lunedì 28 marzo 2011

Ponte in Valtellina: TUTTI PAZZI PER LA GUERRA IN LIBIA?

Pubbliciziamo volentieri l'iniziativa preparata dal Circolo Culturale Autogestio "Il Forno" di Ponte In Valtellina.

sabato 26 marzo 2011

Referendum: si può vincere!

di Paolo Ferrero

Buona manifestazione al popolo della pace, dell’acqua pubblica e dell’energia pulita. Oggi saremo in piazza per affermare chiaramente che è possibile e necessaria una alternativa di sistema che rovesci i paradigmi delle classi dominanti.
Siamo in piazza per affermare la necessità del dialogo e della cooperazione contro la logica della guerra. Non esistono guerre umanitarie, esistono solo guerre che producono drammi all’umanità. Oggi come ieri siamo contro la guerra “senza se e senza ma”. Siamo scesi in piazza una settimana fa per difendere la Costituzione repubblicana. Noi la difendiamo sempre e la difendiamo tutta: anche l’articolo 11, e denunciamo l’illegalità di questa guerra.
Siamo in piazza per l’acqua pubblica. Riteniamo che ogni persona abbia diritto ad avere l’acqua potabile a casa senza che nessuno debba arricchirsi alle sue spalle. L’acqua potabile non è una merce, è un bene necessario ad ogni uomo e ad ogni donna e non vogliamo che nessuno possa fare profitti sull’acqua.
Siamo per l’acqua pubblica perché la riteniamo un bene comune così come siamo per la sanità pubblica, per l’istruzione pubblica, affinché la cultura diventi un bene comune. L’acqua pubblica è il primo appuntamento della stagione dei beni comuni: contro le privatizzazioni e superando una concezione burocratica del pubblico.
Siamo in piazza contro il nucleare e per le energie pulite. L’energia nucleare costituisce l’essenza paradigmatica del capitalismo odierno: nociva, pericolosa, incontrollabile, centralizzata, gestita attraverso l’occultamento delle informazioni, basata sullo spreco. L’energia, come l’acqua, è un bene di tutti e di tutte: vogliamo in primo luogo risparmiarla e poi la vogliamo produrre in modo pulito, rinnovabile, decentrato, rispettoso della natura.
Siamo in piazza perché riteniamo che questo capitalismo - tutto centrato sul profitto e sulla gestione autoritaria e centralizzata del potere - ci stia portando alla barbarie. Abbiamo detto negli anni scorsi che un altro mondo è possibile: non solo lo pensiamo anche oggi, ma lo riteniamo più che mai necessario.
Questa manifestazione è importante anche perché può vincere. Fra tre mesi, il 16 giugno, si andrà a votare per i referendum sull’acqua e sul nucleare. Quei referendum possono essere vinti. Il disastro avvenuto in Giappone ha richiamato a livello di massa la pericolosità devastante del nucleare. Dal male dobbiamo trovare il bene. Dal disastro giapponese dobbiamo costruire la possibilità di mettere la parola fine, una volta per sempre, al nucleare in Italia. Il quorum può essere raggiunto. La vittoria nei referendum può cambiare il corso della storia italiana, può chiudere una fase e aprirne un’altra, non solo sul piano politico – e non è poco – ma proprio sul piano delle culture egemoni, di quello che chiamiamo il modello di sviluppo. Questa manifestazione è quindi un punto di partenza per la campagna referendaria che possiamo e dobbiamo vincere. Facciamoci gli auguri.

Libia: chi non si arruola è un disertore / Quando il "mostro" era la Serbia

 Bruno Steri - Chi non si arruola è disertore
(Liberazione del 25/03/2011)
Avevamo già avuto modo nel recente passato di conoscere il piglio bellicoso di Fiamma Nirenstein: non ci siamo quindi stupiti più di tanto nell'apprendere da Il Giornale che, a suo dire, il pericolo più grande è la paura della guerra («"Non avere paura e non sgomentarti" dice Dio a Giosuè»). Assai più inquietante, invece, è stato leggere su La Repubblica on line un commento di Andrea Tarquini in cui si rimprovera per ingratitudine la Germania, ricordandole che «senza il piano Marshall americano decisivo per la ricostruzione della Germania Ovest, senza decenni di protezione militare angloamericana per Bonn» non sarebbero state possibili né la caduta del muro né la riunificazione tedesca. Il tono è raccapricciante, sembra di esser tornati indietro di cento anni: se non ti arruoli, sei un ingrato oltre che un disertore. Così tutto il movimento pacifista, ma anche Chavez e Castro, Cina e Russia, nonché la traditrice Germania, insomma tutti quelli che hanno dubbi o si oppongono all'intervento armato al seguito della "coalizione dei volonterosi", sono trattati come feccia imbelle e senza onore. Ed è La Repubblica a ospitare simili reprimende, cioè un nucleo forte dell'area Pd.
Sarebbe riduttivo, a mio parere, ascrivere il paradosso di un simile "interventismo progressista" semplicemente al fatto che Obama ha preso il posto di Bush alla Casa Bianca. Penso che dietro una tale preoccupante precipitazione ideologica vi sia un motivo ben più profondo: il mondo della globalizzazione si è sfasciato - crisi strutturale del capitalismo e crisi dell'assetto delle fonti energetiche (con l'odierna prospettiva di uno stop al nucleare) - gli spazi di manovra si sono quindi maledettamente ristretti e ciò ha determinato un'ulteriore torsione del senso comune.
In questo contesto è particolarmente significativo il modo in cui, nell'area di centro-sinistra, si considerino ormai morti e sepolti i principi di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli (principi fissati dall'Onu come fondamentali ed ora spazzati via dall'"ingerenza umanitaria", come se nulla fosse). Il tema è centrale (e controverso) e merita un approfondimento. I suddetti principi - stabiliti all'esordio della Carta delle Nazioni Unite all'art.1 (par.2) e all'art.2 (par.7) ed emblematicamente ribaditi dalla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, tenutasi a Helsinki nel 1975 - hanno per decenni regolato le relazioni internazionali, tutelando l'autonomo «sviluppo economico, sociale e culturale» dei popoli e garantendo che «per raggiungere i loro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali».
Ciò ha favorito il processo di decolonizzazione, consentendo ai Paesi in via di sviluppo di darsi una costituzione e una forma di governo, senza subire le pressioni degli Stati più ricchi e potenti.
Beninteso, con l'evolvere del mondo a "villaggio globale" si sono manifestate con forza nuove esigenze, che hanno posto in dialettica tensione la sovranità dei singoli stati con la realtà di un pianeta che la tecnologia ha reso sempre più unificato: basti pensare alla dimensione sovranazionale delle reti di comunicazione o di questioni strategiche come quella nucleare. Così, con il pieno dispiegarsi della globalizzazione capitalistica, la dimensione genericamente "umana" (indipendente dalla sua contestualizzazione statuale) e i temi della "sicurezza globale" hanno acquisito un nuovo e inedito peso.
In tale passaggio, il diritto internazionale ha dato nuova e perspicua forma giuridica alla "difesa dei diritti umani", trovando nel capitolo VII della Carta dell'Onu un fondamento al «diritto di ingerenza umanitaria» da parte della cosiddetta "comunità internazionale", nel caso di «crimini contro l'umanità» (genocidio, tortura, pulizia etnica, esecuzioni di massa) e di «minacce per la pace». Due risoluzioni dell'Assemblea Generale dell'Onu autorizzavano già «l'assistenza sanitaria alle vittime di catastrofi naturali e situazioni di emergenza dello stesso tipo» (1988) e la predisposizione di «corridoi umanitari di emergenza» in caso di conflitti interni (1990), senza tuttavia che ciò si configurasse come imposizione nei confronti di uno stato sovrano ma essendo inteso alla stregua di invito a facilitare i soccorsi. Con l'imporsi del «dovere di ingerenza» si è altresì potenziata la possibilità di contemplare, a certe condizioni, l'uso della forza. Non ci sembra, questa, affatto una buona notizia. In ogni caso, restano quelle "condizioni" da rispettare: ad esempio, quella di aver esperito tutte le strade della diplomazia e dell'iniziativa non militare. Criterio puntualmente violato, come la vicenda libica conferma.
Disgraziatamente, non viviamo nel "migliore dei mondi possibili" (come sembrerebbe vagheggiare l'integralismo illuminista e un po' ipocrita degli "interventisti progressisti"), ma in un mondo retto a ferrea misura degli interessi del più forte. Fu Henry Kissinger a sostenere, in tempi non sospetti, che il mondo stava transitando dal sistema della "non ingerenza" alla nuova fase dell'"ingerenza umanitaria". E, successivamente, Bush junior si incaricò di promuovere la sicurezza globale esportando - assieme ai diritti umani - la democrazia (centinaia di migliaia di vittime in Iraq e, ad oggi, 60 mila vittime civili in Afghanistan). Il punto ineludibile è dunque: chi è il soggetto di tale "ingerenza"? Non può esser certo una forza d'urto unilaterale. Ma nemmeno l'attuale Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che non ha ad oggi una struttura e un potere decisionale democratici.
Stando così le cose, è sorprendente che sia un intellettuale non di sinistra, quale Massimo Fini, a sbottare, dicendo comprensibilmente: «Quando sento parlare di "diritti umani", io metto idealmente mano alla pistola: perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno». Così come ha ragione da vendere Giorgio Bocca quando, a chi osserva che occorre soccorrere manu militari gli insorti libici colpiti dalla rappresaglia di Gheddafi, così replica: «Ma quando Israele attacca i palestinesi, non si muove nessuno, né mi pare che l'Onu si convochi in tutta fretta». Perché un tale strabismo? Perché sotto il cielo dei valori c'è la terra degli interessi materiali delle grandi potenze.

Quando il "mostro" era la Serbia
di Maria R. Calderoni, su Liberazione del 25/03/2011

Il 24 marzo 1999 iniziava la guerra umanitaria Allied Force per il Kosovo. Primo ministro era allora Massimo D'Alema

Dejà vu, già visto, patito, pianto. Era cominciato proprio oggi (ieri per chi legge), 24 marzo 1999, l'attacco alla Serbia, in era governo D'Alema; l'attacco proprio da lui fieramente voluto ed acclamato (e il tono era proprio quello stesso, identico, con il quale ieri, 24 marzo 2011, è intervenuto alla Camera per dare la sua entusiasta approvazione alla guerra in Libia). Degià vu, e noi andavamo in corteo, con la t-shirt bianca e bersaglio disegnato sopra all'altezza del petto, a gridare «sparate qua, sparate anche a noi». Eravamo arrabbiati, arrabbiatissimi; un atto di guerra infame approvato proprio da un governo "amico" con tanto di primo ministro ex comunista, volenteroso collaboratore di un delitto internazionale detta allora non "Odissea all'alba" ma "Allied Force" (vale la pena di ricordare che l'alta compagine governativa era allora formata, tra gli altri, da Bersani, Ciampi, Dini, Rosy Bindi, Giovanna Melandri, Giuliano Amato, anche Oliviero Diliberto...). Fotocopia che mette i brividi. Stessi prodromi. Stesse parole. Stessi strumenti. Si è cominciato allo stesso modo, la costruzione del "mostro" (allora era Milosevic). Una identica, massiccia, planetaria campagna mediatica si è incaricata di demonizzare la Serbia, che improvvisamente è sbattuta davanti all'opinione pubblica mondiale come il nuovo carnefice, lo Stato-canaglia colpevole di genocidio nei confronti delle inermi genti del Kosovo. Anche allora, esattamente come oggi, la manipolazione della stampa è completa, agghiacciante («Pristina città fantasma, uccisi i leader kosovari»; «I serbi decapitano il Kosovo. Uccisi intellettuali e politici»; «La vendetta dei serbi, uccisi i capi albanesi»).

Li avete visti gli infiniti filmini, video, reportage, servizi di oggi sulla Libia? Ebbene, anche nel 1999, già mesi prima dall'inizio dell'attacco, Cnn e tante altre tv mandano in onda i filmati delle presunte stragi di civili attuate dai sanguinari serbi di Milosevic. Peccato che si trattava di parti sempre diverse degli stessi filmati, i quali diventano la prova provata delle "fosse comuni" e dei "cadaveri accatasti". La causa dell'umanità e dell'altruismo è abbondantemente creata, Wall Street Journal e New York Times scrivono, marzo 1999, che «il regime di Milosevic sta tentando di sradicare un intero popolo» (per favore andate a leggere quello che pubblicano oggi, marzo 2011, sulla Libia...).

Fallito il falso "tavolo" di Rambouillet - più che altro una trappola rifiutata dal governo serbo - quel 24 marzo di 12 anni fa partono i bombardamenti Nato su tutto il paese; e così hanno continuato per 78 giorni. I jet decollano prevalentemente dalle basi militari italiane, come quella di Aviano. Almeno 600 raid al giorno. Si tratta, come vengono definite, di bombe intelligenti, anzi intelligentissime. Che infatti colpiscono non solo basi militari, ma anche obiettivi civili, anzi civilissimi; per esempio centrali elettriche, la televisione di Belgrado, colonne di profughi, aziende, scuole, anche industrie chimiche (garantiti un bel po' di veleni sparsi in giro). Ricordiamo per esempio quel ponte di Grdelica intelligentemente bombardato dall'Us Airforce proprio mentre passa un treno, 14 persone uccise e decine di feriti (fu un mero incidente, danni collaterali, diciamo). Errori. Piccoli errori. Come le bombe sulla zona residenziale di Novi Pazar (23 morti); di Alexsinac (12 morti); di Pristina (12 morti); di Surdulica (20 morti). Anche su una corriera di Luzane (40 morti); sull'ospedale di Nis, di Surdulica e di Belgrado; sull'ambasciata di Pechino a Belgrado; suul villaggio di Korisa (80 morti); sul ponte di Varvarjin (11 morti).
Tanto per citare. Ma secondo il computo ufficialissimo targato Nato, in 78 giorni di guerra umanitaria vengono compiute 34 mila missioni di cui 13 mila d'attacco; sganciate 20.000 tra bombe e missili; distrutti 450 bersagli fissi così chiamati, tra cui il 57% delle riserve di carburante, 35 ponti, tutti i 9 aeroporti.

Bisognava difendere la popolazione kosovara, impedire la pulizia etnica. Ancora oggi non si sa il numero esatto dei morti causati dalla "protezione" umanitaria del tipo Nato, sicuramente sono svariate migliaia. Ma basta il rapporto di Amnesty International, che un anno dopo la fine dell'attacco, dice: «La Nato in più occasioni ha violato i principi umani da applicare in ogni conflitto armato».

L'Italia del popolo di sinistra non sta a guardare. «Siamo il popolo che ripudia la guerra», migliaia di fax e lettere inondano ad esempio Liberazione, pagine e pagine si riempiono di no. «Proclamiamo lo sciopero generale», è l'appello firmato dalle Rsu; mezzo milione di ascoltatori mandano in onda su "Zapping" (Raiuno) l'angoscia collettiva; «Gli operai bocciano la guerra. Sciopero all'Alfa di Arese e manifestazioni in tutta Italia», sono solo alcuni dei titoli del nostro giornale in data giovedì 1 aprile. «Caro Cofferati dove sei?», alla vigilia della manifestazione che si svolgerà a Roma il 10 aprile il mondo del lavoro rivolge la domanda al segretario Cgil; tra le altre associazioni alla giornata del no partecipa l'Anpi: in centomila invadono Roma, «Guerra infame. Il coraggio della pace». A Porta San Paolo parla Ingrao: «Oggi è solo l'inizio, l'avanguardia di una battaglia. Non ci rassegnamo, lo sappia il governo».

La guerra umanitaria avanza. Ora i suoi orizzonti spaziano oltre il Kosovo. E' un generale di nome Wesley Clark, comandante supremo Nato, che arriva a dichiarare: «Noi continueremo con le missioni esattamente come programmato, non temiamo una guerra mondiale»; e centinaia di missili Allied Force «bombardano tutto il Montenegro nella notte della Pasqua ortodossa»; mentre si calcola che il prezzo delle bombe intelligenti è di diecimila miliardi al mese, quasi quanto il Pil della stessa Jugoslavia».

Rifondazione lascia l'aula di Montecitorio, dove si discute dell'intervento dell'Italia, D'Alema gran sacerdote: «Signori del governo, noi non vogliamo legittimarvi, neppure col nostro voto contrario alle vostre pulsazioni di guerra». Giovedì 15 aprile. "L'Italia è in guerra", titola Liberazione. «Alle 12,04, bombardieri dell'aeronautica militare partiti dall'aeroporto di Istrana (Treviso) hanno compiuto il primo bombardamento italiano sul territorio jugoslavo. Sciagurata iniziativa del governo D'Alema alle spalle del Parlamento».

Non se ne pentirà mai, D'Alema. Ecco quanto dichiarerà dopo l'accordo di pace siglato il 9 giugno 1999: «Vorrei ricordare che quanto a impegno nelle operazioni militari, noi siamo stati il terzo Paese, dopo gli Usa e la Francia, e prima della Gran Bretagna. In quanto ai tedeschi, hanno fatto molta politica, ma il loro sforzo militare non è paragonabile al nostro: parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L'Italia si trovava veramente in prima linea».

La storia si ripete, ma questa volta non in forma di farsa. Rimane tragedia.
 

 




Massimo Rossi nuovo protavoce della Federazione della Sinistra

di Stefano Galieni

Ex sindaco di Grottammare, fondatore di Rifondazione Comunista

Il consiglio nazionale della Federazione della Sinistra ha eletto ieri il proprio nuovo portavoce. Massimo Rossi, fra i fondatori del Prc, per anni sindaco di Grottammare, poi presidente della Provincia di Ascoli Piceno e, nelle ultime elezioni regionali, capofila di una esperienza riuscita, quella di un lavoro di riunificazione della sinistra d'alternativa, comprendente tanto la Federazione quanto Sel, e che ha ottenuto nelle Marche un validissimo risultato, oltre il 7% dei consensi. Il portavoce uscente Oliviero Diliberto, nella relazione introduttiva, oltre che proporre il nome per il nuovo portavoce, ha voluto anche ricostruire la fase critica che ha portato a tale scelta, enunciando le ragioni per le quali il proprio partito, il PdCI, aveva chiesto la disponibilità di Rifondazione ad indicare come candidato a tale ruolo una figura diversa dal proprio segretario. Diliberto ha segnalato la difficoltà che hanno attraversato il gruppo dirigente della Federazione, difficoltà che hanno portato il coordinamento ad esprimere a maggioranza e non all'unanimità la candidatura di Rossi a portavoce. Diliberto ha definito poi quelli che saranno gli impegni fondamentali per la federazione sin dai prossimi giorni, dalla campagna referendaria per l'acqua pubblica e contro il nucleare alle elezioni amministrative, dall'importanza di essere interni al movimento contro la guerra alle campagne sociali già definite per dare un tratto distintivo all'azione politica della Federazione. Tornando a quelle che sono le esigenze organizzative ha annunciato che il nuovo portavoce avrà come primo compito quello di aprire le consultazioni per definire il nuovo coordinamento e l'organizzazione complessiva del lavoro della Federazione e dei forum previsti dallo statuto. Massimo Rossi, nel ringraziare coloro che lo avevano proposto, ha voluto far presente quelle che sono le caratteristiche del suo agire. Una pratica fondata sulla collegialità e la condivisione che ne hanno fatto un esponente di "movimento" con la capacità dimostrata sul campo di saper anche svolgere compiti di governo senza accettare le modalità aziendaliste con cui spesso si amministra anche nel centro sinistra. Quindi attenzione costante alle questioni sociali, ai beni comuni, ai valori di inclusione, all'ambiente, al lavoro inteso come diritto, alla giustizia e alla partecipazione. Si è presentato come spesso già ha avuto modo di fare, come un "signor Rossi" della politica che non si allontana dalla vita reale. Nell'accettare la proposta ha, però, espressamente, anche nelle repliche, chiesto sostegno e collaborazione a tutte e a tutti, non avendo nelle corde certe logiche leaderistiche che tanto impazzano non solo a destra e non solo in Italia. A nome della componente "Socialismo 2000" Giovanni Vigilante ha annunciato la non partecipazione al voto esprimendo forte preoccupazione per lo stato della Federazione:«Abbiamo difficoltà a stare sui temi e a produrre iniziativa politica - ha affermato - C'è una società in fermento ma manca un soggetto politico di riferimento. Non partecipiamo al voto non per problemi rispetto alla proposta avanzata sul portavoce in sé ma perché riteniamo necessario che la Federazione diventi un soggetto politico più organizzato, capace di fare un salto di qualità. Il nostro è un allarme che lanciamo e insieme un atto di amore e di responsabilità verso la Federazione che non può essere governata a colpi di maggioranza. Dobbiamo superare insieme dinamiche interne autodistruttive e guardare avanti». Anche Gianpaolo Patta di "Lavoro e Solidarietà" - altra componente che non ha partecipato al voto -, ha espresso un giudizio critico sullo stato della Federazione e sul processo che ha portato all'individuazione di un portavoce, frutto di un accordo fra PdCi e Prc, senza che si sia prodotto intanto alcun processo di integrazione reale nella Federazione. «Ora abbiamo un portavoce eletto a maggioranza e un coordinamento che si riduce a momento di confronto, quando è invece necessaria una maggiore integrazione del lavoro della Federazione». Si sono poi alternati interventi che insieme alla preoccupazione per lo stato della Federazione offrivano spunti e proposte di lavoro politico: Alfio Nicotra ha chiesto al Consiglio l'adesione della FdS alla manifestazione contro la guerra che si terrà il 2 aprile a Roma, Ramon Mantovani ha richiamato ai punti di unità che ci sono nella linea politica della Fds, Vittorio Agnoletto, parlando anche a nome di Ciro Pesacane e Rita Lavaggi, ha posto l'accento su quanto la FdS risulti poco attrattiva nei movimenti e poco percepita come tale, ma ha considerato un passo positivo la scelta di Rossi come portavoce. D'accordo Salinari, Zuccherini e Sodano, anche quest'ultimo ha posto l'accento sulle difficoltà del processo federativo, critica Anita Sonego, per il fatto che Rossi non si sia espresso nel suo intervento in merito alla contraddizione uomo/donna, mentre Sonia Previato, pur apprezzando l'intervento del candidato ha annunciato il proprio voto contrario in ragione del veto posto in precedenza dal PdCI, alla candidatura del segretario di Rifondazione. Molto ripreso l'intervento di Giovanni Russo Spena che ritiene importante avere un portavoce proveniente dai territori e dai movimenti, schierato da sempre e riconoscibile in alcune grandi battaglie sociali, mentre Jacopo Renda, ha lamentato l'assenza nel dibattito che si andava svolgendo di uno dei temi chiavi, il lavoro e lo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 6 maggio. Il portavoce è stato eletto con 44 voti a favore, 2 contrari e 1 astenuto. Paolo Ferrero ha concluso i lavori, non volendo nascondere gli elementi di problematicità ma provando a compiere una operazione di ricomposizione basata su elementi essenziali. Visto che si tratta di una crisi interna ai gruppi dirigenti ne va delimitata la portata, per questo ha ringraziato i compagni e le compagne di "Socialismo 2000" e di "Lavoro e Solidarietà" hanno espresso legittimamente il proprio dissenso non partecipando al voto. Un voto contrario non avrebbe permesso il superamento dell'"empasse". In seconda istanza ha ragionato attorno alla scarsa efficacia, finora dimostrata dalla Federazione, nel lavoro politico. Per Ferrero, la costruzione di un solo partito sarebbe la risposta sbagliata ad un problema serio che va risolto rendendo operativa la Federazione. «La linea politica è condivisa - ha concluso - Proponiamo un fronte democratico per difendere la democrazia ma, a differenza di Sel, lo facciamo in piena autonomia dal centrosinistra, come si vede nelle elezioni amministrative a Napoli a Salerno piuttosto che a Torino. Viviamo una crisi sociale che genera impotenza e che porta a cercare una risposta di carattere messianico. Vendola offre questa risposta e oggi vince perché afferma di poter vincere le primarie, e poi andare al governo. Noi crediamo che questa scelta sia sbagliata perché l'idea di andare al governo con un Pd che appoggia la guerra e Marchionne è un errore clamoroso». Nelle prossime settimane il consiglio verrà riconvocato; nel frattempo partiranno, con i pochi mezzi a disposizione, le campagne sociali e referendarie di cui la Federazione vuole essere protagonista.

FONTE: Liberazione, 26/03/2011

mercoledì 23 marzo 2011

La NATO divisa sulla guerra.

di Matteo Alviti

su Liberazione del 22/03/2011

Intervista al generale Fabio Mini, ex capo di stato maggiore Nato per l'Europa del sud, oggi anche autore, saggista e fondatore dell'associazione Peace generation

Sono passati ormai quattro giorni dai primi raid aerei francesi, e le operazioni militari contro le forze libiche sembrano lontane dalla meta. Quale che sia. L'obiettivo di questa "coalizione di volenterosi", così dice la risoluzione 1973 dell'Onu, è impedire violenze contro la popolazione inerme. Ma quali sono i limiti dell'operazione? Ne abbiamo parlato con un militare esperto, da qualche tempo "non operativo". Nella sua lunga carriera il generale Fabio Mini è stato ai quattro angoli del pianeta, ha comandato la KFOR della Nato in Kosovo, è stato capo di stato maggiore Nato per l'Europa del sud. Da qualche tempo scrive libri e saggi, ed è fondatore dell'associazione Peace generation.

Generale Mini, come si è arrivati dall'imposizione di una no-fly zone ai bombardamenti su Tripoli? Gli alleati si sono spinti oltre il mandato, come ha detto il segretario della Lega araba Moussa?

Non mi pare. L'imposizione di una no-fly zone comporta l'eliminazione delle minacce per gli aerei che devono far rispettare l'area di non sorvolo. Per cui, siccome nessuno ha mai accettato una no-fly zone - eccetto Saddam Hussein - quello che sta accadendo non è niente di più di ciò che si doveva fare, anzi. Oggi si vede un certo tentennamento che in altre occasioni non c'è stato. Chi dice il contrario o ha letto male la risoluzione o, come al solito, fa il levantino. Tutti sapevano benissimo quel che sarebbe successo. Le parole di Moussa dal punto di vista tecnico sono una stupidaggine.

Cosa si deve fare, tecnicamente, per bloccare i cieli libici?
Eliminare tutte le basi aeree e i radar. Anche quelli spenti. Cioè bisogna fare di tutto per farli accendere: bisogna volarci sopra più bassi, non da 11mila metri di altezza. Prendersi qualche rischio. Oggi tutti gli interventi sono stati fatti "a distanza": o con i missili cruise o con bombardamenti da alta quota. A eccezione degli interventi sulle colonne corazzate di Gheddafi, ma anche questo era previsto. Nella risoluzione si parlava di proteggere le popolazioni civili, non solo di no-fly zone. Tutti gli interventi fin qui operati rientrano pienamente nel mandato Onu. L'unica limitazione riguarda l'occupazione militare del suolo libico. Ma nel caso in cui Gheddafi dovesse continuare a attaccare, di sicuro il Consiglio di sicurezza si riunirà di nuovo per autorizzare anche l'intervento di terra. Spero di no, ma la mia esperienza mi dice che non c'è mai stata una no-fly zone che non sia stata seguita da un intervento di terra.

Il comando militare è su una nave statunitense di stanza a Gaeta, la Mount Whitney. Chi ha veramente il controllo delle operazioni, gli Usa o la Nato?

A Napoli ci sono anche i comandi statunitensi, non solo quelli Nato. La marina statunitense ha una sua base a Capo di Chino che controlla tutta la quinta flotta, impegnata su due fronti: proteggere gli interessi nazionali o agire per conto dell'Alleanza atlantica. A seconda del tipo di intervento indossa un cappello diverso. Oggi sono gli Stati Uniti a comandare.

Fino a che gli Usa non hanno preso in mano il coordinamento degli attacchi però c'è stata una certa confusione: Francia e Gran Bretagna si sono mossi individualmente. E' normale?
Non è normale. La confusione deriva dalla risoluzione dell'Onu, che invita tutti i paesi membri ad assicurare con la forza la no-fly zone. Non c'è stata la designazione di qualcuno - un organismo regionale come la Nato, o una nazione - che dovesse prendere la leadership della coalizione. Sarebbe stato auspicabile che prima della risoluzione una serie di paesi si fosse messa d'accordo. Ma non è successo. Probabilmente perché c'erano molti dubbi sul fatto che la risoluzione potesse passare. In passato è accaduto che gli Usa abbiano iniziato da soli. Ma non era ancora successo che non si sapesse, come in questo caso, chi debba prendere il comando della coalizione. Gli italiani vogliono metterla sotto la Nato, ma è un'opzione più complicata che non farla fare a nazioni singole.

Perché?
Nella Nato le decisioni si devono prendere all'unanimità, non c'è astensione - e questa è una debolezza endemica della Nato ridisegnata dal Nuovo concetto strategico dell'anno scorso. La Turchia non vuole l'intervento, e la Germania, che si è già astenuta all'Onu, direbbe di no. Insistere con la Nato è fumo negli occhi per evitare di assumersi delle responsabilità. L'ombrello della Nato, stavolta, sarebbe politico. Se l'Italia vuole stare con francesi e inglesi deve assumersi le proprie responsabilità. Se c'è qualcosa di scordinato è la politica, non il livello militare.

Poi c'è la questione delle basi.
E qui si potrebbe scrivere un'enciclopedia... Paesi terzi possono usare le nostre basi solo per missioni Nato. Quindi per tutte le missioni che non sono sotto l'ombrello Nato, le nazioni interessate dovrebbero chiedere bilateralmente il permesso all'Italia per avere l'uso delle basi. E in questo caso non ci sarebbero automatismi, ma sarebbe necessaria una decisione politica, un'approvazione da parte del governo o del parlamento.

Di quale arsenale dispone Gheddafi?
Materiale bellico molto datato. Hanno missili contraerei che potrebbero dare fastidio sotto i 5mila metri. Ma è tutta roba, quella sì, veramente scordinata. Anche perché i centri di controllo libici sono stati distrutti. Ora bisognerà eliminare fino al 90% di tutte le minacce aeree e contraeree. Per il resto, le forze armate libiche sono poca cosa: stiamo parlando di una decina di migliaia di persone armate. Non costituiscono, in sé, una vera minaccia.

Nemmeno per l'Italia?
Men che meno per l'Italia. Né in Gran Bretagna, né in Francia c'è l'allarmismo che c'è da noi, esagerato e strumentale per le beghe interne.

Cosa stanno facendo i piloti degli otto aerei italiani?
Un'operazione importantissima: svelare i radar. Si fanno puntare dai radar facendo da obiettivi ed eventualmente distruggono i radar pericolosi che hanno scoperto.

Una nostra specialità, se non sbaglio.
Più che una specialità è una necessità: non disponendo di mezzi sofisticati dobbiamo fare tutto con gli aeroplani. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di andare a fare gli obiettivi umani, quello che è capitato a Bellini e Cocciolone nella prima guerra del Golfo.

Oliviero Diliberto (portavoce nazionale della Federazione della Sinistra) :petrolio e gas i veri interessi, Italia via dalla Libia.

 

sabato 19 marzo 2011

Riparte la guerra umanitaria in Libia

Non più tardi di una settimana fa abbiamo manifestato in favore della Costituzione, adesso è il momento di applicare l'articolo 11.
La Costituzione prevede l'uso della forza solo per mantenere la pace, l'intervento in Libia invece è un'aggressione imperialista travestita da aiuto agli insorti. Le possibilità di trattativa sono state lasciate cadere quando Gheddafi era debole ed era possibile aiutare la parte di inurrezione che ricercava l'instaurazione di un regime migliore.Ora si interviene giusto in tempo per dare man forte agli insorti che vogliono semplicemente una redistribuzione dei pozzi petroliferi tra Exxon, Total, Eni e le altre compagnie occidentali.
L'ipocrisia feroce di questo "aiuto agli insorti" è resa evidente dall'appoggio che l'Arabia Saudita sta dando all'avvio delle operazioni, pochi giorni dopo aver invaso il Bahrein per stroncare la rivolta che imperversava alle porte di casa.
Già nel cinquantenario dell'Italia Unità inaugurammo il nostro bestiale colonialismo con la Libia, vediamo di non essere complici ancora una volta nel centocinquantenario.



Soldati per coprire gli imbarazzi della politica.
del Generale Fabio Mini

Ci risiamo. Lo schema classico dell´intervento militare internazionale è scattato nei confronti della Libia. Come al solito, i caccia intercettori scaldano i motori, gli Awacs sono in volo e i siti militari libici sono già inseriti nell´elenco degli obiettivi da colpire.

Alla prima distrazione o intemperanza di Gheddafi scatta la ritorsione armata. La Libia è già un Paese a sovranità limitata e non basteranno né le minacce e neppure i colpi di coda del regime a restituirle lo status internazionale perduto. La risoluzione 1973 dell´Onu autorizza la no-fly zone e l´uso della forza con la sola esclusione, per ora, dell´occupazione militare. Non è una garanzia di limitazione del conflitto: tutte le operazioni aeree del passato sono state seguite da operazioni terrestri. Guerre vere e proprie, anche se chiamate in vari modi. Ed è questo che deve preoccupare e spingere già ora a trovare una soluzione al dopo-Gheddafi che non porti all´esplosione della Libia o alla trasformazione del Nordafrica in una confederazione di compagnie petrolifere guidata da Total o Bp, Exxon o Chevron, dalla Mauritania all´Egitto, fino al Sudan e alla penisola arabica. L´Italia è in prima linea dal punto di vista geografico e lo sarà anche da quello militare perché il controllo della no-fly zone potrebbe durare anni e le nostre basi, i nostri radar, le nostre navi saranno essenziali. Saremo soggetti ai rischi di ritorsioni libiche già annunciate: parlano di terrorismo e di "bomba migratoria". Sono tuttavia minacce che toccheranno molto di più i poveracci costretti a fuggire che i nostri cittadini, che ci richiederanno di recuperare credibilità internazionale più che vantaggi economici. Il nostro intervento militare è obbligato proprio per superare gli imbarazzi che da soli ci siamo procurati con decenni di compromessi culminati in un trattato inapplicabile. Dobbiamo recuperare la nostra immagine politica e ci dovranno pensare i soldati. Come al solito.

La scellerata risoluzione Onu che porta alla guerra
di Fabio Amato, responsabile esteri PRC

Il Consiglio di sicurezza dell'Onu si è pronunciato a favore dell'istituzione della No fly zone sulla Libia e dell'autorizzazione all'uso di non meglio precisati mezzi necessari a prevenire violenze contro i civili. In altri termini, ha autorizzato la guerra.
Il pallido e fino ad oggi insignificante Ban Ki Moon, diventato presidente dell'Onu solo in virtù dei suoi buoni uffici con gli Usa e del suo basso profilo, si è esaltato fino a definire la risoluzione 1973 storica, in quanto sancisce il principio della protezione internazionale della popolazione civile.
Un principio che vale a corrente alternata. Non ci sembra di ricordare sia evocato quando i cacciabombardieri della Nato fanno stragi di civili in Afghanistan. Altrettanta solerzia non è risultata effettiva quando gli F16 dell'aviazione israeliana radevano al suolo il Libano o Gaza, uccidendo migliaia di civili innocenti.
Si tratta, in realtà, di un precedente ben pericoloso. Sul quale giustamente paesi come la Russia, la Cina, il Brasile, l'India e la Germania hanno espresso più di una riserva. Che si è limitata però ad un'astensione, che lascerà di fatto liberi quei paesi che hanno deciso di bombardare Tripoli e sostituire Gheddafi con le fazioni a lui ostili per un cinico calcolo geopolitico e di convenienze. Sia chiaro a tutti che i diritti umani e le giuste aspirazioni dei giovani libici alla democrazia e a liberarsi dal regime non c'entrano nulla con la decisione di Parigi e Londra, seguite a ruota dal sempre più deludente Obama, di attivare l'intervento militare.
Chi sarà in futuro a decidere quali violenze contri i civili sono accettabili o meno saranno solo e sempre le superpotenze militari imperialiste e occidentali. E lo faranno con il sostegno del sistema di informazione mondiale che selezionerà alla bisogna chi e come andrà bombardato, chi potrà o meno rimanere al potere.
Chi stabilisce, infatti, che si decide di bombardare la Libia, mentre si consente all'Arabia Saudita di inviare truppe per sedare le proteste nel vicino Baherein, mentre si lascia il presidente dittatore da trentadue anni dello Yemen, Abdullah Saleh, sparare da giorni sulla folla che ne chiede a gran voce e da tempo le dimissioni? Si arriva al paradosso che la petromonarchia del Qatar, anch'essa impegnata nel reprimere le proteste del Baherein con il suo esercito, ha allo stesso tempo annunciato che invierà i suoi caccia per la democrazia in Libia.
Tutto ciò dimostra solo come nel caso libico si è da subito tentato di intervenire militarmente per interessi geopolitici.
Quale è infatti la razionalità politica di tale scelta? Semplice.
Come sempre, ciò che muove gli eserciti non sono le intenzioni umanitarie, ma ben altre ragioni e motivazioni. Seguite il petrolio, il gas e i dollari e troverete la risposta.
Per ciò che riguarda la Francia e la sua frenesia di menar le mani si segua, oltre alla via del petrolio, quella dell'uranio che alimenta le sue centrali nucleari e quelle che vende per il mondo.
Il cessate il fuoco unilaterale dichiarato dal governo libico forse lascia del tempo per cercare di evitare la tragedia di una guerra nel mediterraneo. Temiamo duri poco. Sarà cercato in ogni modo un pretesto per giustificare comunque l'attacco, ora che una parvenza di legittimità internazionale è stata data dalla sciagurata risoluzione 1973.
L'Onu, che dovrebbe prevenire i conflitti fra gli Stati, in questo caso ha varato una decisione che potenzialmente potrebbe allargarlo e diffondere la guerra. Una decisione quindi si storica, ma per stupidità. Una stupidità alla quale, naturalmente, non si sottrae il governo italiano, pronto a dare basi uomini e mezzi all'impresa. In buona compagnia del Pd - già d'altronde in prima fila nelle guerre umanitarie del passato - che condivide apertamente tale scelta.
Mentre la situazione in Libia stava precipitando, solo alcuni paesi progressisti dell'america latina hanno avanzato, invece di minacce e proclami, una proposta di mediazione, di soluzione politica del conflitto capace di scongiurare la guerra civile e l'intervento esterno. Questa proposta è rimasta colpevolmente abbandonata. Se vi sono ancora degli spiragli per evitare il peggio vanno usati ed agiti fino in fondo. Serve da subito una mobilitazione del popolo della pace per fermare la macchina da guerra che sta scaldando i suoi motori. Serve scendere subito in piazza contro la guerra e per chiedere che l'Italia rimanga fuori da questa nuova e sciagurata avventura bellica. Noi ci saremo.
 



 
 

giovedì 17 marzo 2011

Gramsci e il Risorgimento / La Costituzione è la nostra Patria

Nel 150enario dell'Unità d'Italia, per i comunisti, per la sinistra e per tutti gli italiani, è utile ricordare ciò che Gramsci scrisse sul processo di unificazione nazionale. In questi anni Gramsci viene tirato per la giacchetta per giustificare i deliri secessionisti padani e neoborbonici oppure per sostenere in maniera acritica la storia ufficiale dell'Unità, facendo finta che gli obiettivi progressisti dei Garibaldi e dei Mazzini fossero gli stessi dei Cavour e dei Savoia.
Gli scritti di Gramsci sul Risorgimento possono essere scaricati cliccando: Iperteca.it Gramsci e il Risorgimento

Insieme, pubblichiamo l'articolo di Raul Mordenti: I Comunisti, Gramsci e il Risorgimento, pubblicato dalla rivista Su La Testa nel Maggio 2010



1. Ci troviamo di fronte (e per molti del tutto inaspettatamente)alla crisi dell’unità nazionale e dello Stato-nazione; questo binomio è attaccato simultaneamente: “dall’alto”, per il prevalere dei meccanismi decisionali superstatuali (e dunque assolutamente a-democratici) propri della globalizzazione capitalistica e della dittatura delle banche che governano l’Europa dell’euro, e però anche “dal basso”, per il riemergere di tensioni localistiche, “comunitarie” e micro-scioviniste di difesa delle “piccole patrie” di cui la Lega Nord si è fatta interprete politica. 
Non sfugge come i due processi siano in realtà uno solo, e che proprio in tale nesso paradossale con la globalizzazione capitalistica risieda la forza penetrativa della proposta della Lega fra le masse popolari, così che il Governo della destra si presenta, al tempo stesso, come concausa potente della crisi (perché garantisce in Italia i diktat del capitale finanziario globalizzato) e come pseudo-soluzione demagogica di essa. 
Se questo è vero, la forza della Lega deve essere da noi valutata come in pericolosa ascesa (anzi a me sembra appena all’inizio delle sue capacità devastanti), perché essa si dimostra capace di legare coerentemente una proposta economicosociale (l’accanita difesa dei più deboli fra i forti) con un immaginario securitario fortissimo e diffuso, nutrito dai profondi umori razzisti della feroce “brava gente” di questo infelice Paese. 
Mutatis mutandis è questo razzismo “all’italiana” (cioè ipocritamente denegato ma profondo ed operante, cioè pronto a uccidere) la vera base di consenso anche delle formazioni neo-fasciste e neo-razziste fra la plebe delle periferie urbane, un consenso già oggi assai preoccupante che mi pare tuttavia destinato a crescere. 
Con tutto ciò dovremo fare assai duramente i conti nel prossimo futuro. Il confine fra farsa e tragedia è infatti assai labile, e l’attuale comicità dei Borghezio, dei Gentilini e dei Fiore scomparirebbe in un attimo di fronte a una crisi economico-finanziaria dispiegata, cioè la proposta secessionista di tipo (pseudo-)etnico “sloveno” o “kossovaro” diventerebbe di colpo credibile e fortissima se l’Italia fosse direttamente investita da una crisi conclamata di tipo greco (o argentino), insomma da una crisi capace di annichilire in poche settimane, o in poche ore, sia i risparmi della piccola borghesia, sia il credito della piccola e media industria e sia milioni di posti di lavoro del proletariato vecchio e nuovo. Non credo che in una tale situazione di “si salvi chi può!” sarebbero la grande Banca Europea e i suoi agenti in Italia a difendere un minimo di convivenza civile fra indigeni e migranti e neppure l’unità statuale del Nord con il Sud d’Italia. 


2. Per questo (e non solo per l’occasione banale del centocinquantesimo anniversario della conquista regia sabauda1) occorre che i comunisti rimettano oggi al centro della loro riflessione, e della loro azione politica, il tema dell’unità nazionale. Intendo dire che se, come sembra, dovremo noi comunisti difendere l’unità della Repubblica italiana, allora occorrerà chiarire bene (anzitutto a noi stessi): a) cosa intendiamo per unità nazionale e b) in cosa consistano per noi e per la nostra classe i valori positivi di tale unità. Sembra infatti evidente che non possiamo noi limitarci ad essere solo parte (e parte necessariamente subalterna) della difesa dell’unità nazionale condotta dall’arco di forze che va da Napolitano a Fini, passando per Draghi. 
Quell’idea borghese e tradizionale di unità nazionale manca infatti di un tratto per noi assolutamente determinante, che consiste nel principio di inclusione nello Stato-nazione Italia delle masse popolari, e tanto più di quella frazione decisiva della nostra classe che è oggi la popolazione migrante, cioè i settori in continua crescita di proletariato non indigeno. 



3. Come sempre quando si tratta di pensare originalmente eppure rigorosamente, il “ritorno a Gramsci” ci può aiutare. Come è noto, Gramsci analizza il Risorgimento nazionale trovando in esso le radici e le tracce di una debolezza storica della borghesia italiana e della sua rivoluzione mancata2. La radicalità dell’analisi gramsciana fu in realtà assai meno condivisa nel Pci di quanto si potrebbe credere, per motivi che sarebbe troppo lungo analizzare in questa sede: limitiamoci a dire che la “destra” del Partito vedeva in quell’analisi una delegittimazione troppo drastica dello Stato borghese, e dunque il rischio di una posizione rivoluzionaria, mentre la “sinistra” del Partito leggeva in quella critica la riproposizone del paradigma dell’“arretratezza”, che poteva condurre alla subalternità nei confronti delle spinte innovatrici del neo-capitalismo degli anni Cinquanta e Sessanta. 
Negli uni come negli altri pesava inoltre una sorta di timidezza di fronte agli attacchi portati alla posizione di Gramsci dal liberale Rosario Romeo sul terreno propriamente storiografico, con l’argomentazione secondo cui il sacrificio del Sud era stato in effetti cosa buona e giusta essendo servito per una sorta di accumulazione primitiva interna, e dunque per il decollo del capitalismo italiano a Nord, il quale sarebbe stato invece impedito dalla diffusione a Sud di una piccola proprietà contadina di tipo “giacobino” rimpianta da Gramsci. Così, come spesso accadde anche per altre questioni cruciali, Gramsci fu nel Pci assai più citato che compreso e utilizzato. E prevalse fra i comunisti una linea “ossessivamente unitaria”, a cui forse non fu neppure estraneo il fatto che la serie dei segretari del Partito (Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer-Natta) fu tutta senza eccezioni fatta di compagni – per dir così – appartenenti all’ex Regno del Piemonte, una circostanza davvero singolare che forse contribuì alla vistosa incapacità dei comunisti italiani di cogliere i limiti permanenti dell’unità nazionale, soprattutto per ciò che riguardava il Sud d’Italia (e dunque alla strutturale debolezza del Pci in quelle parti del Paese). 
Restò soprattutto largamente incompresa e inutilizzata la dura critica di Gramsci a proposito del ruolo svolto nel Risorgimento italiano dalle “classi colte”, cioè – in sostanza – a proposito del carattere retorico-letterario dell’unità nazionale italiana. 



4. Scrive Gramsci: “Un’altra trivialità molto diffusa (..) è quella di ripetere in vari modi e forme che il moto nazionale si poté operare per merito delle classi colte. Dove sia il merito è difficile capire. 
Merito di una classe colta, perché sua funzione storica, è quello di dirigere le masse popolari e svilupparne gli elementi progressivi; se la classe colta non è stata capace di adempiere alla sua funzione, non deve parlarsi di merito, ma di demerito, cioè di immaturità e debolezza intima.” 
E giustamente Gramsci conclude l’analisi comparativa delle culture storiche italiana e francese a proposito della nazione: “Nazione-popolo e nazione-retorica si potrebbero dire le due tendenze.” 
Altrove Gramsci parla del nesso Gioberti-Croce, cioè della funzione decisiva svolta per l’unità nazionale dall’impostazione giobertiana che consisteva, in buona sostanza, nel delineare un principio di identificazione nazionale che sarebbe consistito nella tradizione culturale, cioè in ultima analisi letteraria, della nazione italiana. In altre parole: questo popolo privo per secoli di libertà, di Stato, di esercito, di comunanza economica e sociale, di governo unitario, sarebbe stato tuttavia unito da sempre, e questo per la sua capacità di produrre una letteratura nazionale avant la lettre, insomma per il solo fatto di avere visto nascere nei suoi confini Dante, Petrarca, Boccaccio e via seguitando. Anzi, per un meccanismo di risarcimento ideologico (cioè rovesciato) che a noi oggi appare del tutto tipico dei poveretti, questa posizione sostiene che quanto più questo Paese è stato miserabile e schiavo, tanto più esso ha però esercitato un Primato “morale e civile” (cioè, ancora una volta: retorico-letterario) sul resto dell’Europa e del mondo, in quanto espressione organica e diretta prima dell’Impero romano e poi della Chiesa cattolica. Così il Giusti, citato ironicamente da Gramsci: “noi eravam grandi e là non eran nati”. 
Queste idee giobertiane non furono solo di Gioberti; per venire ad un autore laico che fu importante anche per Gramsci, esse reggono anche – a ben vedere – tutta la grande costruzione ideologica della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1817-1883). Sarebbe difficile sopravalutare l’importanza che quel paradigma, continuamente riproposto fino ai nostri giorni in innumerevoli altre storie letterarie “ad uso dei Licei”, ebbe nelle nostre scuole e università e, insomma, il ruolo decisivo che quella costruzione ideologica giocò nel “fare gli italiani” (cosa assai più difficile e complicata, come si sa, che “fare l’Italia”). Secondo questa idea-forza, ripetuta ossessivamente e unanimemente dai nostri apparati culturali post-risorgimentali fino a diventare senso comune, l’Italia come entità autonoma ed unita ci sarebbe stata da sempre (o dal Duecento almeno) giacché erano esistite una lingua e una letteratura italiana8; si trattava ora solo di dare a questa entità nazionale il suo Stato unitario, anzi di restiturglielo, dato che (non certo a caso!) un tale processo veniva chiamato Ri-sorgimento, come se si trattasse di far tornare a nascere un qualcosa che c’era già stato “prima”. 
In altre parole: nel disegno che possiamo per comodità espositiva definire “giobertiano-desanctisiamo”, veniva “inventata”9 una tradizione nazionale, la narrazione di una coscienza letteraria eccellente e da sempre unitaria anche se espressa da un popolo-nazione temporaneamente diviso e casualmente servo. 
E si comprende così anche il mito di Dante e il suo “uso politico”, così importante nei decenni a cavallo dell’unità nazionale: 
Dante inteso come padre della patria perché padre della nostra lingua e della nostra letteratura, e questo spiega anche come mai impadronirsi del suo mito (insomma: tirare padre Dante per la giacchetta dalla propria parte) divenisse problema politico decisivo per le diverse tendenze che si contendevano l’egemonia del Risorgimento: Dante testimone sommo dell’eterno spirito cattolico dell’Italia oppure Dante profeta della fine del potere temporale dei Papi e loro esemplare vittima? Insomma: Dante guelfo o Dante ghibellino? Per quanto oggi possa sembrare strano, dal modo in cui venivano sciolti questi nodi derivava un asse eticopolitico, oppure un altro, per il neonato Stato-nazione Italia. 



5. Gli studi che si sono accumulati dopo la morte di Gramsci ci permettono di capire meglio questa costruzione ideologica e anche di apprezzarne meglio i gravissimi limiti; in essa molto, davvero troppo, andava perduto. 
Dal punto di vista storico-letterario (che non ci interessa qui prioritariamente) andavano perduti tutti i secoli compresi fra la fine dell’Impero romano, oggetto di studio della letteratura latina, e il manifestarsi letterario del “volgare di sì” (un “buco” di circa sette secoli, mai più recuperato nelle nostre scuole!); così come andava perduta tutta la letteratura scritta in Italia e da italiani ma non in lingua italiana, a cominciare da quella in latino, che pure è tanta parte anche delle “tre corone” (per non dire della letteratura medievale e umanistica e fino al Seicento inoltato) fino a quella in lingua francese (si pensi solo ai Mémoires di Goldoni: gli italiani colti scrivono in francese fra Sette e Ottocento, Manzoni compreso), e andava perduta completamente la letteratura dialettale, talvolta in Italia davvero straordinaria, e basti dire che il grandissimo Belli non è neppure citato dal De Sanctis, e da tutti i tanti che seguirono la sua strada; così come venivano del tutto trascurati, lasciati fuori da quella narrazione oltre che del concetto stesso di “letteratura”, interi generi letterari e tipologie di testo. 
Ma soprattutto quel fondamento retorico dell’unità nazionale si rivelava debolissimo dal punto di vista politico: mentre in altri Paesi l’asse dell’unità nazionale veniva individuato in cose come la lotta contro le tasse, o in un esercito nazionale, o in un assetto economico più razionale etc., da noi tale asse era cercato e trovato in una tradizione retorico-letteraria, per giunta largamente inventata. Per capire tutta la intrinseca debolezza di una tale scelta basti riflettere al fatto che in Italia nel 1861 il 78% della popolazione era analfabeta (72% fra i maschi, 84% fra le donne!) con punte del 91% in Sardegna e del 90% in Calabria e Sicilia; dieci anni dopo l’Unità gli analfabeti erano ancora il 72%, e secondo l’ISTAT ancora nel 2001 ci sono 782.342 italiani/e che non sanno né leggere né scrivere. 
Cosa poteva significare la tradizione retorico-letteraria nazionale per tutti costoro, cioè per il nostro popolo? E cosa significò per loro l’unità nazionale, se non coscrizione obbligatoria, guerre, tasse e carabinieri? 



6. Questo vizio d’origine della nostra unità nazionale non è dunque secondario né contingente; e non è questa idea tradizionale e retorica di nazione che noi comunisti possiamo difendere o (peggio) illuderci di restaurare, magari con qualche mostra e qualche monumento in più in occasione del centocinquantesimo. 
Anche perché all’antica estraneità della nostra gente nei confronti dello Stato-nazione se ne è aggiunta oggi un’altra, forse ancora più radicale, che si connette alla presenza dei migranti: nel 2008-9 (secondo il Rapporto sulla scuola in Italia della Fondazione Agnelli, Laterza, 2010) l’8% della popolazione scolastica italiana (629.876 ragazze e ragazzi) era fatto da cittadini stranieri; nel 1998-99 la percentuale era solo dell’1%, e fra dieci anni (alla faccia di tutti i Calderoli e le Gelmini) essa oscillerà fra il 20 e il 30%. Questi ragazzi ci portano la ricchezza straordinaria del loro vivere le culture a cui appartengono naturalmente “in contrappunto”, per usare un bel concetto di Said che fu molto caro al nostro Giorgio Baratta. 
“Contrappunto” significa che le culture si incontrano nella pluralità, e che però il “suono” di ciascuna rimane udibile nell’incontro col suono dell’altra, e anzi che proprio e solo da un tale intreccio nascono inedite e meravigliose armonie; a ben vedere, le culture sono nate e si sono sviluppate sempre così, cioè sempre e ovunque mescolandosi, ed è per questo che la differenza fra le culture è una straordinaria ricchezza, non una condanna, purche si sia capaci di incontro, e di ascolto. 



7. Qual è allora per noi l’elemento unificante dello Stato-nazione Italia? Che cosa è in grado di farci sentire parte di un’unica comunità statuale-nazionale, se questo non è e non può più essere per noi né la letteratura né l’“etnia” né la religione e meno che mai l’ambiguo concetto (intinsecamente fascista) di un nesso fra “suolo e sangue”, cioè fra l’entità geografica italiana e i suoi abitanti indigeni?
Questo elemento politico e culturale (nel più ampio senso di queste parole) è la Costituzione, perché in essa il principio di inclusione spetta a tutti e a tutte, e si presenta sotto forma di garanzia e promessa di diritti uguali per tutti e tutte, esplicitamente annullando (nell’art.3) le differenze “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, e dunque più ancora rinnegando ogni interpretazione sostanzialistica di tali differenze; non è certo un caso che la Costituzione fruttifichi dall’episodio più rilevante di protagonismo politico delle masse popolari della nostra storia, la Resistenza. 
La Costituzione è la nostra patria, l’unica (a parte il mondo intero, naturalmente). 



Acqua e nucleare: manifestazione nazionale il 25 marzo

Il governo (e pezzi dell'opposizione parlamentare) hanno paura dei referendum e per questo sono disposti a buttare dalla finestra 300 milioni di euro per farli a giugno, quando le probabilità di arrivare al quorum saranno più basse.
Il 26 marzo a Roma tutti i sostenitori dei referendum manifesteranno per sostenere le ragioni dell'acqua pubblica e del rifiuto del nucleare e per chiedere ancora una volta l'accorpamento dei referendum alle elezioni amministrative. Per aderire basta inviare una mail a ma.simonini@tiscali.it


Election day, un radicale salva il governo atomico


di Checchino Antonini (Liberazione del 17 marzo 2011) 
Il sole e l’acqua. Mica la luna. E’ tutto quello che chiede il popolo dei beni comuni che scenderà in piazza il 26 marzo per la terza volta. La prima manifestazione di primavera è la loro. L’esordio fu per 40mila e la legge di iniziativa popolare che presentarono è ancora nei cassetti in cui la insabbiò il governo “amico”. L’anno appresso, però, erano cinque volte di più e lanciarono la campagna per i tre quesiti che avrebbe prodotto il maggior numero di firme, quasi un milione e mezzo, riaprendo la speranza di un’inversione di tendenza dal basso rispetto agli scempi del liberismo. Sarebbe stato ragionevole accorpare i referendum alle amministrative ma, proprio nel giorno del lancio della campagna referendaria, la Camera boccia le mozioni per l’election day e il ministro Romani trova che sia addirittura una mossa perché non si voti con la pancia ma con la testa. Possibilmente con la sua testa. Questione di cricche, la lobby nuclearista e quella delle multinazionali, che hanno parecchi punti di contatto e lui le rappresenta entrambe. A salvare il governo il voto decisivo di tale Beltrandi, un Carneade radicale che passerà alla storia per bruciato 400 milioni di euro pubblici nel transito del suo partito dal sole che ride all’uranio che ride alla faccia dei bambini colpiti dalla leucemia cinque volte più dei loro coetanei che vivono lontani da una centrale atomica. 
«I referendum del 12 giugno (data che ormai pare certa) rappresentano la possibilità di sconfiggerle quelle cricche», commenta Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista a margine di una giornata segnata dalle notizie tremende provenienti dal Giappone e dalla chiamata del popolo dell’acqua pubblica per la manifestazione del 26. Se c’è una cosa che davvero unisce gli italiani, scrivono i referendari a Napolitano, è proprio questa voglia di beni comuni e di acqua pubblica. 
Da due settimane, invano, il comitato attende una risposta di Maroni alla sua richiesta di un incontro sulla ragionevolezza dell’election day. Tace, per ora, il partito del No, delle multinazionali dell’acqua, finora contava sul silenzio ma probabilmente scenderà in campo con una strategia diversa ora che il disastro nipponico rischia di avere un effetto di trascinamento su tutti i quesiti referendari: «Le privatizzazioni sono state fatte con la scusa di aumentare la qualità del servizio e fare gli investimenti necessari. Ma è evidente che non è così, e se sovrapponiamo la mappa delle privatizzazioni con quella dei problemi della qualità del servizio e dei rincari, è evidente che coincidono perfettamente», spiega Paolo Carsetti nella conferenza stampa affollata da cronisti ed esponenti del movimento. 
Il 26, come da tradizione, saranno i gonfaloni degli enti locali ad aprire la sfilata da Piazza della Repubblica a Piazza San Giovanni dove debutterà il drappo azzurro dei due Sì, lo stesso che sventolerà da finestre, balconi e anche dalle torri di municipi. Come quello di Corchiano, nel viterbese, governato dal ’96 da Bengasi Battisti, cinquantunenne, sindaco e del Pd. «Che ne sarebbe di una comunità senza beni comuni?», si chiede Battisti raccontando con orgoglio della Casa dell’acqua piazzata nella piazza del comune. Non è solo lo strumento che, erogando acqua a 5 cent al litro, ha consentito di non consumare mezzo milione di bottigliette di plastica in sei mesi ma è un luogo di aggregazione. Un ragazzino delle medie gli ha spiegato che usare il vetro significa amare la pace: «Perché le guerre si fanno tutte per il petrolio, e col petrolio si fa la plastica». 
Dei quattromila abitanti ben 1200 hanno firmato per i quesiti ripubblizzatori in un borgo a una cinquantina di chilometri da Montalto di Castro, luogo di incubi nucleari, prima, di incubi carboniferi ora. E in una provincia che detiene il record non lusinghiero di arsenico nell’acqua potabile con 78 comuni interessati. Sul Lago di Vico viene superato anche di 15 volte il limite di 10microgrammi che il governo, non fosse intervenuta la stroncatura dell’Ue, avrebbe raddoppiato senza battere ciglio. L’avesse gestito ancora il comune, Battisti avrebbe istallato un dearsenificatore ritoccando del 5-6% le bollette. Invece, la società privata le ha raddoppiate senza uno straccio di intervento sugli impianti. L’unico progetto è quello di portare fin qui l’acqua dall’Alta Sabina. Naturalmente ci penserebbe la cricca della protezione civile.

sabato 12 marzo 2011

Sondrio: fallisce l'alleanza tra Pdl e Lega

La vicenda che ha accompagnato il siluramento di Patrizio Del Nero mette in evidenza la crisi che attraversa in provincia di Sondrio la ormai ex alleanza fra Lega e Pdl.

Non è più certo se la Giunta Sertori possa ancora contare su una maggioranza in Consiglio e dunque vi è il rischio di una paralisi operativa e decisionale di tutta l’Amministrazione Provinciale proprio quando l’agenda che riguarda il nostro territorio vede l’avvicinarsi di numerosi appuntamenti decisivi.

Ieri non abbiamo assistito solo ad una figuraccia delle destre, ma abbiamo visto consumarsi il fallimento dell’alleanza politica elettorale fra Lega e Pdl, un fallimento che non può essere fatto pagare ai Valtellinesi e Valchiavennaschi.
Sarebbe doveroso prendere atto di ciò e, conseguentemente, costruire un percorso che consenta di restituire il prima possibile la parola agli elettori.
In questo contesto le forze del centro-sinistra devono coordinarsi per predisporre da subito una forte e credibile proposta di alternativa.

Contro il sovversivismo delle classi dirigenti

Oggi saremo in piazza per difendere la Costituzione. Non si tratta di un gesto rituale. La nostra Costituzione non solo fissa le regole attraverso cui costruire una civile convivenza nel paese. Indica la strada attraverso cui sviluppare le relazioni sociali per accedere ad una migliore , più libera ed egualitaria, convivenza civile. E' una buona Costituzione, scritta - come ci ricordava Duccio Galimberti - con il sangue dei partigiani, che noi vogliamo gelosamente conservare affinché la società possa progredire. 
Con ogni evidenza la Costituzione è sotto attacco. Lo è da parte del governo Berlusconi che vuole stravolgere l'equilibrio dei poteri tra esecutivo e giudiziario e vuole ridisegnare il ruolo dell'impresa sgravandola da ogni responsabilità sociale per ergerla a potere sovrano e principio ordinatore delle relazioni sociali. Berlusconi è chiaramente un eversore, degno erede di Gelli, e come tale si comporta. 
Non è però il governo Berlusconi l'unico aggressore della Carta Costituzionale. Anche la Confindustria ha preso a pieno il posto tra gli eversori. Quando Marchionne mette in discussione il diritto dei lavoratori e delle lavoratrici di organizzarsi in sindacati autonomi ed indipendenti sta attaccando la Costituzione. Quando Marchionne mette in discussione il diritto di sciopero sta attaccando la Costituzione. Quando la Confindustria si pone l'obiettivo di generalizzare la distruzione del contratto nazionale di lavoro sulla scia di Marchionne, sta attaccando la Costituzione. 
A questi due eversori interni, in questi giorni si sta aggiungendo un complice ulteriore: l'Unione Europea. Nello sciagurato accordo, pomposamene chiamato «Per l'euro», che stanno siglando in questi giorni i ministri economici, si discute lo scardinamento della Costituzione Repubblicana. E' infatti sul piatto la proposta che il Patto di stabilità - una stangata pesante e prolungata nel tempo dell'ordine di oltre 20 miliardi di tagli l'anno - venga recepito all'interno della Costituzione italiana stravolgendone completamente il senso. Se oggi la Costituzione mette al centro il diritto al lavoro e lo sviluppo dei diritti sociali e civili, l'Unione Europea discute di imporci una riscrittura della Costituzione attorno ai sacri dogmi del neoliberismo e delle politiche antisociali. Un vero e proprio colpo di stato monetario. 
Oggi, mentre scendiamo in piazza per la difesa della Costituzione, vogliamo dire forte e chiaro che non lo facciamo solo contro Berlusconi, ma anche contro Confindustria e Unione Europea. Con buona pace di larga parte del Centrosinistra, ci battiamo contro il sovversivismo delle classi dirigenti, italiane ed europee, di cui Berlusconi è un esponente. Forse tra i più determinati - e più grotteschi - ma certo non isolato nel panorama politico continentale. 


Paolo Ferrero, da Liberazione del 12/03/2011

mercoledì 9 marzo 2011

12 Marzo - A difesa della Costituzione - Sondrio


La Federazione della Sinistra di Sondrio aderisce alla manifestazione "A difesa della Costituzione" promossa per il 12 marzo, alle ore 17 e 30 in Piazza Campello a Sondrio.

La Costituzione della Repubblica, nata dalla guerra di Resistenza antifascista, deve essere salvata dall'attacco frontale che il governo e i padroni stanno portando.
Bisogna difendere l'istruzione pubblica, le libertà sindacali, i limiti sociali imposti all'impresa e alla proprietà privata, il ripudio della guerra.

Lettera di adesione della Federazione della Sinistra Nazionale


Cari amici e compagni, aderisco a nome mio personale e di tutta la Federazione della Sinistra alla giornata del 12 marzo. La difesa della Costituzione, così come essa è stata scritta dai costituenti, è la garanzia di un'Italia giusta, egualitaria, legale, repubblicana. E' una risposta agli attacchi quotidiani, volgari e incompetenti, di chi pensa che l'esercizio unilaterale del potere sia la forma della modernità e dell'efficienza. Noi della Federazione della Sinistra saremo felici di sfilare a fianco delle donne e degli uomini che amano e lottano per la democrazia. Porteremo con orgoglio la Costituzione e la bandiera italiana, entrambi simboli unitari, contro i tentativi in atto di spaccare il paese, dividere i lavoratori abolendo il contratto nazionale di lavoro, praticare un bieco federalismo in cui l'egoismo dei ricchi si esercita indebolendo ulteriormente i poveri.
- Oliviero Diliberto.

giovedì 3 marzo 2011

SCIOPERO GENERALE!


Il tanto atteso sciopero generale della Cgil ci sarà il 6 maggio. Lo ha annunciato il segretario generale Susanna Camusso, parlando all'attivo dei delegati di Modena.

«Bene lo sciopero generale ma la data è troppo in là. È comunque necessario uno sciopero di 8 ore che provi a fermare tutto il Paese e che non sia solo contro il governo ma anche contro Confindustria». Queste le parole di Giorgio Cremaschi, esponente dell'area di minoranza della Cgil, 'La Cgil che volgiamo', a commentare l'annuncio del leader della cgil sullo svolgimento dello sciopero generale, di 4 ore con manifestazioni territoriali, che si terrà il 6 maggio prossimo.

martedì 1 marzo 2011

Contro la guerra "umanitaria" in Libia

Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista - Sinistra Europea
Di fronte all’emergenza umanitaria libica chi parla di intervento militare umanitario vuole semplicemente accaparrarsi il petrolio a basso prezzo rimettendo in piedi una sorta di protettorato occidentale in Libia. E’ una prospettiva inaccettabile perché il popolo libico deve decidere del suo futuro senza ingerenze militari esterne.
I paesi occidentali, l’ONU, la Croce Rossa Internazionale, invece di vagheggiare l’intervento militare devono immediatamente garantire l’afflusso in Libia di cibo e medicinali perché di questo e non di interventi militari ha bisogno il popolo libico. Così come il governo italiano e la Lega Nord invece di alimentare ad arte la paura dell’invasione dei profughi  devono impegnarsi in una solida azione di cooperazione internazionale verso i popoli del Nord Africa, invertendo la tendenza all’azzeramento dei fondi per la cooperazione internazionale che ha caratterizzato questo governo.

Libia, qualche distinguo e un po' di storia di Alberto Burgio su Liberazione del 27/2/2011

Che cosa accade e, soprattutto, che cosa può accadere in Libia? Mentre scriviamo, le notizie si susseguono contraddittorie. Molte agenzie danno Gheddafi per spacciato, asserragliato nel bunker di una Tripoli sotto assedio. Ma sino a poche ore fa altre fonti descrivevano una capitale calma, sotto controllo, al pari dell'aeroporto militare di Mitiga del quale, pure, si era detto fosse stato espugnato dagli insorti. Sembra improbabile comunque che il regime possa resistere e anche l'ipotesi del negoziato con i ribelli, ventilata da ultimo da Saif al-Islam (uno dei figli del Colonnello, interprete dell'anima «moderata» del regime), appare di ora in ora più inverosimile.
Restano le domande. La rivolta libica è analoga a quelle che hanno decretato la fine delle dittature tunisina ed egiziana? E' parte del terremoto che da settimane scuote tutto il nord Africa e che va propagandosi fino al Medio Oriente minacciando la stabilità della stessa Arabia Saudita e del regime degli ayatollah? Indubbiamente sussistono molte connessioni. Quale che sia la natura della rivolta libica, non è casuale che essa si verifichi all'indomani delle insurrezioni in Tunisia e in Egitto e mentre si fanno incerte le sorti dei governi di Yemen, Bahrein e Giordania. 
Ma in questi casi - pur differenti tra loro - siamo di fronte a moti popolari spontanei, frutto di una situazione sociale esplosiva. Come emerge dallo Human Development Index, Tunisia ed Egitto (ma anche Marocco e Algeria) registrano tassi elevatissimi di sviluppo sociale a fronte di percentuali record di disoccupazione. I giovani tunisini ed egiziani sono andati a scuola, si sono diplomati e navigano su internet (uno dei principali vettori delle insurrezioni) ma non trovano lavoro. Questa situazione - resa intollerabile dalle politiche di «rigore» imposte dai governi per far fronte alle conseguenze della crisi economica globale - ha fatto esplodere la rabbia contro le oligarchie corrotte al potere (il che peraltro non garantisce l'esito democratico delle transizioni, se è vero che in Egitto l'esercito resta la forza di gran lunga prevalente non solo sul piano politico ma anche sul terreno economico). 
In Libia, in particolare in Tripolitania, lo scenario è diverso. Benché quella dell'equa distribuzione dei proventi dell'esportazione di petrolio e gas sia una leggenda, le condizioni di vita della popolazione sono accettabili. I prezzi sono calmierati, i redditi adeguati (il reddito medio pro-capite è di 12mila dollari, sei volte quello egiziano). E anche se Gheddafi non è mai riuscito a pacificare e unificare realmente il Paese (la Cirenaica non lo ha mai riconosciuto e il raìs si è via via inimicato le grandi tribù del Gebel che ora assediano Tripoli), in Libia - a differenza di quanto avviene nei Paesi confinanti - non sembra vi siano figure di spicco in grado di guidare il dissenso sino a farlo esplodere. 
Come ha osservato su queste pagine Angelo Del Boca, è molto probabile che la rivolta in Libia sia stata innescata dall'esterno, da gruppi di libici residenti all'estero. Ed è altrettanto probabile che questi nemici di Gheddafi abbiano goduto del sostegno dei governi occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia in testa) da sempre nemici del Colonnello. Un po' di storia è bene infatti tenerla presente, non dimenticare i peccati originali (l'evacuazione forzata delle forze statunitensi e britanniche dalle basi militari, la nazionalizzazione delle proprietà della British Petroleum e l'imposizione alle altre compagnie di elevate quote per lo sfruttamento del petrolio libico) nel segno dei quali si consuma la fine del regno filo-occidentale di Idris I.
Tutte queste considerazioni suggeriscono di essere cauti prima di parlare di «rivoluzione» nel caso della Libia e non permettono di escludere che ci si trovi piuttosto dinanzi a una guerra civile sponsorizzata dalle maggiori potenze capitalistiche. Così si spiegano anche i venti di guerra che spirano da quando la Libia brucia.
Gli Stati Uniti, spalleggiati dalla Francia, scaldano i motori. Obama non esclude l'intervento militare della Nato. All'Onu si parla pudicamente di no-fly zone, occultando il fatto che per tenere a terra l'aviazione libica sarebbe necessario l'uso della forza. A Sigonella si preparano i caccia e puntualmente l'on. Fassino dichiara che «occorre intervenire in ogni modo» per costringere Gheddafi a mollare la presa. A vent'anni di distanza sembra di rivivere i giorni della prima Guerra del Golfo e delle «guerre umanitarie» nei Balcani. Allora una cosa va detta con la massima chiarezza. Se Gheddafi ha veramente scatenato il massacro della sua gente, si è macchiato di crimini gravissimi. E' indubbio che la sua quarantennale dittatura ha calpestato diritti fondamentali dei libici e di centinaia di migliaia di migranti che Gheddafi ha imprigionato per nome e per conto di quel «mondo libero» che oggi si riempie la bocca di buoni principi. Ma tutto ciò non legittima in alcun modo un'ennesima sporca guerra che avrebbe un solo scopo: permettere agli Stati Uniti di rimettere le mani sul petrolio e sul gas libico, vitali per gran parte dell'Europa e per la stessa Cina.

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