro. Non vogliamo più donne e uomini precari. Siamo per il contratto collettivo nazionale, per il ripristino dell’art. 18 e per una legge sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro. Vogliamo creare occupazione attraverso investimenti in ricerca e sviluppo, politiche industriali che innovino l’apparato produttivo e la riconversione ecologica dell’economia. Vogliamo introdurre un reddito minimo per le disoccupate e i disoccupati. Vogliamo che le retribuzioni italiane aumentino a partire dal recupero del fiscal drag e dalla detassazione delle tredicesime. Vogliamo difendere la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro;
• per le piccole e medie imprese, le attività artigianali e agricole. Deve partire un grande processo di rinascita del Paese, liberando le imprese dal vincolo malavitoso, dalla burocrazia soffocante. Vanno premiate fiscalmente le imprese che investono in ricerca, innovazione e creano occupazione a tempo indeterminato. Vanno valorizzate le eccellenze italiane dall’agricoltura, alla moda, al turismo, alla cultura, alla green economy;
• per l’ambiente. Va cambiato l'attuale modello di sviluppo, responsabile dei cambiamenti climatici, del consumo senza limiti delle risorse, di povertà, squilibri e guerre. Va fermato il consumo del territorio, tutelando il paesaggio, archiviando progetti come la TAV in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto di Messina. Va impedita la privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua. Va valorizzata l'agricoltura di qualità, libera da ogm, va tutelata la biodiversità e difesi i diritti degli animali. Vanno creati posti di lavoro attraverso un piano per il risparmio energetico, lo sviluppo delle rinnovabili, la messa in sicurezza del territorio, per una mobilità sostenibile che liberi l’aria delle città dallo smog;
• per l’uguaglianza e i diritti sociali. Vogliamo eliminare l’IMU sulla prima casa, estenderla agli immobili commerciali della chiesa e delle fondazioni bancarie, istituire una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Vogliamo colpire l’evasione e alleggerire la pressione fiscale nei confronti dei redditi medio-bassi. Vogliamo rafforzare il sistema sanitario pubblico e universale ed un piano per la non-autosufficienza. Vogliamo il diritto alla casa e il recupero del patrimonio edilizio esistente. Vogliamo un tetto massimo per le pensioni d’oro e il cumulo pensionistico. Vogliamo abrogare la controriforma pensionistica della Fornero, eliminando le gravi ingiustizie generate, a partire dalla questione degli “esodati”;
• per la conoscenza, la cultura, l’informazione libera. Affermiamo il valore universale della scuola, dell’università e della ricerca pubbliche. Vogliamo garantire a tutte e tutti l’accesso ai saperi, perché solo così è possibile essere cittadine e cittadini liberi e consapevoli, recuperando il valore dell’art. 9 della Costituzione, rendendo centrali formazione e ricerca. Vogliamo valorizzare il patrimonio culturale, storico e artistico. Vogliamo una riforma democratica dell’informazione e del sistema radiotelevisivo che ne spezzi la subordinazione al potere economico-finanziario. Vogliamo una legge sul conflitto di interessi e che i partiti escano dal consiglio di amministrazione della Rai. Vogliamo il libero accesso a Internet, gratuito per le giovani generazioni e la banda larga diffusa in tutto il Paese;
• per la pace e il disarmo. Va ricondotta la funzione dell’esercito alla lettera e allo spirito dell’articolo 11 della Costituzione a partire dal ritiro delle truppe italiane impegnate nei teatri di guerra. Va promossa la cooperazione internazionale e l’Europa deve svolgere un’azione di pace e disarmo in particolare nell’area mediterranea. Vanno tagliate le spese militari a partire dall’acquisto dei cacciabombardieri F35;
• per una nuova questione morale ed un’altra politica. Vogliamo l'incandidabilità dei condannati e di chi è rinviato a giudizio per reati gravi, finanziari e contro la pubblica amministrazione. Vogliamo eliminare i privilegi della politica, la diaria per i parlamentari, porre un tetto rigido ai compensi dei consiglieri regionali e introdurre per legge il limite di due mandati per parlamentari e consiglieri regionali. Vogliamo una nuova stagione di democrazia e partecipazione.
Lettera del Segretario Nazionale del PRC ai militanti: cari compagni e compagne, è nata Rivoluzione Civile!
Cari compagne e compagne, vi scrivo per la seconda volta in pochi giorni. Lo faccio ed alla vigilia di una importante campagna elettorale per cercare di riassumere il senso del nostro impegno in RIVOLUZIONE CIVILE con Ingroia candidato presidente. Innanzitutto considero un successo politico essere riusciti a dar vita a questa lista autonoma dal PD. Erano anni che ci lavoravamo e ancora poche settimane a molti fa pareva una impresa impossibile. Non solo, il programma di questa lista, pur non raccogliendo completamente il nostro programma, è buono. Vi sono le cose fondamentali che vanno dette per disegnare una alternativa: dal no al fiscal compact e alla Tav in avanti. Inoltre in questi giorni è stato definitivamente accantonata l’idea di fare la desistenza al Senato nei confronti del centro sinistra. Si sarebbe trattato di una scelta suicida che avrebbe trasformato la lista ad una sorta di appendice minoritaria del PD, priva di prospettiva e progetto politico. RIVOLUZIONE CIVILE si presenta quindi agli elettori come polo politico autonomo dal centro sinistra, esattamente come noi volevamo. Com’è noto questa lista è il frutto di un accordo tra 6 movimenti politici (Rifondazione Comunista, PdCI, IdV, Verdi, Movimento arancione di de Magistris, Rete 2018 di Orlando) e Antonio Ingroia che è il candidato presidente. Purtroppo le vicende di Cambiare si può hanno impedito che questo processo fornisse un contributo decisivo e positivo alla costruzione della lista. Così tutto il percorso di partecipazione democratica avviato con le assemblee di cambiare si può è rimasto privo di uno sbocco politico e le dinamiche di costruzione delle liste – anche a causa della totale mancanza di tempo - non hanno avuto passaggi di legittimazione democratica. La stessa drammatica mancanza di tempo per far conoscere la lista ci ha portato a scegliere di inserire il nome di Ingroia nel simbolo, cosa che certo non corrisponde alla nostra cultura politica ma che è indispensabile per rendere riconoscibile una lista appena nata. Frutto di questo accordo è stata così la costruzione di liste in cui la maggioranza degli eletti sarà espressione della società civile. In questo quadro abbiamo candidato 10 compagni e compagne indicate dalla Direzione Nazionale che hanno la possibilità di essere eletti a seconda della percentuale che prenderà la lista. Con il 4% ci saranno due eletti, con il 4,5 saranno 3 e così via aumentando. Oltre a questi vi è un centinaio di altri compagni e compagne presenti nelle liste in posizioni più arretrate. La prima cosa da sottolineare è quindi che il voto che ognuno e ognuna di voi esprimerà, non servirà solo ad eleggere coloro che sono in lista nella vostra circoscrizione ma servirà ad eleggere compagni e compagne che sono nelle altre circoscrizioni. I voti infatti si sommano sul piano nazionale e solo un risultato positivo in termini complessivi permetterà l’elezione dei compagni e delle compagne indicati da Rifondazione. Questo è il punto fondamentale da tener presente: ogni mancata partecipazione alla campagna elettorale, in qualunque parte del paese, è un modo per impedire al nostro partito di rientrare in parlamento, è un atto ostile contro rifondazione comunista e il suo progetto politico. La mancata partecipazione alla campagna elettorale è un suicidio politico, non un atto di protesta. Lo dico perché la formazione delle liste ha prodotto grandi malumori, quasi tutti comprensibili ma mio parere quasi tutti esagerati. Se si fa una lista con altri partiti e movimenti – scelta decisa dal partito nella perfetta consapevolezza che da soli non avremo preso nemmeno un deputato – è poi inutile lamentarsi del fatto che nella maggioranza delle teste di lista non ci sono nostri compagni o che vi è il leader di un altro partito capolista nella nostra circoscrizione. Se Ferrero è nella testa di lista a Torino, di Pietro lo sarà a Milano. Non è pensabile che i nostri ci siano e gli altri debbano scomparire. La stessa cosa vale per liste: essendo liste a maggioranza di società civile e quindi per meno della metà composte da esponenti di partito, per forza di cose i nostri compagni e compagne sono una piccola minoranza della lista e non sempre saranno nella parte alta della lista. Così come è successo agli altri. Il punto fondamentale allora non è di lamentarsi se nella circoscrizione in cui votiamo il nostro sta al decimo o al ventesimo posto, ma di sapere che il nostro voto è decisivo per portare in parlamento una pattuglia di deputati in opposizione alle destre e al governo Monti Bersani e ad eleggere il compagno o la compagna di rifondazione comunista a prescindere da quale è la circoscrizione in cui è candidato e candidata. In questo quadro, per il Senato - che ha collegi a base regionale - in 4 situazioni il capolista di RIVOLUZIONE CIVILE è un compagno o una compagna di Rifondazione e che quindi può essere eletto: Marino Andolini in Friuli Venezia Giulia, Giovanna Capelli in Lombardia, Roberta Fantozzi in Toscana e Marco Gelmini in Umbria. In questa lista – messa in piedi in poche settimane - vi sono moltissime contraddizioni e certo non è omogenea sul piano politico. Rivoluzione Civile non è Syriza o il Fronte de Gauche. Rivoluzione Civile è uno spazio politico a sinistra del PD, in cui noi siamo, con ogni evidenza, il partito più a sinistra. Detto questo è bene evitare di gettare il bambino con l’acqua sporca: il progetto di Rivoluzione Civile non è solo utile ma necessario ed è il massimo che potevamo fare nelle condizioni date. Rivoluzione Civile è un passo in avanti anche se non è – perlomeno non è ancora – la costruzione di una forza unitaria della sinistra di alternativa. Dobbiamo lavorare affinché questo processo avanzi e il modo migliore per farlo oggi è quello di votare e far votare Rivoluzione Civile. Come abbiamo visto dopo il 2008, dopo le sconfitte si raccolgono i cocci. Dobbiamo far si che le elezioni del 24 febbraio 2013 con il successo elettorale di Rivoluzione Civile siano un punto di partenza. Per i comunisti e le comuniste , per la sinistra, per il movimento operaio.
Un caro saluto e buon lavoro Paolo Ferrero
Mercoledì 9 gennaio sono state depositate in Cassazione le oltre 700mila firme raccolte per i referendum sul lavoro raccolte dal comitato unitario costituito da Rifondazione Comunista, Sinistra e Libertà, Italia dei Valori, Comunisti Italiani e dalla FIOM-Cgil. Il risultato è nettamente superiore alla soglia minima delle 500mila firme necessarie, il primo risultato per il comitato quindi è raggiunto.
Nonostante i nostri appelli, il Presidente della Repubblica ha deciso di sciogliere le camere prima della fine dell’anno, mettendo a rischio la validità delle firme. Il gesto di Napolitano è molto grave, sarebbe bastato sciogliere le camere nei primi giorni di gennaio per permettere la consegna delle firme senza cambiare nulla nel corso della crisi politica.
Per permettere lo svolgimento delle consultazioni sull’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e sull’Articolo 8 della legge Sacconi, il Comitato Promotore percorrerà tutte le vie legali possibili. Inoltre facciamo appello a tutti i candidati alle elezioni di febbraio perché dimostrino di non avere paura della consultazione democratica, e garantiscano con un decreto la validità delle firme, come già successo in passato.
Come Comitato Provinciale, che oltre alle forze del comitato nazionale aggiunge l’Unione Sindacale di Base, ringraziamo le centinaia di cittadine e cittadini che in provincia hanno firmato per i quesiti e garantiamo che continueremo la battaglia contro i licenziamenti ingiusti e contro una contrattazione che peggiora le condizioni materiali delle lavoratrici e dei lavoratori.
Intervista a Antonio Ingroia di Eleonora Martini Da procuratore aggiunto della procura distrettuale antimafia di Palermo, Antonio Ingroia ha sempre difeso il 41 bis, il regime carcerario duro riservato ai detenuti per reati di mafia, attenzionato perfino dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Ora, nella sua lista «Rivoluzione civile» - a fianco ad Antonio Di Pietro, contrario a qualunque forma di amnistia e anche al codice identificativo per gli agenti - ha voluto anche un "simbolo" come Ilaria Cucchi, sorella del giovane Stefano morto nel 2009 dopo i maltrattamenti subiti da detenuto. Ma se gli si fa notare che al centro della loro agenda politica sembra esserci più il giustizialismo che il problema dell'illegalità del sistema penale italiano, risponde: «Non è vero. Quando leggerete il nostro programma vedrete che non è così».
La Corte europea dei diritti umani condanna l'Italia per la reiterata e strutturale violazione dei diritti dei detenuti. Se l'aspettava?Non mi sorprende: conosciamo bene la drammaticità della situazione delle carceri, frutto di una politica scellerata di gestione della giustizia che ha riempito le celle di poveracci spesso in attesa di giudizio. Bisogna intervenire sui tempi lunghissimi dei processi, sulle misure alternative e così via. Cose che la magistratura, soprattutto quella progressista e democratica, predica inutilmente da tanto tempo.
L'Europa ci dà un anno di tempo, davvero poco per risolvere una tale mole di problemi. Se lei fosse presidente del consiglio cosa farebbe subito?Con un provvedimento urgente per introdurre misure alternative alla detenzione per i reati non gravissimi, avremmo intanto una forte limitazione al sovraffollamento carcerario.
Introdurre? Ma ci sono già le misure alternative, ne occorrono altre?No, io dico che bisogna favorire un'applicazione urgente ed immediata delle misure alternative ampliando la platea a cui si applicano oggi. Dopodiché, ovviamente, occorre studiare con calma un articolato, ma certamente di fronte a questa sentenza l'unica cosa da fare è provvedere immediatamente a sfollare le carceri. Davanti a un tale sovraffollamento, la soluzione non è certo l'edilizia carceraria, indicata in genere dalla destra. Non occorrono più carceri, ma meno detenuti.
L'amnistia, come propongono i Radicali?Beh, l'amnistia è una soluzione drastica. Purché non se ne approfittino i soliti impuniti e sia mirata solo ad un certo tipo di reati. Purtroppo spesso è accaduto che si sia utilizzato il carcere come pretesto per ottenere l'amnistia per i colletti bianchi che rispondevano di reati di pubblica amministrazione o affini.
Quindi per lei rimane più importante tenere dentro questo tipo di criminali...Noi abbiamo un sistema penale e penitenziario classista, dove in carcere finiscono i poveracci e in libertà ci sono i potenti. Va ristabilito il principio di uguaglianza: i potenti che hanno commesso gravi reati devono stare in carcere e i poveracci che hanno commesso reati bagatellari, che spesso non si possono neanche permettere un difensore che gli consenta di accedere alle misure alternative, vadano fuori.
Però il carcere in realtà non è pieno di poveracci che hanno commesso reati bagatellari, piuttosto è intasato da persone finite nelle maglie di tre leggi: quella sulle droghe, sulla recidiva e sull'immigrazione clandestina. Cosa pensa, per esempio, della Fini- Giovanardi?Penso che l'uso delle droghe non dovrebbe mai essere criminalizzato. La legge Fini ha determinato l'incarcerazione anche per il solo consumo di fatto, con l'equiparazione delle droghe leggere a quelle pesanti, inammissibile e inaccettato in qualsiasi parte del mondo. Si figuri che in un Paese che non ha certamente una storia libertaria come il Guatemala, da cui vengo, il presidente della Repubblica, un ex militare, un uomo di destra, recentemente ha proposto la liberalizzazione delle droghe leggere.
E lei la proporrebbe?Assolutamente sì, l'ho sempre pensato da magistrato, figuriamoci se non lo penso da politico.
Leggi Bossi-Fini e ex Cirielli: che ne farebbe?La criminalizzazione dei migranti è inammissibile. Anche qui vengono puniti i poveracci piuttosto che i trafficanti di esseri umani. Anche l'ex Cirielli va cambiata. Per questo parlo di riforme che consentano di avere una robusta depenalizzazione e un accesso più semplice, diciamo così, alle misure alternative.
Ma il decreto Severino, per esempio, sarebbe stato applicato a pochissime centinaia di persone, qui invece parliamo del 42% dei 66 mila detenuti che sono ancora in attesa di giudizio. Forse c'è anche un problema culturale della magistratura, non crede?No. Credo invece che sia un problema di politica criminale: se è tutta sbilanciata sulla carcerazione nella fase delle indagini invece che nella fase del dibattimento, di conseguenza la magistratura utilizza poi gli strumenti che ha a disposizione. Tocca alla politica riorientare verso la centralità del dibattimento e respingere al massimo il ricorso alla detenzione prima del giudizio.
Cesaratto,
Brancaccio, Stirati, Gnesutta: quattro economisti italiani smontano i quattro
più importanti “luoghi comuni” che riempiono le pagine dei giornali, nei giorni
che precedono il vertice di Bruxelles del 28 e 29 giugno, nel quale si deciderà
il futuro dell’Europa. Tesi economiche ripetute come un mantra, eppure false
sul piano teorico ed empirico. Quattro economisti “critici” ci spiegano perché
le tesi fondamentali dell’economia neoliberista non sono la soluzione, ma il
problema.
1. Per salvare l’euro serve un’Europa politica basata
sull’austerity? NO.
Assolutamente
no se per Europa politica si intende ciò che ha più volte ripetuto Angela
Merkel. L’Europa che ella prefigura è assai inquietante: una definitiva
espropriazione della libertà democratica dei cittadini sulle decisioni in
materia di bilancio, accentrate a Bruxelles. In cambio la Germania propone un
“fondo di redenzione” in cui i Paesi metterebbero in comune il debito eccedente
il fatidico 60 per cento del Pil, impegnandosi a restituirlo in una ventina
d’anni. Null’altro che un rafforzamento del cosiddetto fiscal compact già
imposto da Berlino: due decenni di austerità assicurata in una Europa divisa
fra ricchi e poveri. È questa una prospettiva inaccettabile e disastrosa. Più
Europa servirebbe, invece, se l’obiettivo fosse quello di assicurare la
crescita delle aree più svantaggiate. Qualsiasi soluzione deve rispondere al
problema alla base della crisi: la moneta unica ha aggravato i differenziali di
competitività fra le economie europee deboli e forti. Questo ha prodotto una
decade di stagnazione e poi la crisi per l’Italia, mentre la Spagna ha
mascherato il problema dietro una crescita di carta, anzi di mattone,
finanziata da afflussi di capitali tedeschi e si ritrova oggi indebitata sino
al collo. In genere coloro che credono nei poteri salvifici dell’Europa
politica tralasciano tali problemi e ne trascurano i relativi costi e ostacoli
politici, provenienti soprattutto dai tedeschi. Una Europa politica genuina e
sostenibile implica infatti principi di riequilibrio economico fra Paesi e di
perequazione sociale fra i propri cittadini che possono essere realizzati in
due modi. Il primo è una vera svolta europea volta a: mettere assieme i debiti
pubblici (eurobond) stabilizzando i debiti pubblici nazionali, invece di
ridurli; creare un bilancio federale degno di questo nome per sostenere
domanda, occupazione e ambiente; riformare la Bce nella direzione del sostegno
alla politica fiscale e sviluppo; fissare un target di inflazione almeno al 4
per cento, con l’impegno tedesco ad attenersi a tale obiettivo, dando spazio al
recupero di competitività dei Paesi periferici. In alternativa si potrebbe
procedere verso una “transfer union” che mantiene lo status quo nelle
competitività relative, mentre i Paesi forti redistribuiscono alla periferia i
proventi dei surplus commerciali sotto forma di congrui trasferimenti monetari,
in modo da realizzare una perequazione negli standard di vita. Mentre la
seconda strada è chiaramente inattuabile, la prima potrebbe essere
tempestivamente perseguita. Ciò senza richiedere premature ed eccessive
cessioni di sovranità nazionale. Ma l’opposizione della Germania a quelle
ragionevoli misure è formidabile, non volendo quel Paese abbandonare il proprio
modello neomercantilista basato sulle esportazioni. In verità c’è al momento un
bailamme di proposte volte ad aprire un varco al muro dei nein tedeschi. La
confusione è dunque grande e non promette nulla di buono e di tempestivo,
mentre i mercati non perdoneranno le mezze misure. Appena i tassi sui buoni
decennali italiani supereranno il 7 per cento preparatevi al peggio.di Sergio Cesaratto. Ordinario di economia politica
all’università di Siena.Scrive sul blog
politicaeconomiablog.blogspot.com
2.
L’aumento dello spread dipende dal debito pubblico degli Stati? NO.
Lo
spread è la differenza tra due tassi d’interesse. Nello specifico, è la
differenza tra i tassi di interesse che pagano sul proprio debito i Paesi
periferici dell’euro e il tasso pagato sui titoli della Germania. Lo spread
tende ad aumentare quando il mercato inizia a contemplare l’eventualità di una
caduta del valore dei titoli dei Paesi periferici. Per convincere i mercati a
trattenere i titoli e magari ad assorbirne di nuovi, bisogna offrire un tasso
d’interesse più elevato. In genere è così che lo spread inizia la sua
inquietante scalata. Fin dalla nascita dell’euro, e in modo ancor più
accentuato a partire dalla crisi del 2008, gli spread dei paesi aderenti alla
zona euro hanno presentato correlazioni non tanto con il deficit e il debito
pubblico, quanto piuttosto con il deficit e il debito verso l’estero, sia
pubblico che privato. In altri termini, non è l’eccesso di spesa pubblica sulle
entrate fiscali a preoccupare tanto, quanto piuttosto l’eccesso di importazioni
sulle esportazioni verso l’estero. Un eccesso che si concentra nei paesi
periferici dell’Unione e che rappresenta l’immagine speculare del surplus di
esportazioni tedesco. Rispetto alla vulgata, che si concentra pressoché
esclusivamente sui pericoli derivanti dai bilanci pubblici, questi risultati
appaiono sorprendenti. Eppure, la loro spiegazione è semplice. Gli alti tassi
d’interesse, e quindi anche gli alti spread rispetto ai tassi tedeschi, si
spiegano con il fatto che gli operatori sui mercati prevedono non semplicemente
un fallimento di alcuni Stati, quanto piuttosto un loro sganciamento dall’Euro
e una svalutazione del cambio. In particolare, in una fase di crisi come
l’attuale, i Paesi in deficit commerciale verso l’estero potrebbero vedersi
costretti a un certo punto ad abbandonare la moneta unica, riconquistare la
sovranità monetaria e svalutare la moneta nazionale. Se dunque lo spread sale,
ciò significa che gli operatori finanziari non prevedono semplicemente un
default di alcuni Stati, ma si attendono che questi abbandonino la zona euro.
Chi contempla questa eventualità risulterà disposto a trattenere i titoli dei
Paesi a rischio di sganciamento solo in cambio di tassi d’interesse più
elevati. Pertanto, l’evento che appariva inconcepibile appena pochi mesi fa,
ora viene scontato nei valori effettivi ai quali si scambiano i titoli sui
mercati finanziari. Ed è bene ricordare che tale sconto avviene sui titoli sia
pubblici che privati: la previsione di una uscita dall’euro modifica il valore
dei debiti non solo dello Stato ma anche delle banche, delle imprese e delle
famiglie.di Emiliano Brancaccio e Marco
Passarella, autori diL’Austerità
è di destra. E sta distruggendo l’Europa(Il Saggiatore, Milano 2012).Nel
2008 Brancaccio scrive il saggioDeficit
commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista(Studi economici, 2008), nel quale anticipa il tema di
un’Europa divisa traNord e Sud e prevede la crisi degli
spread
3.
Per tornare alla crescita bisogna liberalizzare il mercato del lavoro? NO.
Secondo
la teoria tradizionale la deregolamentazione del mercato del lavoro e la
flessibilità verso il basso dei salari farebbero aumentare l’occupazione. Si
sostiene, cioè, che la domanda di lavoro è inversamente proporzionale al suo
costo. Più alti sono i salari, minore è la domanda di lavoro, più cresce la
disoccupazione. Questa idea nel corso del ’900 è stata messa in discussione de
Keynes e Sraffa e sul piano empirico non ha riscontri. Persino un’istituzione
internazionale favorevole alla liberalizzazione del mercato del lavoro come
l’Ocse nei suoi studi non ha trovato relazioni tra gli indici di protezione
dell’impiego e i tassi di disoccupazione. Altri studi dimostrano al contrario
che la disoccupazione è in relazione con l’andamento della domanda aggregata. E
che esiste una relazione positiva tra alti salari, crescita dei consumi,
crescita del Pil e alta occupazione. La deregolamentazione del mercato del
lavoro e la spinta in basso dei salari possono determinare anche la riduzione
della produttività: le imprese, potendo comprimere il costo del lavoro, sono
meno incentivate a introdurre innovazioni tecnologiche. In un mercato aperto,
una riduzione dei costi e dei salari può effettivamente consentire una crescita
delle esportazioni. Ciò è recentemente avvenuto, ad esempio, in Irlanda e in
Germania. La prima ha attratto investimenti offrendo alle imprese vantaggi
fiscali. La Germania è invece riuscita a far crescere la produttività, senza
far crescere i salari. Ma la competitività è sempre relativa. Se tutti i
competitori abbassano i salari, non vince nessuno. L’unico risultato è una
riduzione della domanda e della crescita. Per recuperare il differenziale di
competitività con la Germania i Paesi della sponda Sud dovrebbero ridurre i
salari e i prezzi dei beni esportati di qualcosa come il 30 per cento. Se
accadesse (come è probabile) che la riduzione dei salari non producesse
un’eguale discesa dei prezzi, il potere d’aquisto delle retribuzioni si
ridurebbe, creando contraddizioni sociali insostenibili. D’altra parte se anche
i prezzi scendessero, questo renderebbe comunque il debito contratto, sia
pubblico che privato, più oneroso, con conseguenze gravissime. Se il problema è
di riallineare la competitività di Berlino con quella dei Paesi della sponda
Sud, ciò si può fare anche facendo crescere sia i salari reali (in modo da
recuperare il terreno perduto rispetto alla produttività) che i prezzi in
Germania. L’inflazione ha conseguenze meno negative della deflazione. E ciò
potrebbe trovare consensi anche tra i lavoratori tedeschi.di Antonella Stirati, docente alla facoltàdi Economia Federico Caffèdell’università Roma tre. Scrive sulsitoeconomiaepolitica.it
4.
La Bce non può fare nulla per sostenere crescita e occupazione? NO.
Chi
sostiene che la Bce non può far nulla per la crescita e l’occupazione assume
aprioristicamente che l’unico modo di essere banca centrale è quello definito
dallo statuto dell’Istituto di Francoforte. Ma le funzioni attribuite a una
Banca centrale sono solo il riflesso di un particolare momento storico. Nella
realtà del passato obiettivi e strumenti sono stati variamente declinati; nel
caso della Bce – sotto la pressione del pensiero neoliberale – la scelta
politica è stata esplicita: l’obiettivo è il contenimento del tasso
d’inflazione dell’area e lo strumento è la regolazione del volume di liquidità
sul mercato monetario (quel particolare mercato internazionale in cui le banche
si scambiano i mezzi liquidi eccedenti). L’interlocutore della Bce sono quindi le
banche (il settore pubblico è posto in un angolo) nell’assunto che le loro
decisioni siano quelle più valide per l’intero sistema: gli obiettivi delle
banche divengono così di fatto gli obiettivi di politica economica. Seguendo
questa logica la Bce ha rinunciato a svolgere il suo ruolo di prestatore di
ultima istanza nei confronti degli Stati, vittime della crisi degli spread.
Inoltre l’azione della Banca centrale, seguendo l’onda americana, ha tenuto
bassi i tassi d’interesse sui fondi più liquidi sostenendo la spinta dei
risparmiatori (e degli istituti finanziari) a spostarsi verso attività
finanziarie più rischiose; paradossalmente i bassi tassi d’interesse non hanno
favorito l’attività produttiva (tranne l’immobiliare). Infatti il minor costo
del credito è stato più che compensato dalle minori attese di redditività
dell’apparato produttivo, causate dalle deboli condizioni di domanda.
L’attività finanziaria si è quindi avvantaggiata a scapito di quella
produttiva. Dopo lo shock della crisi finanziaria americana la Bce ha cambiato
il passo, ma non il suo quadro di riferimento. Sulla crisi bancaria è
intervenuta immettendo quantità rilevanti di liquidità che hanno dato respiro
alle banche in difficoltà; ma sulla crisi dei debiti pubblici ha ceduto il
passo, limitandosi a spingere la banche a investire sui titolo di debito degli
Stati. È in ogni caso il sistema delle banche a essere il terminale delle
scelte di politica economica. La Bce potrebbe fare molto di più per la crescita
e l’occupazione. Ma servirebbe un diverso contesto istituzionale, in cui il
sistema finanziario sia in grado di rappresentare un contenimento della finanza
(speculativa) globale al fine di sostenere le opportunità produttive
all’interno dell’area. È un aspetto dell’ormai necessaria ristrutturazione
istituzionale europea per una politica economica che ponga al suo centro
l’occupazione, i suoi redditi e i suoi diritti. Finora l’assetto della Bce e il
suo comportamento è stata coerente con il quadro neoliberista all’interno del
quale è nata (e che tanti danni ha fatto). Ma nulla vieta, se non radicati
interessi, che essa possa assumere un diverso assetto e adottare comportamenti
coerenti con un quadro di politica economica che si proponga la realizzazione
di un’effettiva cittadinanza europea. Sulla consapevolezza della necessità di
cambiare quadro non vi sono molti segni, ma vi sono.di Claudio Gnesutta, ex docente di Economia politica a
La Sapienza di Roma,esperto di politica monetaria.
Scrive sul sitosbilanciamoci.info
Finalmente siamo in campo. Antonio Ingroia, uomo autorevole e con la schiena dritta, che in questi anni e negli ultimi mesi ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di battaglie importanti e difficili, è il nostro candidato premier.
Le sue battaglie per la legalità costituzionale, per la democrazia, contro le mafie e contro gli intrecci perversi tra queste e la politica, tra queste e lo Stato sono le nostre battaglie. Quelle della parte migliore del Paese, delle sue forze vive e dinamiche. I dieci punti programmatici che sorreggono la candidatura di Ingroia e la lista Rivoluzione Civile sono la base di una proposta di governo alternativo del Paese. Incompatibile con il berlusconismo e con il montismo, alternativa alle alleanze che – direttamente o indirettamente – propongono una continuità con i disastri delle politiche degli ultimi vent’anni, in sintonia con le lotte sociali e civili di chi resiste.
In particolare sono due, tra i tanti, i motivi che ci spingono a credere che sia possibile, con Ingroia, aprire il libro dei sogni.
Il primo è che con questo percorso si realizza una parte importante del progetto messo in campo da molti di noi con la campagna referendaria in difesa del lavoro: un progetto unitario della sinistra italiana che mira a ricostruire per il presente e il futuro del Paese una rappresentanza unitaria del mondo del lavoro, dei movimenti, della società civile progressista, esattamente ciò che è mancato – drammaticamente – in questi anni.
Per noi il lavoro è il mondo dell’economia reale, il lavoro dipendente, subordinato e parasubordinato, nonché quelle piccole realtà autonome strangolate dalle tasse, dalle mafie e dall’assenza di politiche industriali lungimiranti che pongano finalmente il tema fondamentale di cosa, come e per chi produrre.
Anche per questo serve molto coraggio e lavorare per gettare le basi affinché questo progetto si strutturi, rafforzi progressivamente, anche dopo le elezioni, il suo corpo e la sua anima.
Il secondo motivo è che vediamo in questa nuova aggregazione uno strumento straordinario di rinnovamento e di cambiamento nella sinistra italiana, che tenga uniti diritti sociali e civili, equità, lavoro, laicità. Sul piano delle forme organizzative e dei linguaggi e anche sul piano generazionale.
La nostra generazione vive il peggiore dei paradossi: subisce sulla propria pelle il massimo della sofferenza e della precarietà e al contempo esprime il massimo della distanza dalla partecipazione e dalla lotta politica. Qui si colloca quella che in molti chiamano passività ed anti-politica. Ma è un paradosso apparente perché a produrre sofferenza e precarietà è proprio questa politica prodotta da queste classi dirigenti. Si tratta di mettere in campo un’altra politica, una nuova politica, una politica nuova, fatta per le nuove generazioni dalle nuove generazioni.
Una politica che ponga al centro l’obiettivo della piena e buona occupazione – innanzitutto giovanile – e l’esigibilità di forme di salario e reddito garantito nell’ambito di un altro modello di sviluppo, sostenibile e democratico, basato sulla riconversione ecologica del sistema economico. Crediamo fermamente in un’economia verde ed ecosostenibile, capace di ridare dignità alla ricerca pubblica, fondata sulla salvaguardia del territorio, sulla valorizzazione dell’agricoltura di qualità, sull’aumento della quantità e della qualità del trasporto pubblico, su di una politica per l’abitazione non invasiva dal punto di vista dell’impatto ambientale.
Questi impegni programmatici non devono poggiare – come altrove si è fatto in questi anni – sull’affidamento al leader carismatico, alla figura salvifica che risolve con la propria presenza i limiti e i problemi del corpo collettivo. Si tratta di investire in un progetto di cui tutti noi dobbiamo – con le nostre storie e soprattutto con il nostro sguardo rivolto al futuro – farci soggetto protagonista e determinante.
Come ci hanno insegnato le pagine più belle della nostra Storia, come ci ha insegnato Peppino Impastato e tutti coloro che hanno saputo unire l’impegno militante per la legalità e la democrazia con l’impegno intransigente per la giustizia e l’eguaglianza. Giovani dalla parte del cambiamento. Per una vera rivoluzione civile.
prime adesioni:
Veronica Albertini
Claudia Bellano
Danilo Borrelli
Irene Bregola
Alfonso Cetera
Rosario Coco
Alessia Colantoni
Rocco Di Filippo
Marco Gaudini
Giuliano Girlando
Francesco d’Agresta
Roberto Foderà
Manuela Grano
Matteo Iannitti
Alessandro Lombardi
Massimiliano Mazzola
Simone Oggionni
Claudia Nigro
Luciano Pisanello
Matteo Pucciarelli
Elisa Scarano
Marco Severa
Emanuele Toscano
Nicola Pissas
Luciano Pisanello
Pasquale Videtta
per aderire scrivi a giovaniperlarivoluzionecivile@gmail.com
vi scrivo nel giorno in cui Ingroia ha sciolto le riserve sulla sua candidatura e si è ufficialmente candidato a presidente del consiglio per una lista che si chiama rivoluzione civile. Si tratta di un risultato positivo in se perché vuol dire che alle prossime elezioni vi sarà una lista a sinistra della coalizione dei democratici e progressisti, su posizioni chiaramente antiliberiste e antimontiane. La possibilità di portare in parlamento una delegazione di coloro che in questi anni – partiti, associazioni e comitati – si sono battuti contro le politiche liberiste – e negli ultimi mesi con le politiche di Monti – è oggi alla portata di mano e si tratta di un risultato di grande portata. Noi pensiamo che questo sia il punto fondamentale e che a partire da questo risultato – tutt’altro che scontato – occorra dare una valutazione positiva del risultato raggiunto.
A questo percorso abbiamo lavorato da mesi, all’interno del percorso aperto dall’appello cambiare si può e – da quando Ingroia ha fatto il suo appello – anche con le forze che si sono raccolte attorno a io ci sto, lavorando per unificare questi due percorsi.
In particolare abbiamo posto il tema della collocazione politica, chiedendo di sciogliere ogni ambiguità nel rapporto con il pd, cosa puntualmente avvenuta anche nella conferenza stampa di Ingroia di stamattina. In secondo luogo abbiamo chiesto ed ottenuto – rispetto al primo programma presentato da Ingroia – che vi fossero inseriti con assoluta chiarezza il no alle grandi opere a partire dalla TAV, il no al fiscal compact ed in generale una decisa messa al centro delle questioni sociali e del lavoro. In pratica una qualificazione chiara in senso antiliberista della lista stessa. Questo è avvenuto e quindi il problema della collocazione e del programma della lista si è risolto positivamente nella direzione da noi auspicata.
Per quanto riguarda il simbolo, trattandosi di una lista di coazione non contiene alcun simbolo di partito ma – per quanto ci riguarda – ha una chiaro riferimento al movimento operaio nella riproduzione del “quarto stato” in rosso nella parte bassa del simbolo. La scritta Ingroia al centro del simbolo – che certo è al di fuori della nostra tradizione e cultura politica – si rende necessaria dati i tempi strettissimi che abbiamo per far conoscere il simbolo a qualche decina di milioni di persone e quindi conseguire il risultato. In ogni caso noi faremo propaganda come Rifondazione Comunista invitando a votare la lista “rivoluzione civile”.
Per quanto riguarda la candidatura del sottoscritto – che come sapete non avevo mai posto come questione dirimente, in quanto consideravo la costruzione della lista il punto principalissimo e centrale a cui sacrificare ogni altra considerazione – la scelta di Ingroia è quella di avere la candidatura dei segretari di partito come riconoscimento del passo indietro fatto attraverso la non presentazione dei simboli in campagna elettorale. Proprio sulla questione della candidatura dei segretari di partito la delegazione nominata dall’assemblea nazionale di cambiare si può (Revelli, Pepino e Sasso) ha marcato un dissenso molto forte che adesso viene posto in votazione all’interno della rete di cambiare si può.
Nei prossimi giorni proseguiranno quindi gli incontri e nel CPN del 5 decideremo in via definitiva su tutte le materie riguardanti queste prossime elezioni.
Credo che abbiamo fatto un decisivo passo nella direzione giusta che stiamo perseguendo da mesi: Occorre continuare a lavorare per allargare le forze che concorrono alla lista a partire dall’obiettivo del pieno coinvolgimento di “Cambiare si può”.
Un caro saluto
Paolo Ferrero, Segretario Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista