sabato 26 marzo 2011

Libia: chi non si arruola è un disertore / Quando il "mostro" era la Serbia

 Bruno Steri - Chi non si arruola è disertore
(Liberazione del 25/03/2011)
Avevamo già avuto modo nel recente passato di conoscere il piglio bellicoso di Fiamma Nirenstein: non ci siamo quindi stupiti più di tanto nell'apprendere da Il Giornale che, a suo dire, il pericolo più grande è la paura della guerra («"Non avere paura e non sgomentarti" dice Dio a Giosuè»). Assai più inquietante, invece, è stato leggere su La Repubblica on line un commento di Andrea Tarquini in cui si rimprovera per ingratitudine la Germania, ricordandole che «senza il piano Marshall americano decisivo per la ricostruzione della Germania Ovest, senza decenni di protezione militare angloamericana per Bonn» non sarebbero state possibili né la caduta del muro né la riunificazione tedesca. Il tono è raccapricciante, sembra di esser tornati indietro di cento anni: se non ti arruoli, sei un ingrato oltre che un disertore. Così tutto il movimento pacifista, ma anche Chavez e Castro, Cina e Russia, nonché la traditrice Germania, insomma tutti quelli che hanno dubbi o si oppongono all'intervento armato al seguito della "coalizione dei volonterosi", sono trattati come feccia imbelle e senza onore. Ed è La Repubblica a ospitare simili reprimende, cioè un nucleo forte dell'area Pd.
Sarebbe riduttivo, a mio parere, ascrivere il paradosso di un simile "interventismo progressista" semplicemente al fatto che Obama ha preso il posto di Bush alla Casa Bianca. Penso che dietro una tale preoccupante precipitazione ideologica vi sia un motivo ben più profondo: il mondo della globalizzazione si è sfasciato - crisi strutturale del capitalismo e crisi dell'assetto delle fonti energetiche (con l'odierna prospettiva di uno stop al nucleare) - gli spazi di manovra si sono quindi maledettamente ristretti e ciò ha determinato un'ulteriore torsione del senso comune.
In questo contesto è particolarmente significativo il modo in cui, nell'area di centro-sinistra, si considerino ormai morti e sepolti i principi di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli (principi fissati dall'Onu come fondamentali ed ora spazzati via dall'"ingerenza umanitaria", come se nulla fosse). Il tema è centrale (e controverso) e merita un approfondimento. I suddetti principi - stabiliti all'esordio della Carta delle Nazioni Unite all'art.1 (par.2) e all'art.2 (par.7) ed emblematicamente ribaditi dalla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, tenutasi a Helsinki nel 1975 - hanno per decenni regolato le relazioni internazionali, tutelando l'autonomo «sviluppo economico, sociale e culturale» dei popoli e garantendo che «per raggiungere i loro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali».
Ciò ha favorito il processo di decolonizzazione, consentendo ai Paesi in via di sviluppo di darsi una costituzione e una forma di governo, senza subire le pressioni degli Stati più ricchi e potenti.
Beninteso, con l'evolvere del mondo a "villaggio globale" si sono manifestate con forza nuove esigenze, che hanno posto in dialettica tensione la sovranità dei singoli stati con la realtà di un pianeta che la tecnologia ha reso sempre più unificato: basti pensare alla dimensione sovranazionale delle reti di comunicazione o di questioni strategiche come quella nucleare. Così, con il pieno dispiegarsi della globalizzazione capitalistica, la dimensione genericamente "umana" (indipendente dalla sua contestualizzazione statuale) e i temi della "sicurezza globale" hanno acquisito un nuovo e inedito peso.
In tale passaggio, il diritto internazionale ha dato nuova e perspicua forma giuridica alla "difesa dei diritti umani", trovando nel capitolo VII della Carta dell'Onu un fondamento al «diritto di ingerenza umanitaria» da parte della cosiddetta "comunità internazionale", nel caso di «crimini contro l'umanità» (genocidio, tortura, pulizia etnica, esecuzioni di massa) e di «minacce per la pace». Due risoluzioni dell'Assemblea Generale dell'Onu autorizzavano già «l'assistenza sanitaria alle vittime di catastrofi naturali e situazioni di emergenza dello stesso tipo» (1988) e la predisposizione di «corridoi umanitari di emergenza» in caso di conflitti interni (1990), senza tuttavia che ciò si configurasse come imposizione nei confronti di uno stato sovrano ma essendo inteso alla stregua di invito a facilitare i soccorsi. Con l'imporsi del «dovere di ingerenza» si è altresì potenziata la possibilità di contemplare, a certe condizioni, l'uso della forza. Non ci sembra, questa, affatto una buona notizia. In ogni caso, restano quelle "condizioni" da rispettare: ad esempio, quella di aver esperito tutte le strade della diplomazia e dell'iniziativa non militare. Criterio puntualmente violato, come la vicenda libica conferma.
Disgraziatamente, non viviamo nel "migliore dei mondi possibili" (come sembrerebbe vagheggiare l'integralismo illuminista e un po' ipocrita degli "interventisti progressisti"), ma in un mondo retto a ferrea misura degli interessi del più forte. Fu Henry Kissinger a sostenere, in tempi non sospetti, che il mondo stava transitando dal sistema della "non ingerenza" alla nuova fase dell'"ingerenza umanitaria". E, successivamente, Bush junior si incaricò di promuovere la sicurezza globale esportando - assieme ai diritti umani - la democrazia (centinaia di migliaia di vittime in Iraq e, ad oggi, 60 mila vittime civili in Afghanistan). Il punto ineludibile è dunque: chi è il soggetto di tale "ingerenza"? Non può esser certo una forza d'urto unilaterale. Ma nemmeno l'attuale Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che non ha ad oggi una struttura e un potere decisionale democratici.
Stando così le cose, è sorprendente che sia un intellettuale non di sinistra, quale Massimo Fini, a sbottare, dicendo comprensibilmente: «Quando sento parlare di "diritti umani", io metto idealmente mano alla pistola: perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno». Così come ha ragione da vendere Giorgio Bocca quando, a chi osserva che occorre soccorrere manu militari gli insorti libici colpiti dalla rappresaglia di Gheddafi, così replica: «Ma quando Israele attacca i palestinesi, non si muove nessuno, né mi pare che l'Onu si convochi in tutta fretta». Perché un tale strabismo? Perché sotto il cielo dei valori c'è la terra degli interessi materiali delle grandi potenze.

Quando il "mostro" era la Serbia
di Maria R. Calderoni, su Liberazione del 25/03/2011

Il 24 marzo 1999 iniziava la guerra umanitaria Allied Force per il Kosovo. Primo ministro era allora Massimo D'Alema

Dejà vu, già visto, patito, pianto. Era cominciato proprio oggi (ieri per chi legge), 24 marzo 1999, l'attacco alla Serbia, in era governo D'Alema; l'attacco proprio da lui fieramente voluto ed acclamato (e il tono era proprio quello stesso, identico, con il quale ieri, 24 marzo 2011, è intervenuto alla Camera per dare la sua entusiasta approvazione alla guerra in Libia). Degià vu, e noi andavamo in corteo, con la t-shirt bianca e bersaglio disegnato sopra all'altezza del petto, a gridare «sparate qua, sparate anche a noi». Eravamo arrabbiati, arrabbiatissimi; un atto di guerra infame approvato proprio da un governo "amico" con tanto di primo ministro ex comunista, volenteroso collaboratore di un delitto internazionale detta allora non "Odissea all'alba" ma "Allied Force" (vale la pena di ricordare che l'alta compagine governativa era allora formata, tra gli altri, da Bersani, Ciampi, Dini, Rosy Bindi, Giovanna Melandri, Giuliano Amato, anche Oliviero Diliberto...). Fotocopia che mette i brividi. Stessi prodromi. Stesse parole. Stessi strumenti. Si è cominciato allo stesso modo, la costruzione del "mostro" (allora era Milosevic). Una identica, massiccia, planetaria campagna mediatica si è incaricata di demonizzare la Serbia, che improvvisamente è sbattuta davanti all'opinione pubblica mondiale come il nuovo carnefice, lo Stato-canaglia colpevole di genocidio nei confronti delle inermi genti del Kosovo. Anche allora, esattamente come oggi, la manipolazione della stampa è completa, agghiacciante («Pristina città fantasma, uccisi i leader kosovari»; «I serbi decapitano il Kosovo. Uccisi intellettuali e politici»; «La vendetta dei serbi, uccisi i capi albanesi»).

Li avete visti gli infiniti filmini, video, reportage, servizi di oggi sulla Libia? Ebbene, anche nel 1999, già mesi prima dall'inizio dell'attacco, Cnn e tante altre tv mandano in onda i filmati delle presunte stragi di civili attuate dai sanguinari serbi di Milosevic. Peccato che si trattava di parti sempre diverse degli stessi filmati, i quali diventano la prova provata delle "fosse comuni" e dei "cadaveri accatasti". La causa dell'umanità e dell'altruismo è abbondantemente creata, Wall Street Journal e New York Times scrivono, marzo 1999, che «il regime di Milosevic sta tentando di sradicare un intero popolo» (per favore andate a leggere quello che pubblicano oggi, marzo 2011, sulla Libia...).

Fallito il falso "tavolo" di Rambouillet - più che altro una trappola rifiutata dal governo serbo - quel 24 marzo di 12 anni fa partono i bombardamenti Nato su tutto il paese; e così hanno continuato per 78 giorni. I jet decollano prevalentemente dalle basi militari italiane, come quella di Aviano. Almeno 600 raid al giorno. Si tratta, come vengono definite, di bombe intelligenti, anzi intelligentissime. Che infatti colpiscono non solo basi militari, ma anche obiettivi civili, anzi civilissimi; per esempio centrali elettriche, la televisione di Belgrado, colonne di profughi, aziende, scuole, anche industrie chimiche (garantiti un bel po' di veleni sparsi in giro). Ricordiamo per esempio quel ponte di Grdelica intelligentemente bombardato dall'Us Airforce proprio mentre passa un treno, 14 persone uccise e decine di feriti (fu un mero incidente, danni collaterali, diciamo). Errori. Piccoli errori. Come le bombe sulla zona residenziale di Novi Pazar (23 morti); di Alexsinac (12 morti); di Pristina (12 morti); di Surdulica (20 morti). Anche su una corriera di Luzane (40 morti); sull'ospedale di Nis, di Surdulica e di Belgrado; sull'ambasciata di Pechino a Belgrado; suul villaggio di Korisa (80 morti); sul ponte di Varvarjin (11 morti).
Tanto per citare. Ma secondo il computo ufficialissimo targato Nato, in 78 giorni di guerra umanitaria vengono compiute 34 mila missioni di cui 13 mila d'attacco; sganciate 20.000 tra bombe e missili; distrutti 450 bersagli fissi così chiamati, tra cui il 57% delle riserve di carburante, 35 ponti, tutti i 9 aeroporti.

Bisognava difendere la popolazione kosovara, impedire la pulizia etnica. Ancora oggi non si sa il numero esatto dei morti causati dalla "protezione" umanitaria del tipo Nato, sicuramente sono svariate migliaia. Ma basta il rapporto di Amnesty International, che un anno dopo la fine dell'attacco, dice: «La Nato in più occasioni ha violato i principi umani da applicare in ogni conflitto armato».

L'Italia del popolo di sinistra non sta a guardare. «Siamo il popolo che ripudia la guerra», migliaia di fax e lettere inondano ad esempio Liberazione, pagine e pagine si riempiono di no. «Proclamiamo lo sciopero generale», è l'appello firmato dalle Rsu; mezzo milione di ascoltatori mandano in onda su "Zapping" (Raiuno) l'angoscia collettiva; «Gli operai bocciano la guerra. Sciopero all'Alfa di Arese e manifestazioni in tutta Italia», sono solo alcuni dei titoli del nostro giornale in data giovedì 1 aprile. «Caro Cofferati dove sei?», alla vigilia della manifestazione che si svolgerà a Roma il 10 aprile il mondo del lavoro rivolge la domanda al segretario Cgil; tra le altre associazioni alla giornata del no partecipa l'Anpi: in centomila invadono Roma, «Guerra infame. Il coraggio della pace». A Porta San Paolo parla Ingrao: «Oggi è solo l'inizio, l'avanguardia di una battaglia. Non ci rassegnamo, lo sappia il governo».

La guerra umanitaria avanza. Ora i suoi orizzonti spaziano oltre il Kosovo. E' un generale di nome Wesley Clark, comandante supremo Nato, che arriva a dichiarare: «Noi continueremo con le missioni esattamente come programmato, non temiamo una guerra mondiale»; e centinaia di missili Allied Force «bombardano tutto il Montenegro nella notte della Pasqua ortodossa»; mentre si calcola che il prezzo delle bombe intelligenti è di diecimila miliardi al mese, quasi quanto il Pil della stessa Jugoslavia».

Rifondazione lascia l'aula di Montecitorio, dove si discute dell'intervento dell'Italia, D'Alema gran sacerdote: «Signori del governo, noi non vogliamo legittimarvi, neppure col nostro voto contrario alle vostre pulsazioni di guerra». Giovedì 15 aprile. "L'Italia è in guerra", titola Liberazione. «Alle 12,04, bombardieri dell'aeronautica militare partiti dall'aeroporto di Istrana (Treviso) hanno compiuto il primo bombardamento italiano sul territorio jugoslavo. Sciagurata iniziativa del governo D'Alema alle spalle del Parlamento».

Non se ne pentirà mai, D'Alema. Ecco quanto dichiarerà dopo l'accordo di pace siglato il 9 giugno 1999: «Vorrei ricordare che quanto a impegno nelle operazioni militari, noi siamo stati il terzo Paese, dopo gli Usa e la Francia, e prima della Gran Bretagna. In quanto ai tedeschi, hanno fatto molta politica, ma il loro sforzo militare non è paragonabile al nostro: parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L'Italia si trovava veramente in prima linea».

La storia si ripete, ma questa volta non in forma di farsa. Rimane tragedia.
 

 




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