lunedì 31 gennaio 2011

Sertori e PDL sull'orlo di una crisi (di poltrone)

Nota politica della Federazione della Sinistra di Sondrio sulla crisi politica della Provincia di Sondrio.



L'oggetto del contendere
tra PDL e Lega

La crisi della maggioranza di destra in Provincia, esplosa a seguito del voto di sfiducia al Presidente del Consiglio provinciale Patrizio Del Nero, ripropone lo scenario già visto nei giorni immediatamente successivi al voto amministrativo quando per le contraddizioni tra Lega e PDL l’avvio del dopo-Provera fu particolarmente tormentato. La quadratura del cerchio fu poi raggiunta, ma la storia della nuova amministrazione Sertori è punteggiata di altri contrasti, che hanno inciso in modo negativo sulla capacità della nuova Giunta di produrre una iniziativa all’altezza delle emergenze della provincia. Quello tra Lega e PDL è un conflitto per così dire endemico e, quindi, non stupisce più di tanto se esso sia oggi riesploso. Il nocciolo del contendere, così come l’hanno raccontato sui giornali gli stessi protagonisti, riguarda le modalità con cui viene gestito il potere e le forme con cui ciascuno dei contraenti del patto di governo della provincia concorre alla formazione delle scelte amministrative e partecipa ai dividendi elettorali dell’azione di governo. Per il PDL l’obiettivo è quello di ridimensionare il monopolio mediatico di Sertori, e per suo tramite della Lega, rivendicando per sé un ruolo che sia almeno quello del comprimario. Con un’abile gestione della propria immagine Sertori ha accresciuto il proprio credito presso l’opinione pubblica, millantando risultati “storici, come quello di aver portato “a casa le dighe”. Questo uso propagandistico del ruolo istituzionale consente alla Lega di parare i contraccolpi nel suo elettorato di un federalismo sempre più evanescente e sempre meno presentabile e, nello stesso tempo, di insidiare il bacino elettorale della destra berlusconiana. Questa è la vera ratio della crisi che si è aperta ed è la chiave per capire il suo decorso: occorre accontentare gli appetiti di chi, per usare le parole di Patrizio del Nero, vive con difficoltà il ruolo del “portatore d’acqua”. Siamo in presenza di un déjà vu ed è facilmente prevedibile che dopo una fase più o meno lunga di decantazione si riuscirà a trovare una sintesi tra i due litiganti con quella soluzione alla “tarallucci e vino”, che Del Nero dice di voler rifuggire. 

La crisi non nasce dunque da un nobile confronto politico nel quale si fronteggiano letture della realtà provinciale e ipotesi politiche diverse, ma da una volgare contesa di potere tutta interna alla casta. Mentre a Palazzo Muzio ci si scanna, Valtellina e Valchiavenna sono attraversate da una crisi pesante: la situazione economica con 2000 posti di lavoro persi è grave, la disoccupazione giovanile e intellettuale è in aumento, il lavoro precario si diffonde, il disagio sociale cresce, le prestazioni del sistema pubblico a seguito dei tagli ai trasferimenti statali si contraggono, le infrastrutture viarie e ferroviarie sono in una condizione disastrosa, la privatizzazione dell’acqua pubblica avviata con l’operazione SECAM sarà pagata dai cittadini, il rapporto con le società idroelettriche è ancora tutto da definire, i temi ambientali premono. Rispetto alla concretezza di questi problemi, la contesa in corso a palazzo Muzio appare come qualcosa di sideralmente lontano dai bisogni della gente.

Al di là degli accomodamenti che verranno escogitati per risolvere le contraddizioni tra i fratelli-coltelli di Lega e PDL, il problema reale è quello di trovare le forme attraverso le quali costringere il ceto politico ad occuparsi dei problemi aperti. La costruzione di un ampio movimento di opposizione al sistema di potere è la scommessa che questa crisi consegna alle forze della sinistra. Spetta a loro saper prospettare un percorso politico che sia alternativo all’azione scialba e subalterna ai poteri forti fin qui dimostrata dal duopolio Lega-PDL. Condizione indispensabile per muoversi in questa direzione è chiudere definitivamente la fase delle convergenze bipartisan, che su alcuni importanti temi si sono avute. Occorre dunque aprire un nuovo corso della sinistra all’insegna della chiarezza delle posizioni, unico modo per far capire agli strati popolari colpiti dalla crisi che una alternativa allo strapotere della destra è possibile

La rivolta del mondo arabo.

Per la prima volta, dopo decenni in cui il mondo arabo è stato stretto nella scelta tra i regimi corrotti filo-occidentali ed il fondamentalismo islamista, un durissimo e determinato movimento di lotta popolare sta facendo tremare gli equilibri. Prima la cacciata di Ben Alì dalla Tunisia ed ora le rivolte in Egitto e nello Yemen. Per capirne di più pubblichiamo un intervento di Fabio Amato, responsabile esteri del PRC ed un articolo dell'africanista Gian Paolo Calchi Novati.


Medioriente, tutto sta cambiando
di Fabio Amato
da www.unmondonuovo.it (sito del dipartimento esteri del PRC)


L'Egitto vive ore drammatiche. La polizia sta sparando sui cittadini che, incuranti del coprifuoco, continuano a manifestare per le strade della capitale egiziana e delle maggiori città del paese. La rabbia popolare sta spazzando via, dopo quello tunisino, il regime egiziano. Hosni Mubarak ha le ore contate. Le dimissioni del governo non sono servite, così come il discorso televisivo del Presidente e le sue minacce. Mubarak è un uomo sempre più solo e assediato. Abbandonato anche da coloro che fino a ieri gli erano fedeli alleati. E' possibile che quando questo articolo uscirà, egli sarà già deposto o in fuga. Tutto il medio oriente sta cambiando.
Nel giro di pochi giorni e settimane risulta stravolto lo scenario politico a sud del Mediterraneo. Anche lo Yemen e la Giordania sono in questi giorni teatro di imponenti mobilitazioni popolari. Sono ore convulse. Qualsiasi previsione rischia di essere smentita nel giro di poco tempo. Nell'evoluzione della transizione un ruolo chiave l'avrà l'esercito e il potente apparato di sicurezza che fino ad oggi ha servito il potere.
Si possono comunque avanzare ipotesi e valutazioni su quanto sta accadendo a pochi chilometri dalle nostre coste meridionali. E' chiaro che sta saltando in aria tutta la strategia statunitense nell'area.
Gli Stati Uniti, sorpresi sia dalla rivolta tunisina che da quella egiziana, stanno cercando di correre ai ripari. Se tre giorni fa esprimevano il loro incondizionato sostegno all'alleato di sempre, ora cambiano toni e interlocutori. Spaventati dalla possibilità che il domino innescato dalla Tunisia porti al potere politico la Fratellanza Musulmana, che ha nell'Egitto la sua patria, cercano in queste ore di cambiare il cavallo in corsa. L'Egitto è da oltre trent'anni il paese chiave della fragile pax americana. Se salta l'Egitto, salta tutto.
L'altro dato è il fallimento delle politiche di integrazione euro-mediterranea. L'Europa continua a non esistere come interlocutore politico e sociale. E' semplice spettatrice di eventi che cambieranno e non poco soprattutto il nostro futuro, condividendo con quei paesi non solo storia ma anche destini. L'Europa ha preferito alla costruzione di uno spazio politico comune e ad un'azione tesa a giocare un ruolo autonomo, quella di accodarsi all'imperialismo statunitense e di fare accordi commerciali promuovendo liberismo e privatizzazioni.
Altra considerazione riguarda la penosa politica estera italiana. Che segue servilmente quella degli Stati Uniti e si occupa di Egitto solo per coprire le grottesche bugie del saltimbanco di Arcore. La seduta del Senato in cui il nostro Ministro degli Esteri riferiva su Antigua e la vicenda Tulliani invece che su quanto sta stravolgendo tutto il Mediterraneo dimostra lo stato di indicibile bassezza a cui il berlusconismo e la sua corte hanno portato il nostro paese.
Per ciò che concerne l'opposizione, anche in Egitto, questa ha sofferto i colpi di una repressione decennale da parte del regime poliziesco di Mubarak. Oltre al movimento dei Fratelli Musulmani, esistono anche settori liberali, nasseriani, marxisti. Ed esiste una coalizione fra questi, Kifaya. El Baradei, premio Nobel per la pace e per anni a capo dell'Aiea, l'agenzia della Nazioni Unite per l'energia atomica, rappresenta al momento una delle figure più note e sul quale sembra convergere la diplomazia occidentale. Difficile prevedere come l'opposizione saprà costruire un'alternativa a Mubarak.
Tunisia, Egitto, Yemen, Giordania, le sommosse e le rivolte hanno in comune tre dati: regimi polizieschi e dittatoriali alleati dell'occidente che da tempo resistono solo grazie alla repressione; l'uso di internet che aggira la censura, insieme ai canali televisivi satellitari allnews, come Al Jazeera, che incidono da anni nella formazione di una opinione pubblica araba; i disastri delle politiche economiche e sociali neoliberiste. Nessun analista si sofferma su questo. Esiste una base materiale delle rivolte. La crisi globale del capitalismo, l'infame speculazione sui beni di prima necessità, stanno producendo i loro effetti. L'Egitto negli ultimi anni è stato teatro di rivolte per il pane, che in arabo chiamano vita, di scioperi e proteste operaie. Anche qui, come in Tunisia, la crescita economica è stata a vantaggio delle ristrette elite. Fallimento del neoliberismo e collasso dei regimi reazionari amici dell'Occidente. Cosa nascerà da tutto ciò è difficile prevedere. Si illudono tuttavia coloro che pensano che tutto tornerà come prima. Si illude chi pensa che bastino riforme politiche a placare la rabbia. Queste rivolte chiedono libertà e giustizia sociale. Senza una profonda e radicale messa in discussione delle politiche liberiste quelle mediorientali saranno solo le prime rivolte di una lunga serie. Che non è detto non possano attraversare il Mediterraneo e arrivare anche sulle nostre sponde.

E ora, chi salverà Mubarak?

di Giampaolo Calchi Novati 
Su "Il manifesto" del 28/01/2011


Una volta era l'Egitto a dare il via alle svolte in Medio Oriente. I baathisti di Damasco e Baghdad guardavano al Cairo mettendo a disposizione dello stato arabo più forte il carisma storico delle antiche capitali del Califfato. Il giovane Gheddafi cercò la legittimazione come leader arabo all'ombra di Nasser riferendo - o inventando - la piccola frase con cui il Rais nel loro primo e unico incontro lo avrebbe designato a suo erede. Distrutto l'Iraq dalle fobie dei Bush e indebolita la Siria dal contenzioso sempre aperto con Israele, che costringe Assad suo malgrado a un «profilo basso», sono due paesi non-arabi e per certi versi eccentrici,Iran e Turchia, ad avere l'iniziativa nella regione.
A distanza di tempo, si può dire che il proposito di Obama di accreditare l'Egitto come il perno per la Grande Riforma del Grande Medio Oriente è fallito due volte: niente «politica nuova" e niente primato del Cairo. Il messaggio al mondo arabo e islamico del 4 giugno 2009 è rimasto un bel discorso da citare nei libri di storia. Forse, senza volerlo, ha persino danneggiato l'Egitto perché ha reso più evidente, e più penosa, la sua impotenza.
E ora chi salverà Hosni Mubarak? La domanda è senza risposta perché gli stessi centri che mostrano di volerlo difendere, gli Stati Uniti e i governi europei, sono nello stesso tempo una causa della sua debolezza, se non altro agli occhi delle schiere di oppositori in attesa che le belle parole sulla democrazia e i diritti siano finalmente messe in pratica. Il sostegno a Mubarak, come quello a Ben Ali ieri, è la prova del disprezzo che alla prova dei fatti la politica dominante in Occidente nutre per i popoli arabi, puntellando in tutti i modi come loro governanti personaggi di cui tutti conoscono benissimo i misfatti e che appena vengono rovesciati diventano dei paria. Il trattamento riservato da Sarkozy al presidente tunisino deposto ha aggiunto solo onta a onta alla figura del signore dell'Eliseo. È giusto in ogni modo che siano i popoli «minori» a risolvere i loro problemi con i pochi mezzi che lascia loro una politica asfittica anche per responsabilità esterne. Non si ripete di continuo che è meglio non dare troppa libertà a questi popoli per evitare che vincano gli estremisti? Anche il nostro ministro degli Esteri vede in Mubarak il baluardo insostituibile, salvo sdegnarsi, giusto un anno fa, per le rimostranze espresse dal governo egiziano dopo le violenze contro gli immigrati a Rosarno, tanto più ingiustificate, si disse, perché fra le vittime non c'erano egiziani. Ognuno può giudicare da sé il livello di un simile argomento.
Ancora più della Tunisia, l'Egitto, nonostante il declino di questa lunga «fine di regno», dispone in linea di principio di tutti i requisiti per risollevarsi. Per le sue dimensioni territoriali, l'esperienza dello stato e la maturità del corpo sociale, l'Egitto è il candidato naturale ad attirare i capitali del mondo arabo e del mondo in quanto tale. Il suo ritardo in relazione ad altri paesi della regione è difficile da spiegare. Certo, l'Egitto sconta le peripezie alterne di una politica estera che l'ha penalizzato sia quando è stata troppo ardita che quando si è ritratta in se stessa. La stessa «apertura» a Israele su cui Sadat giocò il suo potere e la sua vita non ha portato i risultati sperati. E qui intervengono le colpe altrui. Chi ha dato risalto alla «grandezza» dell'Egitto ha anche manovrato perché quella grandezza fosse tenuta sotto controllo e se possibile sminuita. La funzione stabilizzante di Nasser fu scoperta solo quando era troppo tardi: sconfitto senza scampo nella guerra del 1967, il Rais morì pochi anni dopo senza essersi mai ripreso del tutto da quella umiliazione, caricato, proprio per la sua posizione di leadership, dell'odissea negativa del popolo palestinese, culminata intanto nel «settembre nero», su cui spese le sue ultime energie. Anche nei travagli correnti dell'Egitto una delle cause principali è la questione palestinese, con la spina di Gaza conficcata nella sua stessa carne. Il Sudan è un altro smacco.
Probabilmente l'ultima parola, anche e soprattutto se la piazza dovesse continuare a farsi sentire, spetterà all'esercito. Sotto questo punto di vista, l'Egitto assomiglia più all'Algeria che alla Tunisia. Dal 1952 a oggi si sono succeduti quattro presidenti, da Neguib a Mubarak, tutti militari. Pensare al precedente di Atatürk è quasi obbligato, con o senza un altro generale o colonnello, anche se è un po' bizzarro rilanciare il kemalismo in Egitto mentre perde colpi in Turchia. È scontato che le prossime elezioni presidenziali saranno ancora sotto stretta sorveglianza. Un'altra mortificazione per una nazione e una società così ricche. Più della pur urgente riforma istituzionale, decisiva sarà alla fine la strada - strettissima nelle condizioni in cui si trovano a operare i paesi della periferia o semi-periferia - per coniugare la crescita con l'equità, che è il presupposto di ogni stabilità. Le liberalizzazioni varate nel 2004 non sono bastate a risanare l'economia: la crescita ha beneficiato ceti ristretti con poche ricadute sui servizi sociali e pochissima ridistribuzione.




venerdì 28 gennaio 2011

Lo sciopero della FIOM è un successo: ora facciamolo GENERALE!


Nonostante la censura dei media e il tentativo delle opposizioni di dirottare il discorso pubblico su qualsiasi cosa che non sia il lavoro, lo sciopero generale del settore metalmeccanico indetto dalla FIOM è stato un successo, anche in provincia di Sondrio si registrano punte di adesione all'85%! Le manifestazioni in tutte le regioni hanno dimostrato che la società capisce la battaglia della FIOM ed è solidale. La Federazione della Sinistra e i Giovani Comunisti di Sondrio erano presenti a Milano, dove il compagno Maurizio Landini, segretario generale dei metalmeccanici, ha rinnovato la richiesta di Sciopero Generale di tutte le categorie.


Oliviero Diliberto: portavoce della Federazione della Sinistra:


Sciopero generale: un passo per un futuro migliore



Cos’è il contratto nazionale di lavoro se non il riconoscimento che ogni lavoratore, da Trieste a Marsala, deve usufruire degli stessi diritti minimi? E’ un pezzo di unità d’Italia basato su un’uguaglianza di fondo. Da questo punto di vista Marchionne è pericoloso quanto Bossi. Per questo inquieta la distanza che avverto tra la capacità di lotta dei lavoratori e la titubanza della Cgil a dispiegare il suo straordinario potenziale. Per essere più espliciti: a proclamare lo sciopero generale. C’è una grande attesa tra i lavoratori e gli studenti che – la Cgil mi permetta di dirlo - non va delusa.

La Fiom sta delineando un percorso di grande importanza da seguire con attenzione e generosità. Se è vero, come la stessa Camusso ha più volte giustamente denunciato, che c’è una solitudine del disagio operaio, considerato un pezzo di mondo secondario che non fa notizia (al più fa rumore e disordine ma non notizia), questo disagio va incanalato assieme a tanti altri percorsi simili, che riguardano gli studenti, i pensionati, le famiglie, le donne, gli immigrati. Altrimenti il disagio può cambiare caratteristiche: diventare passività, massimalismo, corporativismo. La Fiom sta compiendo in questo periodo un piccolo miracolo. Sta diventando il punto di aggregazione e di riscossa di tanti che non ce la fanno più e vogliono un futuro migliore. A noi, alla sinistra, a quella grande organizzazione di massa che è la Cgil, spetta il compito di costruirlo assieme a loro, questo futuro migliore, passo dopo passo.
La richiesta è una sola: sciopero generale.



di Maurizio Pagliassotti (Liberazione del 29-01-2011) 

Troppe zoccole e troppo Berlusconi in Italia. Sono venuta in piazza per stare con gente seria». Il parere è di Raffaella Rosadi, milanese, non metalmeccanica. Già, perché ieri a Torino non c’erano solo le tute blu. E quella di Raffaella non era una voce isolata nel corteo che ieri ha attraversato Torino. Certo la stragrande maggioranza dei manifestanti erano operai e impiegati del settore metalmeccanico, ma una fetta consistente della città, umiliata dalle cronache recenti, ha trovato sfogo nel corteo della Fiom. Così, a Torino, ieri si sono saldate diverse lotte: quella contro i papponi collusi con mafia ladri ed evasori, quella contro Marchionne e la sua idea di sindacato giallo «dalla vergogna», quella contro il trio Sacconi, Gelmini, Tremonti. Ma anche contro il Pd, di cui ieri non c’era nemmeno mezza bandiera presente. Bandiere rosse a profusione, invece, divenute oggetto di un passaggio di Giorgio Airaudo nel suo comizio: «Le bandiere rosse, caro dottor Marchionne, in Italia hanno un passato glorioso perché ricordano battaglie per la civiltà, l’uguaglianza e i diritti». Delirio di applausi. E se la manifestazione di Torino era contro molte cose era anche molto pro. Pro diritti, pro sicurezza sul lavoro, pro ricerca, pro cultura, pro libertà. E osservando la moltitudine che ha trovato nella Fiom la propria interprete, viene da domandarsi cosa accadrà a Mirafiori quando questa non dovesse esserci, ed a gestire il dilagante malcontento degli operai rimanessero solo Fismic , Fim, Uilm e Ugl. Auguri. Un dato interessante: sempre dal palco Airaudo ieri ha citato lo studio de Lavoce.info che evidenzia come l’ottanta per cento di coloro che hanno votato sì al referendum di Mirafiori lo hanno fatto perché «necessario per salvare il posto di lavoro». E’ la prova che dentro le carrozzerie oggi circa il 90% degli operai non crede né a Marchionne, né ai sindacati firmatari che due settimane fa si sono detti «soddisfatti della vittoria». Il corteo è partito alle dieci del mattino da Porta Susa ed ha raggiunto piazza Castello dove si sono svolti gli interventi finali. Era aperto dagli operai delle carrozzerie di Mirafiori che recavano lo striscione «Fiat: l’accordo della vergogna». Dietro di loro le rappresentanze di decine di fabbriche metalmeccaniche del torinese. Qualche nome: Lear, Sandretto, Iveco, Ceva, Bertone, trentacinque pullman operai in arrivo da tutto il Piemonte. Massiccia anche la presenza di tutti i sindacati di base. Un serpentone fatto di facce nuove e non i soliti noti che si vedono ai cortei torinesi. L’adesione alla Powertrain secondo la Fiom è stata pari all’ottanta per cento. 

Cifre contestate dagli industriali e dai “loro” sindacati. Dopo circa due ore di marcia tutti i manifestanti si sono raccolti per ascoltare gli interventi dei relatori. Il segretario confederale della Cgil Enrico Panini è stato autore di un disperato intervento coperto da una folla urlante che lo ha severamente contestato,scandendo lo slogan «sciopero generale». Ad iniziare la contestazione i ragazzi dei centri sociali, poi seguiti dal grosso della folla. Giorgio Airaudo, ormai semiconvinto dalle Rsu Fiom a non lasciare il sindacato, ha concluso la manifestazione con queste parole: «Con la nostra forza e con il rispetto che dobbiamo alla Cgil diciamo che sono maturi i tempi per lo sciopero generale. La Cgil deve mettersi alla testa di questo movimento per un Paese migliore, per mandare a casa un governo che ha fatto solo del male ai lavoratori. Noi non rinunceremo mai al contratto nazionale e lotteremo fabbrica per fabbrica per riconquistarlo». In mezzo alla folla Paolo Ferrero, segretario del Prc: «L’attacco di Marchionne riguarda tutti i lavoratori e quindi ci vuole una risposta generale. La Cgil deve fare un salto di qualità non lasciando da sole le persone che hanno bisogno di un riferimento sicuro. Sul versante politico è criminale mantenere le divisioni quando c’è bisogno di un punto di vista unitario».


giovedì 27 gennaio 2011

27 gennaio, Giornata della Memoria

"Ogni essere umano che ami la libertà deve più ringraziame​nti all'Armata Rossa di quanti ne possa pronunciare in tutta la sua vita", diceva Ernest Hemingway.



Il 27 gennaio 1945 l'Armata Rossa abbatteva i cancelli del campo di sterminio nazista di Auschwitz. In questi 70 anni vari tentativi di revisionismo sono stati compiuti: da chi nega l'esistenza stessa dello sterminio di milioni di ebrei, prigionieri politici, omosessuali e zingari, a chi cerca di nascondere il contributo dell'Unione Sovietica nella sconfitta del nazismo, fino a chi cerca di minimizzare la collaborazione dei fascisti italiani a quel crimine. Per questo, in questa giornata, pubblichiamo questo saggio, di qualche anno fa, dello storico Luciano Canfora.




SUL REVISIONISMO STORICO


Vorrei esordire ricordando una verità elementare: che cioè la storia la scrivono i vincitori. E poiché la lunga guerra europea e poi mondiale incominciata nel 1914 e sviluppatasi in più fasi e finita, dopo vari rivolgimenti, paci apparenti, cambi di fronte, con la sconfitta dell'Unione sovietica nel 1991, è evidente che per ora, e per lungo tempo ancora, la storia che prevarrà sarà quella scritta dai nemici dell'Unione Sovietica e quindi dell'antifascismo. 

Non stupisca quel "quindi": l'antifascismo, anche non comunista, ebbe sempre una considerazione rispettosa della storia e del ruolo dell'URSS. 

Non è casuale che un capofila del revisionismo storiografico come François Furet, nel suo troppo vezzeggiato pamphlet Il passato di un'illusione, abbia presentato reiteratamente l'antifascismo europeo come "l'utile idiota" di Stalin. E la sua opera non è rimasta senza seguito, ora che saldamente la grande stampa e salvo rare eccezioni la grande editoria stanno passando nelle mani di coloro che riscrivono la storia appunto nell'ottica degli ultimi vincitori. 

Per l'Europa borghese, corresponsabile dell'agosto '14 e levatrice perciò della rivoluzione, fu appunto, sin da allora, il comunismo il principale problema. La nascita del fascismo, e poi dei fascismi, fu la risposta estrema e pienamente avallata dalle classi dominanti nei confronti di tale "grande pericolo". 

Due scene tornano alla mente, emblematiche in questo senso: 

- la sfilata delle camicie nere a Napoli pochi giorni prima della marcia su Roma e tra loro, in camicia bianca, Enrico De Nicola con il braccio levato nel saluto romano; 

- e circa due anni dopo, Benedetto Croce, che vota la fiducia al governo Mussolini, pur dopo il delitto Matteotti. 

Questo non è moralismo storiografico. Nei due casi che ho ricordato non c'era costrizione, quella costrizione o necessità che si invoca per giustificare la debolezza di tanti lapsi per salvare magari una cattedra universitaria. Era invece il segno chiaro dell'iniziale consenso della borghesia anche colta, anche illuminata, verso il fascismo visto come argine contro l'unico pericolo: la rivoluzione comunista. 

Ecco perché è cruciale continuare a studiare l'esperienza del fascismo nella sua interezza e non limitandosi - come sarebbe più comodo - al suo infame crepuscolo. Perché solo studiandolo per intero sin dai suoi esordi si comprende che esso fu figlio legittimo delle classi dominanti. Le quali hanno fatto buon viso a tale mezzo estremo pur di mantenere l'ordine sociale costituito. Certo, col tempo, una parte si è tirata indietro, ma era ormai troppo tardi ed il fascismo, forte di un largo consenso, stava già portando il mondo intero alla guerra e alla rovina. 

La domanda da porsi è dunque: Quali erano le fattezze del nemico contro cui si faceva ricorso ad un rimedio così estremo? Cos'era quel "comunismo" contro cui tutti, dal giovane De Gaulle al ministro di Sua Maestà britannica Winston Churchill, dalle armate polacche ad Ovest ai generali giapponesi ad est si scatenarono sin dal primo momento, in un attacco concentrico che rischiò di essere mortale? 

Oggi che l'URSS è finita da un pezzo, lo sforzo dei vincitori è di dimostrare che quello fu il regno del male, della soprafazione, della smisurata e ininterrotta ecatombe. Il cosiddetto "Libro nero" è la Bibbia di questo sforzo senza soste. L'implicazione che va di pari passo con tali diagnosi è molto chiara: recuperare in larga parte un giudizio positivo sul fascismo che - si dice ormai apertamente - poneva rimedio (ipocritamente alcuni dicono doloroso rimedio) ad un male di gran lunga peggiore. 

Questo è oggi il terreno di scontro in quell’ambito necessariamente, strutturalmente, "impuro" che è la storiografia. Dati i nuovi rapporti di forza, la partita è già largamente vinta dai grandi strumenti di informazione (grande stampa, tv, saggistica): ogni giorno viene ripetuto in modo martellante e ossessivo che quello, il comunismo, era il grande male, mentre si suggerisce talora scopertamente che il fascismo fu comunque un male minore o, a piacer vostro, una dolorosa necessità. Restano fuori dell'opera di salvataggio le leggi razziali, ma si tenta poi di far credere - ed è menzogna - che esse fossero effettivamente operative e micidiali solo con Salò. 

La partita è dunque ardua. Si tratta di RECUPERARE LA MEMORIA di una fase storica - l'URSS e il socialismo: una memoria che resta positiva soprattutto nella mente di chi ne trasse vantaggio, per esempio i ceti ormai ridotti alla fame nella nuova Russia mafio-capitalistica. I quali però non hanno voce, men che meno voce storiografica. La loro voce è coperta dal fragore di una pubblicistica storiografica che dà con ogni disinvolta lettura l'immagine più fosca dell'impero del male. 

Né vale opporre le testimonianze d'epoca, anche le più diverse, anche quelle che quantunque ostili, davano tuttavia ampio riconoscimento a quel mondo nuovo che faticosamente nell'entusiasmo di intere generazioni si cercò allora di costruire. 

Certo, noi sappiamo di essere di fronte a una mistificazione, né ignoriamo che già con la rivoluzione francese si assistette alla medesima parabola storiografica. Dopo la sua fine, con la vittoria della Restaurazione, la sua immagine dominante fu solo quella di un cumulo insensato di crimini. Solo molto dopo la lettura di quel grande avvenimento cambiò: ma passò molto tempo e l'orientamento della storiografia mutò quando un nuovo movimento democratico risospinse indietro la lettura demonizzante divenuta dominante. Né manca ancora oggi chi della Rivoluzione francese parla con il tono e l'orrore del conte De Maistre. Pochi faziosi si ostinano oggi a credere che la Rivoluzione francese fosse soltanto Vandea e repressione, tribunale rivoluzionario e "ghigliottina a vapore", per dirla con un ironico poeta. Certo, la rivoluzione fu anche questo, ma fu soprattutto altro e durevole. Analogamente ci vorrà tempo perché sia dissipata la attuale forma mentis da libro nero. Io credo che lo storico del futuro, se onesto, non potrà non prendere atto del fatto che comunismo e rivoluzione coloniale su scala planetaria sono un unico gigantesco e positivo fenomeno che ha man mano messo in crisi nel corso del secolo ventesimo " il mondo di ieri". E già questo basterebbe, per ribaltare gli schemi oggi dominanti. 

Per il momento la questione che ci sta di fronte può essere così espressa: pensiamo noi che un nuovo andamento della vicenda politica e sociale possa avviare - come già avvenne per la rivoluzione francese - quel riassestamento storiografico che permetta di leggere l'esperienza del socialismo nelle sue giuste dimensioni e in un'ottica non più demonizzante? Non è facile dare una risposta certa, anche se molti segnali fanno intendere che l'ondata di piena della mistificazione è ben lunge dall'essere passata. 

L'importante è che sia chiara la posta in gioco. Il recupero storiografico di una parte più o meno grande dell'esperienza fascista e la contestuale demonizzazione martellante dell'esperienza comunista non sono un'operazione erudita: sono un'operazione politica con voluti effetti politici. Si tratta di travolgere la nozione positiva di antifascismo (concetto che assume il fascismo come male principale) e di fondare un ordine costituzionale conforme alle aspirazioni di quei ceti che a suo tempo non esitarono ad avvallare appunto il fascismo come rimedio. 

Non ci lasceremo abbagliare dalla varietà degli argomenti e dei tentativi. Uno è il punto di partenza, uno l'obiettivo: ribaltare il giudizio che era consolidato nella coscienza degli italiani intorno all'esperienza fascista. Qualche professore in cerca di gloria o qualche supergiornalista dirà che non è vero: che c'è un ambito vastissimo in cui il revisionismo storiografico si è da sempre esercitato e continua ad esercitarsi. Ma questa ovvietà, che nessuno contesta, serve a mascherare il problema specifico. Esso riguarda il fascismo italiano e la sua sdramatizzazione in funzione della politica italiana. 

Il ragionamento parte dalla cosiddetta scoperta del CONSENSO. Apparente scoperta. Apparente per un duplice motivo: perché l'intuizione di come il fascismo si fosse via via radicato, ferme restando le sue origini violente e soprafattorie in un consenso di massa, era il cardine delle fondamentali "lezioni sul fascismo" di Palmiro Togliatti, incentrate appunto sulla nozione del fascismo come "regime reazionario di massa"; e inoltre perché quel consenso - che non fu né costante né indiscusso - è stato per lo più documentato con il dubbio strumento delle ingannevoli perché corrive carte di polizia. E andrebbe dunque studiato in modo ben altrimenti critico. 

L'implicazione di questa apparente scoperta è ben nota: trasformare il fascismo in regime normale, magari un po' paternalistico ma non repressivo. L'ulteriore corollario è la denuncia dell'età staliniana come unica vera esperienza totalitaria. Essendosi peraltro il fascismo proposto come antitesi frontale del bolscevismo, il corollario ulteriore è che qualcosa di molto buono vi doveva essere in tale "primo della classe" dell'anticomunismo. Coronamento del ragionamento è l'attacco alla nostra costituzione repubblicana ed ai suoi principi fondanti, per essere essa stata scritta anche dai comunisti e comunque da uomini che comunisti non erano ma che alcune delle istanze fondamentali del comunismo accoglievano e apprezzavano: a cominciare dall'esordiale indicazione (articolo 1) del lavoro come fondamento della Repubblica e dalla implicita identificazione tra cittadino e lavoratore, a seguitare con l'articolo 3, ed il suo impegno a "rimuovere gli ostacoli" di ordine sociale che impedivano e tuttora impediscono l'effettiva uguaglianza tra i cittadini. 

Orbene qui non si intende sottrarsi alla sfida. Il "velen dell'argomento" ci è ben chiaro. Noi sappiamo che la principale battaglia che tutti i democratici hanno da affrontare è proprio la difesa della costituzione e in primo luogo dei suoi principi esemplarmente delineati nel capitolo primo. E sappiamo anche che il vulnus più profondo finora inferto alla costituzione è stata la modifica della legge elettorale, l'abbandono del principio proporzionale, unico istituto che rispetti davvero l'istanza del suffragio universale. 

Tutto questo ci è chiaro, e la battaglia è ardua. 

Ma il punto di partenza non ci sfugge , né intenderemo sfuggirvi, anzi lo dobbiamo affrontare di petto. È la questione del consenso. L'Italia sta scivolando verso un REGIME REAZIONARIO FONDATO SUL CONSENSO. Ed è sui modi in cui oggi, diversamente che nel 1922-1926, il consenso si consegue che le idee non sono sempre chiare. 

Ma il processo è ormai molto avanzato. Le forme di creazione del consenso sono molto più capillari e sofisticate e irresistibilmente pervasive che non in passato: concomitanti con la radicale trasformazione del reclutamento stesso del personale politico-parlamentare - ormai prevalentemente abbiente e centrista -, dovuto appunto al meccanismo elettorale maggioritario. 

Orbene lo studio del modo in cui davvero il fascismo pervenne - in capo a cinque lunghissimi anni dal 1921 (sua prima apparizione in parlamento) al 1926 (leggi eccezionali e messa fuori legge del PCI)- a dar vita ad un REGIME è forse oggi il più istruttivo dei compiti intellettuali. 

Forse la sinistra (il centro-sinistra) si fa qualche illusione sulle prossime elezioni del 2006. A mio avviso, invece, la destra oggi al potere non cederà facilmente il timone, non attenderà passivamente il responso delle urne. Farà di tutto, ma proprio di tutto, per conservare il potere. Essi pensano di avere ormai in pugno l'Italia per un lungo tempo. Pensano di averla riplasmata sotto ogni riguardo. Noi non possiamo chiudere gli occhi su questa evidente verità. 

Dal 1922 al 1926 il fascismo creò le premesse per restare al timone. Per prima cosa abrogò il sistema elettorale proporzionale poi creò un blocco, un listone unico nel quale imbarcò pezzi di tutte le formazioni politiche liberali e cattoliche delle più varie sfumature. Quindi ricorse alla provocazione. E mi riferisco non solo al rapimento di Matteotti. Ma alla provocazione imbastita contro il partito comunista (l'arresto dei "corrieri" sorpresi alla stazione di Pisa con volantini "eversivi" come prova della imminente "eversione comunista"): donde l'arresto di Gramsci e degli altri dirigenti; donde la creazione del tribunale speciale, donde il mostruoso "processone"; e alla fine l'attentato oscuro di Bologna e la sospensione degli altri partiti. 

Questo crescendo è uno scenario che sembra arcaico ma è un modello ancora utilizzabile. 

Ben venga l'invito a studiare come davvero il fascismo giunse al potere e si affermò. Non ne caveremo, come si vorrebbe, la tranquillizzante immagine di un regime tutto sommato "normale" (tenendo conto anche dei tempi perigliosi in cui nacque), ma l'allarmante scenario ancora ripetibile, mutati lo stile e gli strumenti, di come si demolisce una democrazia. 

mercoledì 26 gennaio 2011

Ferrero: se supera questa crisi, Berlusconi non avrà più limiti

Paolo Ferrero, Segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista
su Liberazione del 23/01/2011
Siamo ad una svolta decisiva della vita politica del paese. Berlusconi a tutto pensa salvo che a mollare la poltrona, che per adesso gli ha garantito l’impunità, e si è lanciato in una campagna mediatica di riscrittura della realtà a 360 gradi. I poteri forti del paese – dal Vaticano alla Confindustria – prendono le distanze ma non hanno certo cambiato cavallo. Il principale partito di opposizione vede una tale coesistenza di proposte politiche al suo interno da rendere inefficace la sua azione.
Il rischio più forte è che la crisi politica si avviti su se stessa e che a trarne i vantaggi maggiori siano le proposte più estremiste. Da un lato la Lega Nord, che comincia a patire l’appoggio a Berlusconi, finalizza tutta la sua azione al federalismo fiscale e trova tragicamente orecchie attente tanto nel Pd quanto nei centristi. Parallelamente Marchionne, Federmeccanica e Confindustria stanno lavorando alacremente a smontare i contratti nazionali e a riscrivere la costituzione a partire dai rapporti di lavoro.
Per evitare che la situazione politica allarghi ulteriormente questa palude e produca nel paese un ulteriore elemento di demoralizzazione e di impotenza, è necessario un salto di qualità. Il No operaio a Mirafiori e Pomigliano, le lotte degli studenti e dei precari ci dicono che questo salto di qualità è possibile. Ci sono nel paese movimenti e soggettività da cui è possibile partire per cambiare registro. Ieri e oggi a Marghera ne abbiamo avuto la testimonianza in un importante momento di incontro e di dibattito. Si tratta allora di utilizzare le nostre forze in modo concentrato sui due obiettivi decisivi di questa fase.
In primo luogo la costruzione della scadenza del 28 gennaio come sciopero generalizzato. Si tratta di costruire una risposta generale all’offensiva di Marchionne che è un attacco generale contro il movimento dei lavoratori. Costruire il 28 come una giornata di lotta di massa contro Berlusconi e contro Marchionne, che a partire dai metalmeccanici coinvolga gli studenti, i precari, le altre categorie di lavoratori è un punto decisivo.
In secondo luogo lo sviluppo di una campagna di massa per la cacciata di Berlusconi e per le elezioni anticipate. E’ del tutto evidente che se Berlusconi riuscirà a restare in sella, l’offensiva per lo stravolgimento degli assetti costituzionali subirà una pesante accelerazione. Questa crisi per Berlusconi è come il delitto Matteotti per Mussolini: se la passa non avrà più vincoli. Per questo occorre costruire ogni forma di mobilitazione unitaria, dalla raccolta firme alle manifestazioni locali, con la parola d’ordine di mandare a casa Berlusconi.

lunedì 24 gennaio 2011

Il modello-Marchionne arriva in Provincia...

Una sfilza di intelligentoni, dal PD alla Cisl e la Uil, ci avevano poi spiegato che l'accordo di Pomigliano andava bene perchè era un'eccezione legata alla situazione napoletana. Poi è arrivato l'accordo di Mirafiori. Poi padroni e padroncini hanno cominciato a fare la gara di chi copia meglio Marchionne, benedetti da Berlusconi e dai suoi ministri.Anche in Provincia di Sondrio Paolo Agnelli, a capo della Alexia di Gordona, vuole importare il modello-FIAT, benedetto dalla giunta regionale di Formigoni e della Lega.

Già in risposta all'appello a sostegno della FIOM, il leader della CISL sondriese, Tavasci, ricordava che accordi stile-FIAT erano già stati fatti, unitariamente con la CGIL, anche nelle nostre valli. Non sarà questo, magari, uno dei problemi?
Riportiamo qui l'intervento del segretario provinciale della CGIL, Giocondo Cerri, come riportato da La Provincia di Sondrio, con i suoi molti si e, almeno, un no.
________________________________________________________________
SONDRIO«Conosco Paolo Agnelli e l'Alexia da 15 anni. In questi tre lustri i lavoratori hanno garantito disponibilità e capacità e l'azienda ha fatto ingenti investimenti. È mancato l'impegno della politica che promette, ma non mantiene».

Non si è fatta attendere la replica di Giocondo Cerri, segretario generale della Cgil di Sondrio, dopo
gli apprezzamenti dell'imprenditore Agnelli all'ad della Fiat Sergio Marchionne, formulati l'altro ieri nell'incontro dell'iniziativa «Assessorato itinerante» con il vicepresidente della Regione Lombardia Andrea Gibelli. «Si evitino discorsi strumentali - premette Cerri -. In provincia di Sondrio le aziende hanno al tavolo delle trattative un sindacato dialogante rispetto a tutte le esigenze produttive».
Alexia è arrivata in Valchiavenna a metà degli anni Novanta, con poche decine di dipendenti, ora dà lavoro a 130 persone.
«In quel periodo ci siamo confrontati con aziende come Carcano, Galbusera, Ccm e
Levissima, ma anche con la stessa Alexia, sul tema dello scambio fra flessibilità e investimenti - aggiunge il sindacalista valtellinese che, in quegli anni, era alla guida della Fiom provinciale -. Conosco Alexia perché l'ho sindacalizzata e nelle trattative ho avuto sempre di fronte Agnelli. Se quell'azienda in 15 anni è cresciuta di cinque volte da punto di vista occupazionale e dei volumi produttivi è perché nel nostro territorio ha trovato le condizioni ideali per uno sviluppo di tale entità».
Secondo Cerri il sindacato non ha mai detto "no" a priori.«Alle aziende che citiamo vanno riconosciuti importanti investimenti. Ma non possiamo dimenticare che i nostri accordi hanno permesso di lavorare di notte, di superare la mezzora di fermo per la pausa pranzo facendo ruotare le persone, di discutere dei sabati e di tanti altri aspetti.Quando le questioni vengono poste non in termini strumentali, ma sono legate a un reale aumento de
lla capacità produttiva e le aziende si impegnano a investire in termini occupazionali, noi non diciamo di "no". Le imprese hanno trovato nella Cgil un sindacato disposto a fare accordi, a volte unitariamente con le altre organizzazioni, in altri casi da soli quando siamo stati l'unica realtà presente in fabbrica». Cerri ricorda che non sono mancati i momenti di tensione, quelli delle scelte complicate e rischiose per chi deve tutelare i lavoratori e garantire salari e diritti. Qualche "caso Mirafiori", insomma, c'è già stato, spesso con dirigenti impegnati anche nelle organizzazioni imprenditoriali.
«Ricordo il caso della Galbusera, con una lunga e difficile trattativa. Ci chiesero di rinunciare, in un momento di crisi, con percentuali di assenteismo ritenute significative, al premio di produzione. Abbiamo costruito relazioni basate sulla reciproca fiducia e alla fine c'è stato uno scambio flessibilità-investimenti che ha lasciato soddisfatte le parti. Non siamo un sindacato barricadero e gli imprenditori lo sanno». Giovedì a Gordona Agnelli ha sottolineato che un operaio nel Belpaese costa alle aziende 30mila euro, mentre in Polonia - quindi nell'Unione Europea - si scende a 7mila. Sul costo del lavoro troppo alto Cerri concorda con il titolare di Alexia.«Se è vero che costo lavoro in Italia è alto, non è dovuto ai lavoratori dipendenti che possono contare su un salario netto fra i più bassi in Europa Occidentale. Ma attenzione, non è colpa del sindacato. Conosco e apprezzo il ruolo e l'impegno di Agnelli, con il quale condivido la passione per il ciclismo, e so che abbiamo idee diverse sulla politica italiana. Ma proprio per questa ragione gli devo ricordare che da quindici anni ci governa una classe politica vicina a lui e che l'assessore Gibelli è vicepresidente di Regione Lombardia e un importante esponente di un partito di governo. E' dalla politica che sono arrivate risposte insufficienti. La classe dirigente nazionale e lombarda che ci governa ci dovrebbe dire in questi anni cosa ha realizzato, oltre ai procalmi, in termini di aiuti alle aziende e di riduzione fiscale per i lavoratori dipendenti».
Un "no", da parte di Cerri, arriva. E' rivolto a chi attacca il contratto nazionale.
«Le imprese con le quali si è discusso di flessibilità e investimenti sono quelle che garantiscono i migliori aumenti salariali in ambito aziendale grazie agli accordi integrativi. Il contratto nazionale va semplificato, inoltre ne abbiamo 400 e ne bastano poche decine, ma è fondamentale per definire i diritti e i livelli economici al di sotto dei quali non si può andare. Questa è la nostra risposta a chi vorrebbe togliere peso al ccnl».
Stefano Barbusca

La Casta Padana: senza vergogna



Spagnolatti, dopo aver trascorso qualche mese in carcere per la vicenda di Eventi Valtellinesi, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari e dopo aver, infine ottenuto il "semplice" obbligo di firma, adesso vorrebbe indietro proprio il suo posto di lavoro nella società di cui, secondo le accuse avrebbe abusato. Un po' come se uno sotto
processo per rapina volesse farsi assumere in banca...


«Non mi avete licenziato, rivoglio il posto a Eventi»
L'ex direttore Luca Spagnolatti chiede di essere reintegrato nella società
Monti si rivolge al legale e all'assemblea dei soci: «Per noi è decaduto»

Rivuole il suo posto di lavoro. Certo, non quello dal quale si è dimesso per cercare di alleviare la sua posizione dopo l'arresto del 15 giugno scorso. Non vuole, per intenderci, tornare a fare il manager di Eventi Valtellinesi, società che ha "gestito" in piena autonomia come fosse una sorta di "Bancomat personale" (questa almeno l'accusa mossa dalla procura della repubblica di Sondrio che lo ha indagato per peculato e truffa aggravata ai danni della Regione Lombardia), ma rivuole il posto come dipendente di quella srl che ha operato come "braccio armato" della Comunità montana di Morbegno.
Luca Spagnolatti le idee le ha davvero chiare. Perché di tempo per pensarci su, dietro le sbarre prima - in quelle nove settimane di custodia cautelare a Monza - e poi nei mesi di arresti domiciliari, ne ha avuto parecchio.
Lui si è dimesso dalla carica per accelerare la sua scarcerazione, del resto finché fosse rimasto direttore di Eventi, il pericolo di reiterazione del reato e dell'inquinamento delle prove sarebbe stato certamente elevato. Ma il "suo" posto non lo ha mai lasciato e così in pianta organica figurerebbe ancora come dipendente. Nessuno, del resto, lo ha mai licenziato. Nessuno gli ha mai notificato una lettera di richiamo, come di solito accade quando un dipendente finisce dietro le sbarre e l'ente intende avviare il procedimento di allontanamento, procedimento (per giusta causa) che in questo caso sarebbe stato più che giustificato visto che il lavoratore è accusato di reati che hanno leso il suo stesso datore facendo venir meno la fiducia nei suoi confronti.
Ergo, Spagnolatti avrebbe tutte le carte in regola - e tutte le ragioni - per chiedere di tornare a lavorare lì e per vedersi riconoscere i versamenti contributivi durante il periodo trascorso in carcere e probabilmente potrebbe sperare anche in una sorta di "indennità", una "buonuscita" qualora la società preferisse evitare una causa di lavoro e affrontare l'ennesima grana.
Bel pasticcio, insomma.
Certo, c'è da chiedersi se la ragione prevale sull'opportunità, visto che Spagnolatti - come dicevamo prima - è finito nei guai per peculato e truffa proprio nei confronti della società per la quale vuole ora tornare a lavorare.
Ma vediamo di ricostruire la vicenda. L'ex direttore ha affidato al suo avvocato - Giammarco Brenelli - di rappresentare le sue istanze ad Eventi. Il legale di lettere ne avrebbe scritte addirittura tre per chiedere che il suo cliente venga reintegrato nel posto di lavoro, stigmatizzando come - del resto - la società "Eventi valtellinesi" nulla ha fatto per interrompere quel rapporto di lavoro subordinato. Le missive sono giunte sul tavolo dell'ex amministratore delegato della srl, Mauro Monti, che le ha "girate" al legale della società: l'avvocato Maurizio Gerosa (che peraltro lavora gomito a gomito con Brenelli nella difesa di Passamonti e che si occupa pure di quella di Rebuzzi, altro indagato come ex assessore in Cm per uno degli episodi di truffa).Monti non se l'è quindi sentita di prendere una decisione autonoma, del resto il suo ruolo si è ridotto a quello di mero rappresentante dei soci di riferimento della società (Comunità montana e Comuni di Morbegno), visto che già nel marzo 2010 dopo aver annusato aria di bufera giudiziaria rassegnò le dimissioni da amministratore delegato, accettando di restare fino alla presentazione (ormai imminente) del bilancio preventivo della srl che - sempre in virtù di un parere legale - non fu affidata ad un amministratore straordinario, procedura che avrebbe chiamato in causa il Tribunale di Sondrio, ammettendo - di fatto - la natura pubblica della società, mentre invece la difesa di Passamonti e Spagnolatti da sempre sostiene che di srl privata si tratta.
«Il problema sollevato da Spagnolatti - afferma Monti a cui abbiamo chiesto di spiegarci la vicenda - è squisitamente legale e quindi non posso che chiamarmi fuori. Posso però dire di averlo portato all'attenzione dell'assemblea dei soci nei giorni scorsi e l'assemblea ha deciso che le dimissioni rassegnate da Spagnolatti hanno valore anche per il rapporto di lavoro poiché ad Eventi era stato assunto con l'incarico di direttore. Non con altra mansione. Quindi il problema non si pone».Cosa succederà ora non è dato sapere. Sarà - questo è certo - una nuova battaglia legale che va ad aggravare le sorti della srl (che a fine marzo chiuderà i battenti, così hanno deciso in Comunità Montana a Morbegno) poiché non è detto che la posizione di Spagnolatti possa addirittura sfociare in una causa di lavoro.
Quel che è invece noto, è il "conto" che la Procura intende presentare a Spagnolatti per l'accusa di peculato (svariate decine di migliaia di euro). Accusa che secondo i suoi legali si ridurrebbe al valore di poco più di duemila euro, 2.245,90 per la precisione: 1.551,31 per cene varie (da suddividere con Passamonti; 450 per cravatte che l'ex manager e l'ex presidente di Cm avevano acquistato in una trasferta a Napoli) e 244 euro per tavolette di cioccolato e tagli di carne probabilmente destinate a una grigliata agostana. A queste somme vanno poi aggiunti 66000 euro («peraltro regolarmente indicati in contabilità e fatturati», sottolineano i suoi avvocati), derivanti dai famigerati premi di produzione, corrispondenti a più annualità di lavoro che Spagnolatti si era fatto liquidare oltre allo stipendio. Da duemila euro mensili.
a.mars.
a.marsetti@laprovincia.it
(Da La Provincia del 23/01/2011)












domenica 23 gennaio 2011

Assemblea della FIOM a Morbegno, verso lo sciopero generale dei metalmeccani.

Più di 100 lavoratori e lavoratrici sono stati presenti all'assemblea pubblica che la FIOM ha tenuto a Morbegno, con la presenza di Mirco Rota, segretario regionale dei metalmeccanici, e di Elena Lattuada, segretaria lombarda della CGIL.
Oltre alla forte partecipazione numerica, durante l'assemblea s'è svolto un dibattito intenso, durante il quale molti dei lavoratori hanno chiesto alla CGIL, oltre al sostegno per lo sciopero del 28 gennaio, di impegnare l'intera Confederazione nella preparazione di uno sciopero generale di tutte le categorie.


Per chi volesse partecipare alla mobilitazione regionale di venerdì 28 gennaio, per prenotare un posto sul pullman per Milano basta chiamare la Camera del Lavoro di Sondrio allo 0342 541311

«La crisi non è un alibi per cancellare i diritti»

La Fiom si prepara alla mobilitazione: si parte con lo sciopero dei metalmeccanici. La Cgil: siamo con voi

MORBEGNO (m.c.p.) È una Fiom sotto attacco che affila le unghie e reagisce, chiamando a raccolta i metalmeccanici con lo sciopero del 28 gennaio, ma che si appella anche alla società civile, agli studenti, ai precari, alla politica, alle istituzioni, insomma «a tutti coloro che intravedono nel caso Mirafiori un anticipo di quello che sarà l'Italia, e non solo il mondo del lavoro, da qui a pochi anni. Un Paese senza diritti e senza libertà».
Secondo i metalmeccanici della Cgil, che venerdì sera si sono riuniti in assemblea a Morbegno con i vertici locali (il segretario provinciale Giuseppe Barbusca che ha fatto da moderatore insieme a Sandro Alberto) e regionali (il segretario della Fiom Mirco Rota e della Cgil Elena Lattuada), il 2011 sarà un anno difficile sul fronte delle relazioni sindacali alla luce di quanto avvenuto a Pomigliano prima e a Mirafiori in seguito. Anche a livello locale ci sono imprenditori, come Paolo Agnelli, fondatore dell'Alexia di Gordona che guardano al

caso Fiat con estremo interesse. Soprattutto in questa fase dell'economia italiana che di fronte alla concorrenza dei Paesi in via di sviluppo fa fatica a restare sul mercato. E allora molti siti industriali temono la chiusura, sotto il peso ormai insostenibile dei costi occupazionali e dell'energia, al punto che, per molti, l'ipotesi della riallocazione all'estero diventa l'unica possibilità di sopravvivenza.
«Tuttavia dietro alla politica di Marchionne - osserva il segretario regionale della Fiom Rota - c'è una precisa strategia, quella di estromettere la Fiom e il sindacato dal tavolo delle trattative, importando il modello americano dove le associazioni di categoria sono presenti solo sui tavoli aziendali. Il referendum del 14 gennaio è stato un ricatto: è stata barattata la firma con il posto di lavoro, senza che nemmeno ci fosse a monte un piano industriale su cui discutere, tant'è che i lavoratori saranno nuovamente in cassa integrazione per altri 12 mesi. La crisi non può essere un alibi per cancellare i diritti e scardinare i rapporti di forza tra i padroni e i sindacati e tutto questo con il tifo del governo che ha mancato al suo ruolo istituzionale e cioè quello di fare da mediatore tra le parti». La Fiom teme che il modello Marchionne possa allargarsi a macchia d'olio. Lo sta sostenendo il governo, la stessa Confindustria, anche a livello locale, come abbiamo visto, il caso Fiat potrebbe diventare una strada da replicare. Non per la Cgil, che il 28 gennaio sarà a fianco della Fiom per protestare contro «il referendum capestro» e difendere i diritti dei lavoratori, come ha dichiarato il segretario regionale Elena Lattuada e come ha fatto eco il referente provinciale Giocondo Cerri. «La Cgil è con la Fiom, lo è sempre stata - ha sottolineato Cerri venerdì sera -, i metalmeccanici in questo momento di sbandamento della politica italiana dove sembra essersi perso il senso dell'etica civile e morale, sono riusciti, dopo tanto tempo, a riportare i temi dell'occupazione, dei diritti, della dignità dei lavoratori in piazza e in prima pagina, è importante che adesso il livello di attenzione sia mantenuto alto. Il primo banco di prova lo avremo proprio giovedì con lo sciopero generale dei metalmeccanici». Parte dunque con una grande manifestazione di piazza la strategia del sindacato che nei prossimi mesi, come ha rilevato il segretario lombardo della Cgil Lattuada, sarà nelle fabbriche per confrontarsi con lavoratori e per capire come organizzare una strategia a lungo termine dopo Pomigliano e Mirafiori. «Negli stabilimenti Fiat di Napoli e Torino non si applicherà più il contratto nazionale, la Fiom sarà estromessa dall'azienda, con il rischio che negli accordi separati vengano distrutti i diritti e le libertà, facendo un pericoloso passo indietro di 50 anni». «Su questo pericolo dobbiamo confrontarci con la gente, la politica, con i moderati - ha sottolineato Guglielmo Zamboni della Cgil provinciale - dobbiamo costruire alleanze, concluso questo percorso potremo arrivare anche allo sciopero generale coinvolgendo tutte le categorie».
(Da La Provincia di Sondrio del 23/01/2011)

Lettori fissi