lunedì 28 febbraio 2011

Acqua: di chi è la colpa?

Eravamo stati facili profeti quando, nel commentare lo scorso dicembre la legge regionale sulle grandi concessioni, avevamo cercato di allertare l’opinione pubblica della nostra provincia sul fatto che il testo approvato al Pirellone avrebbe potuto essere impugnato perché mal formulato e contraddittorio in alcuni punti con la normativa esistente.

L'IPOTESI AVANZATA
L’impugnazione da parte del Governo su indicazione del ministro per i Rapporti con le regioni fitto di alcuni commi delle leggi 19 e 21 e il rimando del testo alla Corte costituzionale per un giudizio sulla sua coerenza con le disposizioni nazionali e comunitarie confermano i rilievi da noi avanzati.
Quanto successo contrasta in modo evidente con la sicumera con la quale il presidente della Provincia aveva allora risposto alle nostre osservazioni, contestandole perché, a suo dire, giuridicamente infondate e politicamente faziose.

LE DIGHE SONO A CASA
Oltre a mettere in guardia dal rischio concreto che qualche inciampo giuridico avrebbe potuto occorrere, avevamo allora puntato l’indice contro l’uso propagandistico della vertenza idroelettrica fatta dal Carroccio con la campagna pubblicitaria “Le dighe sono a casa. Grazie Lega”, avevamo denunciato le quantificazioni fantasiose sull’entità delle risorse che sarebbero derivate alla provincia e avevamo sostenuto la tesi che il progetto presentato più che tutelare gli interessi dei valtellinesi salvaguardava quelli dei potentati idroelettrici, in primo luogo A2A, concedendo qualche dividendo ai partiti di governo in Provincia per oliarne clientele e consenso elettorale.
Nella polemica di allora non era mancata l’accusa, rivolta all’opposizione, di “lesa valtellinesità”. Dopo l’impugnazione della Legge regionale, oggi la Lega è alla ricerca affannosa di qualche capro espiatorio da presentare all’opinione pubblica provinciale per tamponare gli effetti negativi dello stop imposto da Roma.

LA QUINTA COLONNA
Per trarsi dagli impicci in cui l’ha messa la mossa del ministro Fitto, la Lega ripropone oggi lo stesso richiamo all’unità della valle, ma mentre allora si trattava di rispondere a qualche puntura di spillo proveniente dall’opposizione di sinistra, oggi si deve giustificare un colpo basso che viene direttamente dal governo di centrodestra. Si tratta di una situazione più insidiosa.
Ecco allora comparire l’ipotesi di una fantomatica quinta colonna anti-valtellinese annidata nei palazzi romani, quel gruppo di “alti funzionari di 5 o 6 ministeri”, che secondo il consigliere regionale Parolo, all’insaputa del governo e in combutta con l’opposizione, avrebbe ordito il complotto.
Si tratta, in tutta evidenza, di un patetico espediente con il quale il centrodestra provinciale cerca di sottrarsi alle proprie responsabilità.

LA SINISTRA SI DEVE UNIRE
Giunti a questo punto, occorre cogliere l’occasione offerta dal blocco della legge per riprendere in mano l’intera questione. Non si tratta solamente di apportare qualche piccolo ritocco per consentire al progetto di poter ripartire, ma occorrerebbe metter mano all’intero edificio con l’obiettivo di un soluzione che veramente rappresenti gli interessi del territorio e di chi lo abita.
Su questo punto deve essere costruita una iniziativa di tutta la sinistra e delle forze di centrosinistra, che devono uscire dalla condizione subalterna alla Lega che ne ha caratterizzato fino ad oggi il profilo, come dimostrano il voto favorevole del PD all’articolo 53 e il comportamento che in Consiglio provinciale con poche e lodevoli eccezioni ha avuto l’opposizione . Su questa proposta sarà impegnata nei prossimi giorni la Federazione della Sinistra.

Un altro italiano morto in Afghanistan, ritiro immediato!

Un altro militare italiano morto, un'altra vita spezzata a causa di una guerra stupida, come tutte le guerre! Decine di migliaia di morti, molti civili, e qualcuno ancora parla di 'missione di pace'. 
Questa mattina in Afghanistan, l'esplosione di un ordigno ha colpito un veicolo blindato Lince nei pressi di Shindand, nell'ovest del Paese. I militari a bordo, tutti del reggimento alpini, stavano effettuando un pattugliamento nella zona al momento dell'incidente. 
E adesso Berlusconi si interroga sull'utilità della missione: "Mi chiedo se il sacrificio serva". Te lo diciamo noi: NO! L'Italia ritiri le sue truppe e chieda di farlo anche agli altri Paesi. Basta sangue, basta morti!

sabato 26 febbraio 2011

La destra autoaffossa la sua legge sulle dighe.


Noi della Federazione della Sinistra avevamo già avanzato le nostre domande controcorrente , già a dicembre dicevamo che la
 nuova legge sulle risorse idriche non era limpida e cristallina come diceva la propaganda leghista. Adesso arriva, per ironia, anche lo stop imposto dal governo di destra. A questo punto viene spontanea un'altra domanda: ma com'è che non riuscite a ottenere nulla anche se governata la Provincia, la Regione e lo Stato?

Gestione risorse idriche: da Roma arriva lo stop del Governo

La notizia è stata battuta mercoledì sera dalle agenzie.

La notizia è stata battuta mercoledì sera dalle agenzie. Secondo quanto emerso, tra le leggi impugnate dal Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro Raffaele Fitto competente per i Rapporti con le Regioni, è stata inserita anche la riforma sulla gestione dell'acqua e la parte inerente agli impianti idroelettrici.
Il Governo ha dunque espresso il proprio no alla parte in cui si disciplina il sistema degli impianti idroelettrici, definendolo diffirme dalla normativa nazionale e comunitaria. 


DOCCIA FREDDA
L'iniziativa del Governo di Roma dunque, apre un nuovo scenario sullo storico passo che a fine 2010 aveva segnato il successo dell'iniziativa promossa dalla Provincia di Sondrio e dalla Regione Lombardia, che aveva sancito il passaggio alla Provincia di Sondrio della capacità di regolamentazione degli usi dei corsi d’acqua che scorrono sul territorio, introducendo vincoli più consoni alle caratteristiche ed alle esigenze territoriali, a vantaggio di un maggiore rispetto della qualità delle acque e dell’ambiente circostante.


LA FIRMA
Il protocollo d'intesa era stato siglato il 24 novembre, passando le competenze in materia di tutela e gestione delle risorse idriche dalla Regione alla Provincia, evidenziando una continuità di buona gestione in cui si rafforza il coinvolgimento sussidiario del livello locale.
Nel protocollo, sottoscritto dal Presidente di Regione Lombardia Roberto Formigoni, dal Presidente della Provincia di Sondrio Massimo Sertori e dal Segretario Generale dell'Autorità di Bacino del fiume Po Francesco Puma, era stato fatto  assumere al PTCP (il documento di programmazione territoriale provinciale) anche una valenza di bilancio idrico, integrando così la preziosa risorsa delle acque nella pianificazione di Valle.

(da www.vaol.it)

Libia: verso un'altra guerra umanitaria

Siamo ai prodromi di un'altra guerra umanitaria. Che andrebbe ad aggiungersi a quella già sul campo. Stavolta in Libia. La Nato dichiara che «non è all'ordine del giorno, per ora», l'Unione europea che «nemmeno ci pensa», il ministro della difesa italiano La Russa che «non è nei nostri pensieri, però...». Ma ci stanno pensando, ci ragionano, e soprattutto si attivano forze e strumenti istituzionali di copertura. Sanzioni, no fly zone. 
Diciamo questo perché, ben aldilà del disfacimento evidente del regime di Gheddafi, delle sue drammatiche responsabilità e del suo delirio, emerge la disinformazione. Si rende cioè evidente un significativo livello di menzogne da parte dei media ancora una volta embedded: fosse comuni che appaiono, quando in realtà sono fosse individuali; un salto improbabile in 12 ore dalle mille alle diecimila vittime, secondo l'americanissima televisione Al Arabya; flash di foto di corpi senza vita; l'invenzione di un inesistente membro libico della Corte penale internazionale rigorosamente antiregime che moltiplica per 50mila il numero delle vittime e dei feriti. 
Quasi un déjà vu balcanico: per il Kosovo, quando ci fu poi la verifica sul campo dei medici legali del Tribunale dell'Aja risultò falso il numero delle vittime e inventata la strage di Racak. Ma fu ben utile, nell'immediato, per 78 giorni di bombardamenti aerei della Nato che provocarono 3.500 vittime civili. Volute, non «effetti collaterali», denunciò un'inchiesta di Amnesty International. Dimenticate, anzi cancellate da ogni memoria. Giacché la guerra doveva essere «umanitaria». E a quell'enfasi di menzogne partecipò un'intera schiera di media. 
Ci stanno pensando alla «missione». Gridando al cielo che «no, è infame bombardare i civili», si sdegnano le cancellerie occidentali. Dimenticando il massacro dei civili e degli insorti se sono iracheni o afghani. Già l'amministrazione Usa parla di una delega all'Italia e alla Francia, paesi ex coloniali che dovrebbero guidare l'eventuale «missione». Del resto lo strumento militare operativo di Africom della Nato è già pronto, come da mandato, per l'intervento proprio in quell'area. E tutti sono avvertiti della presenza sul campo non di Al Qaeda che soffia sul fuoco, ma di un integralismo islamico reale e storico in Cirenaica. 
Eppure non sanno ancora come motivarlo l'intervento. Se avessero a cuore davvero la vicenda umanitaria, non avrebbero dovuto sottoscrivere accordi di compravendita di armi con il Colonnello. E se l'Italia è davvero attenta all'umanità non avrebbe dovuto ratificare in modo bipartisan un Trattato che, pur riconoscendo finalmente le nostre malefatte coloniali, ha chiesto a Gheddafi di istituire campi di concentramento per fermare la fuga dei migranti disperati dalla grande miseria dell'Africa dell'interno e del Maghreb. 
Non lo dicono, né lo diranno mai. Ma come per l'enfasi e la falsificazione sul numero delle vittime, c'è l'esagerazione interessata sui «milioni di profughi» dalla Libia e dalla Tunisia, «250mila» ha detto il gommoso Frattini, senza alcuna vergogna. 
Non lo dicono, ma sono terrorizzati davvero per il pericolo che corrono gli approvvigionamenti di petrolio e metano. Per i nostri consumi, il nostro intoccabile modello di vita. 
Per questo alla fine interverranno. Non per un ruolo umanitario da subito degli organismi delle Nazioni unite, non per un corridoio umanitario che porti soccorso a chiunque, insisto chiunque, soffra - giacché la crisi libica si rappresenta più come guerra civile che come rivolta secondo il modello di Tunisi e del Cairo. Interverranno perché, qualsiasi sia il potere che arriverà dopo Gheddafi, svolga per noi la stessa funzione del Colonnello: elargire petrolio per i consumi dell'Occidente e impedire l'arrivo dei disperati relegandoli in un nuovo sistema concentrazionario. 

giovedì 24 febbraio 2011

Assemblea Giovani NON+ Sondrio

Riceviamo dalla CGIL di Sondrio e diffondiamo.
Evento su facebook

Come già sapete, nella mattina di Venerdì 25 febbraio p.v. la nostra Camera del Lavoro terrà l’Attivo dei Quadri e dei Delegati di tutte le categorie della CGIL di Sondrio, a cui seguirà una assemblea pomeridiana del gruppo giovani.

Come giovani della Cgil, sentiamo la necessità di costruire un momento di riflessione e proposta incentrato su ciò che la Confederazione e le categorie stanno mettendo in campo, a livello nazionale e ...territoriale, per quanto concerne le politiche giovanili.
La Campagna “Giovani Non Più Disposti a Tutto”, nata in occasione delle recenti mobilitazioni sostenute dalla CGIL nel Paese, ha avuto il merito di innovare l’approccio comunicativo e mediatico della nostra organizzazione; ha suggerito inoltre a noi stessi “giovani” modalità partecipative e di radicamento meno ingessate e formali, necessariamente più orizzontali di quelle un tempo individuate quali potenzialmente adatte a sviluppare la costruzione di un soggetto giovanile all’interno del sindacato.



A livello locale, la realizzazione di positive sinergie con talune categorie e con giovani lavoratrici e lavoratori somministrati e precari, con i loro bisogni, le loro iniziative e le loro lotte, ci consente di passare ad una fase nuova del nostro impegno dentro e fuori la CGIL. A livello organizzativo, si sono determinate le condizioni minime per un “cambio” gestionale e di strutturazione che necessariamente dovrà privilegiare lavoratrici e lavoratori realmente “giovani”, in produzione, legati al contesto sociale e territoriale in cui operiamo. In poche parole, basta con percorsi slegati dalla base sociale e dal territorio; non andiamo a costruire una struttura per funzionari, né andiamo a realizzare una “lobby giovani”. L’impegno, ambizioso, è quello di produrre uno strumento, utile a veicolare il sindacato tra i giovani, ed i giovani nel sindacato.

Per tutte queste buone ragioni, ci pare opportuno coinvolgerVi nel percorso di costruzione dell’appuntamento, invitandoVi a partecipare ed a fare partecipare quanti più giovani. Abbiamo la profonda convinzione che siano vere e attuali le parole con cui nei mesi scorsi abbiamo promosso un Appello: “Da solo non ce la fai”.

Questo assunto, vale per tutte e tutti. Vale per i giovani, ma anche per il sindacato e le sue categorie.


Ci troviamo Venerdì prossimo, dopo l’attivo, nel SALONE RIUNIONI della Camera del Lavoro di Sondrio, in Via Petrini, 14 alle ore 15. Parteciperà la Compagna Virginia Montrasio, che ci fornirà il quadro delle iniziative intraprese ed in corso d’opera, dalla Campagna “Non Più Precari” alla recente iniziativa messa in campo sugli Stage.

Nord Africa: nulla sarà più come prima / Chavez, Gheddafi e l'ipocrisia dell'occidente

Nord Africa: nulla sarà più come prima di Fabio Amato, responsabile Esteri del PRC

Liberazione del 23 febbraio 2011



La rivoluzione del nord Africa travolge la Libia e il suo ultraquarantennale leader Gheddafi. Le notizie che arrivano dal paese nordafricano, frammentate e dall’unica fonte che non è stata oggetto della censura del regime, Al Jazeera, parlano di una carneficina e di una violenza inaudita nella repressione. L’uso dell’aviazione contro i manifestanti a Tripoli avrebbe prodotto oltre mille morti. La rivoluzione nordafricana non si ferma, e travolge anche quello che veniva considerato come uno dei regimi più stabili, grazie ai dividendi della rendita petrolifera ed energetica, che hanno reso la Libia uno dei paesi con dati macroeconomici e di reddito fra i più alti del continente africano e dell’area. Non basta questo dato a placare la rabbia, soprattutto giovanile, che ha travalicato la cirenaica e la ribelle Bengasi per arrivare nel cuore del potere del regime di Gheddafi, Tripoli. La crisi e le riforme neoliberali comunque applicate anche dalla Libia in questi anni, insieme alla concentrazione nelle mani del clan vicino al Colonnello di gran parte delle ricchezze, hanno creato sacche grandi di malcontento e rabbia. Rabbia unita alle domande e speranza di libertà dall’oppressiva macchina poliziesca, dalla censura e dalla grottesca idea della successione dinastica dell’oramai anziano leader che hanno come protagonisti anche in Libia le giovani generazioni. 
Nel suo disperato e criminale tentativo di mantenere il potere a tutti i costi, Gheddafi sta giocando le ultime carte della sua storia politica. Contro il suo popolo e contro ogni senso di umanità. Una carta disperata e inutile, che non salverà il suo regime e il suo proposito di continuazione dinastica del potere. 
Una carta il cui esito potrebbe essere quello di far sprofondare il paese in una guerra civile dagli esiti catastrofici. Già pezzi dell’esercito e della diplomazia si sono uniti alle proteste e alle rivolte. 
Anche se è complesso prevedere quali saranno le evoluzioni delle rivoluzioni arabe, è bene ricordare come altri paesi ne siano contagiati, come il Marocco, lo Yemen, il Barhein, crediamo che se anche le transizioni saranno gestite dalle forze armate, e che nel breve periodo esse garantiranno una continuità perlomeno formale nella collocazione geopolitica dei paesi del sud del mediterraneo, i movimenti sociali che sono esplosi avranno conseguenze durature, apriranno scenari di cambiamento impensabili fino a poco tempo fa. Tutto il quadro mediorientale ne uscirà ridisegnato. Le ipocrisie e la politica dei due pesi e delle due misure applicata dall’imperialismo e dall’occidente in questi anni avranno vita breve. 
Lo abbiamo già scritto a proposito di Tunisia ed Egitto, lo ribadiamo oggi. Nulla potrà tornare come prima. Il risveglio delle masse arabe rappresenta una tappa storica, paragonabile, come ha scritto Valli su Repubblica, a quello che accadde nel 1848 in Europa. 
Un’Europa, quella attuale, le cui responsabilità sono grandi nell’aver in questi anni fatto fallire l’ipotesi euro mediterranea, nell’essere stata semplice spettatrice o esecutrice dei voleri di Washington, e nell’aver limitato la sua azione politica a garantirsi liberalizzazioni dei mercati e risorse energetiche, mantenendo al potere, con la scusa della minaccia islamica, regimi indifendibili, che hanno represso, vale la pena ricordarlo, anche tutte le forze progressiste, democratiche e fra queste quelle comuniste, di quei paesi. Ora si trova del tutto impreparata difronte alle conseguenze che i cambiamenti in corso porteranno. 
Occorre però soffermarsi su quello che l’Italia ha fatto e detto in questi giorni. La carneficina che le forze armate fedeli al regime del colonnello Gheddafi stanno perpetrando in Libia ha dei complici politici evidenti: Silvio Berlusconi e il suo zelante portavoce Ministro degli Esteri Frattini. Le loro tardive condanne servono oramai a ben poco. Il loro silenzio prima, le allucinanti e vergognose dichiarazioni di sostegno durante l’esplosione della rivolta e della sanguinosa repressione, rimarranno tra le pagine più vergognose della triste storia del berlusconismo e dei suoi ultimi giorni a cui assistiamo. Berlusconi non disturba Gheddafi mentre massacra il suo popolo, perché teme che quello che travolge oggi i suoi amici del sud del Mediterraneo, possa molto presto travolgere anche lui e porre fine alla sua squallida stagione politica.

Hugo Chavez, Muhammar Gheddafi e l'ipocrisia dell'Occidente

di Gianni Minà


E' vero che non solo Silvio Berlusconi ha avuto buone relazioni con Muammar Gheddafi. Anche la Gran Bretagna, tra i molti, non ha avuto remore a svendere i morti di Lockerbie per passare oltre e tessere la sua tela energetica anche con il dittatore libico. Soprattutto però, per quanto ci concerne, non sono negabili le buone relazioni diplomatiche tra i paesi integrazionisti latinoamericani e la Libia e nella fattispecie tra Venezuela e Libia.
E' commendevole la buona relazione tra paesi latinoamericani, il Brasile in primo luogo, e paesi come la Libia o l'Iran? Dipende da come la si voglia guardare. Da parte occidentale, avere relazioni con la Libia o con l'Iran vuol dire abiurare ogni singolo discorso sulla democrazia e sui diritti umani sull'altare di interessi economici. Germania e Italia, che a parole disdegnano Ahmedinejad, sono i principali partner commerciali dell'Iran. Detto della Gran Bretagna e di Lockerbie, o di Nicolas Sarkozy che si offre di mandare l'esercito per aiutare Ben Alì in Tunisia, l'Italia di Silvio Berlusconi ha trasformato Gheddafi in un "campione delle libertà" soprattutto per le sue mani libere nel massacrare i migranti.
Inoltre, e infine, i paesi ex-colonizzatori, per esempio l'Italia verso la Libia, hanno responsabilità storiche e geopolitiche incomparabilmente superiori nell'avere relazioni con governi scarsamente indifendibili. Le relazioni dell'Italia verso la Libia, degli Stati Uniti rispetto all'Honduras, del Giappone o l'India con la Birmania, della Cina verso la Corea del Nord hanno un peso politico non comparabile di quelle tra Brasile e Iran o Venezuela e Libia perché diversissime per natura e motivazioni.
Infatti una delle grandi caratteristiche della diplomazia latinoamericana degli ultimi dieci anni è stata quella di rompere le catene del modello economico coloniale e post-coloniale, per il quale ad ogni paese periferico era permesso avere relazioni e fare affari solo con il proprio centro imperiale. Così sono fiorite le relazioni politiche ed economiche Sud-Sud. L'America integrazionsta ha guardato all'Africa, all'Asia, al Medio Oriente, continenti con i quali non aveva praticamente mai avuto relazioni nella storia ed ha di recente preso la storica decisione, asperrimamente criticata in Occidente, di riconoscere lo stato di Palestina nei confini del 1967 tagliando il nodo di connivenze e titubanze. Inoltre, di nuovo il Brasile, in sinergia con la Turchia, ha seriamente cercato di trovare una soluzione, peraltro disdegnata dagli occidentali, al problema nucleare iraniano.
Quindi il problema delle relazioni tra America latina e Libia o Iran o altri paesi con regimi in tutto o parzialmente esecrabili non è la sintonia politica. A volte con retorici discorsi antimperialisti, più spesso con passaggi concreti, il nodo sta in una ineludibile sinergia sud-sud tra paesi che hanno grandi caratteristiche in comune.
Ci sia chi ci sia al governo in America Latina o in Libia o in Iran o nel Medio oriente in senso più amplio, gli interessi delle due regioni hanno molteplici convergenze, nell'esperienza storica coloniale, nella persistente aggressività occidentale nei loro confronti, nei modelli economici basati sull'estrazione e l'esportazione di combustibili, nell'interesse ad un mondo multipolare.
Ancora una dozzina di anni fa i paesi latinoamericani si sarebbero fatti dettare da Washington con chi avere relazioni economiche e politiche (e quindi per esempio non avevano relazioni con Cuba). Oggi ragionano con la loro testa e profilano una politica nella quale l’Occidente non è più il centro del mondo. Questa riflessione è ineludibile, perché solo l’Occidente continua a pensare di essere il centro del mondo e crede di essere il solo ad avere il diritto di scegliere di avere relazioni con regimi impresentabili (come quelli di torturatori e assassini come Bush, Ahmedinejad, Blair, Gheddafi) ma poter giudicare e condannare la politica estera altrui.
Uno dei fattori principali di cambiamento in America Latina è proprio il fatto che rispetto agli anni ’80-’90, quando l’unico partner strategico del continente erano gli Stati Uniti, in un contesto ortodossamente neoliberale, è che adesso l’economia latinoamericana può servirsi ad un numero molteplice di forni. C’è quello cinese che è oggi un mercato fondamentale, le relazioni con l’India si approfondiscono giorno per giorno, si sta ricostruendo un mercato interno che era crollato ai minimi storici negli anni ’90, e in generale le relazioni sud-sud sono in crescita, dall’Africa al Medio Oriente.
Poter scegliere, avere finalmente il diritto di scegliere ed avere un mondo intero e non un mondo unipolare come partner è il principale fattore di consolidamento dei processi sociali e politici che stanno cambiando l'America latina e il pianeta.
Tutto ciò non verrà mai spiegato dai giornali che strumentalizzano quelle relazioni svuotandole del loro senso liberatorio. Resta, nonostante tutto, il senso di disagio per gli abbracci tra Lula o Evo o Chávez e un Ahmedinejad o un Gheddafi. Con la testa si capiscono, con il cuore c'è più difficoltà.

martedì 22 febbraio 2011

Gheddafi Traballa (e Berlusconi rimane un vigliacco)

IIntervista ad Angelo Del Boca storico del colonialismo italiano
di Tonino Bucci, su Liberazione del 22/02/2011




Tripoli a un passo dalla capitolazione. Fino a pochi giorni nessuno avrebbe scommesso sulla caduta di Gheddafi. La Libia - tanto per fare qualche numero - aveva un surplus di ricchezza tra i più alti in Africa. Nel 2009 le risorse disponibili per i capitoli di spesa ammontavano a 26 miliardi di euro. Il debito pubblico era fermo, ormai da anni, al quattro per cento del Pil. Un'utopia irraggiungibile per molti paesi occidentali. Perché allora questa rivolta? Lo chiediamo allo storico Angelo Del Boca, profondo conoscitore della Libia.




La rivolta libica ha sorpreso tutti. La Libia sembra un paese solidissimo. Cosa è accaduto?

Ho una mia tesi, diversa da quella sostenuta nei giornali. Se non si fosse mossa la Cirenaica difficilmente la sommossa sarebbe arrivata a Tripoli e non avrebbe causato la fine del regime. La Cirenaica è da sempre una regione non addomesticata agli ordini di Gheddafi perché è storicamente sotto l'influenza della Senussia. Non dimentichamo che è la regione dove Omar al Mukhtar ha fatto la sua guerra contro gli italiani ed è stato ucciso. Per tradizione la Cirenaica non ha mai obbedito molto al regime di Gheddafi, tanto è vero che già nel '96 il Colonnello dovette mandare addirittura l'esercito, la marina e l'aviazione per reprimere una sommossa. Non mi stupisce perciò quanto è accaduto a Bengasi. Mi sorprende, invece, che la rivolta si sia estesa anche alla Tripolitania, questo sì. In apparenza non c'erano motivi gravi perché si potesse prevedere una insurrezione del genere. E' vero che c'è un trenta per cento di giovani che non hanno un lavoro, ma i prodotti di prima necessità sono calmierati e la gente vive abbastanza bene. In Europa non abbiamo visto un libico andare per le strade a chiedere l'elemosina. Era un paese molto diverso da quelli confinanti. Credo che ci sia stato un input dall'esterno. Esistono alcuni gruppi di libici residenti all'estero, negli Stati Uniti, a Londra e a Ginevra, che hanno partecipato, dai blog e attraverso internet, all'organizzazione della sommossa. All'interno non conosciamo gli agitatori. Non ci sono personaggi noti o di spicco. Sappiamo però che le tribù delle montagne sopra Tripoli si sono associate alla rivolta. Tra loro ci sono i Warfalla e i Berberi. Le stesse tribù nel 1911 diedero filo da torcere agli italiani, sconfitti nella battaglia di Sciara Sciat. Il ruolo dei clan è stato determinante nel provocare di fatto la caduta di Gheddafi. Il Colonnello ha sottovalutato le tribù delle montagna. Lui pensava che con la sua teoria di una terza via, quella esposta nel suo Libro Verde, di avere smantellato la struttura tribale e di avere costruito uno Stato moderno. Si sbagliava. Ma, in fondo, lo aveva già confessato. Ricordo che in un'intervista che gli feci nel '96, confessò che il Libro Verde era stato un fallimento. Credeva di avere amalgato il paese e costruito una nazione. Quando ho pubblicato A un passo dalla forca, alcune copie sono entrate clandestinamente in Libia. Ho saputo poi che il ministero degli interni aveva bloccato il libro perché parlava bene della Senussia.

L'integrità nazionale e statale della Libia rischia davvero di disgregarsi?

Sì. Le tre regioni se ne potrebbero andare ciascuna per la propria strada. La Cirenaica, ad esempio, subisce ancora l'influsso della confraternita senussa e potrebbe darsi un proprio governo. Non credo che a guidare il paese possa essere il figlio di Gheddafi Saif al Islam, nonostante le sue dichiarazioni liberali. Se abbattono il padre, abbattono anche il figlio. I ribelli vogliono demolire un'intera epoca e dei Gheddafi non ne vogliono più sapere. A prendere il sopravvento potrebbe essere qualche capo dei clan della montagna.

C'è da tenere sott'occhio anche il ruolo dell'esercito, o no?

Non è un grande esercito, nulla di paragonabile ai 400mila uomini dell'esercito egiziano. E' un esercito di ottantamila uomini e in Cirenaica si sono schierati con gli insorti. E, in parte, anche in Tripolitania.

La Libia di Gheddafi, non sottovalutiamolo, è anche un impero finanziario con partecipazioni in tante banche e società occidentali. Non è così?

Berlusconi ha concluso un Trattato con Gheddafi con molta superficialità, a occhi chiusi, ben sapendo delle violazioni dei diritti umani. I libici hanno investito in Italia, ci danno un terzo del petrolio e del gas, hanno relazioni con Finmeccanica e con altre ditte che stanno lavorando in Libia. Avremo delle sorprese



Le rivolte in Nord Africa di Oliviero Diliberto, portavoce della Federazione della Sinistra

Le rivolte che si stanno susseguendo in tutto il Nord Africa hanno un tratto comune, ma ciascuna ha una propria specificità. Per quanto riguarda Egitto e Tunisia, la grande maggioranza dei manifestanti chiedeva innanzitutto pane, viste le condizioni di miseria totale in cui versavano decine di milioni di persone.


Intrecciato a ciò, vi era da un lato il desiderio di democrazia nelle parti più intellettualmente avanzate della popolazione, nonché anche pezzi di islamismo non necessariamente fondamentalista ma sicuramente cresciuto in misura potente negli ultimi decenni soprattutto in Egitto.
In particolare nella crisi egiziana sono stati colti alla sprovvista i due principali alleati: Usa e Israele (e anche l’Anp non ci ha fatto una gran figura…). Gli Usa hanno provato la carta di El Baradei che in Egitto, però, non conta, e non escludo che possano sotterraneamente tentare di trattare persino con i Fratelli Musulmani pur di mantenere il controllo essenziale del canale di Suez. Ma mi permetto di ricordare a tutti la storia dell’apprendista stregone che evoca forze che poi non riesce a controllare: basti pensare che Bin Laden e il Mullah Omar erano stati sostenuti, finanziati ed armati dalla Cia in funzione antisovietica. E poi si sa come è andata a finire…
Viceversa in Libia la situazione è parzialmente diversa. Il reddito pro capite è maggiore rispetto agli altri paesi, anche perché la Libia è più ricca di materie prime. Ancorché di quelle ricchezze ne godano in pochi.
Sicuramente anche in Libia si è sentita la crisi economica che ha scatenato la protesta di tutti i paesi del Nord Africa, in particolare l’impennata del prezzo dei cereali e il conseguente aumento del pane.
Io ho l’impressione che un pezzo del gruppo dirigente non fosse più d’accordo con la politica di Gheddafi, ormai non più antimperialista, com’era invece stato in passato (molti del gruppo dirigente vengono dalle fila dell’esercito e si sono formati proprio sul mito della resistenza anticolonialista ormai ridotta invece in Gheddafi a mero orpello retorico).
Depone a favore di questa ipotesi la dissociazione di importanti esponenti del governo e dell’esercito libico rispetto alla repressione di questi giorni: il rappresentante libico dentro la Lega Araba con sede al Cairo, Abdel Moneim al-Honi (personaggio importantissimo perché era uno degli undici ufficiali libici che insieme a Gheddafi deposero il re Idriss nel 1969 prendendo il potere), si è dimesso e unito agli insorti; il ministro della Giustizia si è dimesso; addirittura vi sono voci su un possibile arresto del ministro della Difesa.
La crisi libica ha dunque sbocchi oggi imprevedibili anche perché, contrariamente agli altri Paesi del Nord Africa, Gheddafi ha scelto la linea del massacro del suo popolo pur di rimanere al potere (ed uno dei motivi del crescente malcontento dei gruppi dirigenti era anche l’ipotesi di successione dinastica di uno dei figli di Gheddafi, che non a caso sono tra i protagonisti della repressione).
In definitiva in tutto il Nord Africa il ruolo chiave è rappresentato dagli eserciti. In Egitto e in Tunisia hanno il controllo del Paese. In Algeria vi è già una sostanziale giunta militare al potere che non a caso ha controllato meglio la situazione rispetto agli altri due Paesi.
Gli scenari sono imprevedibili. L’unica cosa certa è la figuraccia internazionale che sta facendo l’Italia per quanto riguarda la Libia ma non solo. Con un altro governo e un’altra classe dirigente noi potremmo giocare un ruolo chiave nel Mediterraneo per agevolare la cooperazione economica e lo sviluppo di istituzioni democratiche, senza alcuna forma di presunzione occidentale, perché ciascun popolo deve scegliersi le proprie forme di democrazia.


Gheddafi potrebbe resistere, e Berlusconi è un vigliacco

Sulla sanguinosa crisi libica in corso, dagli esiti drammatici e incerti anche per la difficoltà delle fonti, abbiamo rivolto alcune domande ad Angelo Del Boca, esperto di Libia e storico del colonialismo italiano.


Le notizie che arrivano parlano di un paese spaccato in due, anche l'esercito e i «comitati rivoluzionari» sarebbero divisi, la Cirenaica con le città di al Bayda, Bengasi, Tobruk è nelle mani degli insorti. La situazione sembra precipitare e le vittime sono quasi un centinaio...



Sì, precipita. Però, come giustamente dicevi, il paese è spaccato in due. Per la Cirenaica era già possibile prevedere una rivolta. Non è la prima volta, è già accaduto nel 2006 per la provocazione anti-islam del «nostro» ministro Calderoli e c'è da dire che, perlomeno negli ultimi 15 anni siamo alla terza insurrezione. Nel 1996 infatti non abbiamo mai saputo il numero delle vittime, solo gli arrestati furono migliaia, eppure allora intervenne contro quella rivolta islamista l'esercito, l'aviazione e la marina che sparò contro la Montagna verde, l'unica presenza montuosa simbolo dell'eroe Omar al Muhtar. Impossibile sottovalutare ancora l'influenza fortissima in Cirenaica della storica confraternita politico-religiosa della Senoussia.



Quindi secondo te il colonnello Muammar Gheddafi non ha le ore contate...



No, anche perché la stessa famiglia Gheddafi è come spezzata in due. Una divisione che è quasi una risorsa.



C'è la possibilità che questo conflitto apra le porte del potere a Seif al Islam, il figlio di Gheddafi che lavora da tempo ad una riforma della costituzione libica e che ha trattato per la liberazione dalle carceri di centinaia di integralisti?



Su questo ci andrei un po' con calma. A proposito dei figli, voglio ricordare che da un parte ci sono Khamis che è a capo di questi battaglioni di sicurezza, che poi sarebbero i pretoriani del regime, e Motassem, anche lui coinvolto nell'esercito; entrambi a favore di Gheddafi e adesso suoi strenui difensori, a ogni costo, come si capisce dagli avvenimenti di Bengasi e al Beida, dove era presente proprio Khamis. Dall'altra parte abbiamo Seif al Islam, che in questa situazione non ha fatto particolari dichiarazioni, ma da quanto sappiamo è l'unico che dà informazioni su quello che sta succedendo. E certo è l'unico che ha fatto liberare negli ultimi mesi centinaia di integralisti islamici di Bengasi. Che aveva liberato a condizione che loro, in un certo senso, si pentissero, ammettessero il loro errore e non tornassero più a fare operazioni di carattere violento. Ripeto che in questi ultimi mesi e giorni, è l'unico che dà informazioni su quello che accade.



In questo momento il mondo occidentale, quello che ha interessi strategici fondamentali in Libia, sembra molto preoccupato. Non parliamo solo dell'Italia, con l'Eni e Finmeccanica, ma anche degli Stati uniti...



Sì, gli Stati uniti da quando hanno deciso con Bush nel 2004 che la Libia non è più uno stato canaglia, sono tornati ormai da sette anni con quattro multinazionali petrolifere ad attingere al petrolio di Tripoli. E gli interessi non sono solo per il petrolio perché i francesi hanno attivato contratti per vendere i loro aerei da combattimento, la Gran Bretagna aveva mandato Tony Blair - che con Seif al Islam risolse anche la vicenda drammatica di Lockerbie - come commesso viaggiatore d'affari. Tutti in fila per vendere forniture. Perché in Libia-Piazza Affari c'è da cambiare tutto: ci sono da costruire aeroporti nuovi, la famosa ferrovia, l'autostrada litoranea dovrà costruirla l'Italia. Come da accordo storico con il quale il governo italiano riconosce le infamie italiane colonialiste e fasciste, per avere in cambio il contenimento - vale a dire nuovi campi di concentramento - dell'immigrazione disperata del Maghreb e dell'interno africano.



A proposito d'Italia. Come giudichi le dichiarazioni di Berlusconi di fronte al precipitare della stuazione e alla repressione sanguinosa: «Non ho chiamato Gheddafi perché non lo voglio disturbare»?



È una forma di viltà. Da parte di uno che proclama di essere un personaggio «amico e fraterno», ecc. ecc., e che «ha imparato il bunga-bunga da lui», ecc. ecc. Io non solo gli avrei telefonato, ma intanto gli avrei chiesto com'è la situazione, anche perché dalla sua voce sarebbe una dichiarazione autorevole. E poi gli avrei chiesto di essere clemente e di cercare di non provocare altro sangue. Invece «lui» non lo vuole disturbare. Non lo vuole disturbare perché oltretutto è anche un vigliacco.

(Da Il Manifesto - 20/02/2011)

Angelo Del Boca - Nel precipizio
www.controlacrisi.org


Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni. È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diveramente quel mondo e insieme le nostre società blindate. 
Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere. Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008. Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. 
Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar - quello impiccato dagli italiani. 
E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911. Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. 
Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. 
Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak. Quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. 
Qui ha fallito. Quando si è autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese. 
La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio. Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. 
Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello. La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima volta.

martedì 15 febbraio 2011

Uscire dalla crisi? Si può fare, da sinistra.


Intervista a Paolo Ferrero
Segretario del PRC - Federazione della Sinistra

di Francesco Ruggeri (Liberazione del 12 febbraio 2011)
Occorre uscire dalla politica di palazzo e dalla discussione morbosamente centrata su Berlusconi per rimettere al centro la questione sociale. «La decisione di fare una campagna di massa sulle questioni sociali nasce da qui: occorre dare una risposta praticabile di uscita a sinistra dalla crisi e su questo costruire un movimento di massa», spiega a Liberazione Paolo Ferrero in un’intervista incastonata all’indomani di un’importante riunione di direzione e alla vigilia di un convegno a Roma sui vent’anni del partito.

Dopo i segnali degli studenti e dei metalmeccanici, però, le opposizioni parlamentari sembrano incapaci di muoversi.
In questi mesi l’opposizione ha privilegiato l’azione di palazzo, infatti. Prima inseguendo l’idea di un governo tecnico e ora con la proposta di D’Alema di andare alle elezioni con Fli e Udc, che è la continuazione della manovra di palazzo. Tutto ciò, però, non costruisce mica l’alternativa al berlusconismo ed esiste il rischio che Berlusconi riesca a restare in piedi. Ma in quello scenario le cose non resterebbero invariate. Succederebbe come all’indomani del delitto Matteotti che, non essendo riusciti a farlo cadere, Mussolini ne uscì rafforzato.

Ma è possibile in questo quadro che l’opposizione cambi terreno prima che la crisi eroda quel che rimane delle conquiste del Novecento?
Noi lavoriamo per questo. Per prima cosa si deve passare da una discussione tutta assorbita sul versante del palazzo a una discussione nella società. La direzione di ieri, appunto, è stato un primo momento di elaborazione per una campagna di massa sulla questione sociale che si ponga obiettivi praticabili e capaci di cambiare il segno ai processi. In gioco c’è la costruzione di una alternativa a Berlusconi e Marchionne, cioè alla gestione capitalistica alla crisi.

Dov’è la novità rispetto a strade percorse finora?
Noi proponiamo una piattaforma chiara e praticabile. Una redistribuzione del reddito verso il basso, la creazione di nuovi posti di lavoro con la riconversione ambientale, il blocco delle delocalizzazioni, il rilancio di scuola, università e cultura. Tutte cose attuabili con una tassa patrimoniale al di sopra degli 800mila euro - oggi l’1% della popolazione possiede il 13% delle ricchezze e il 60% si spartisce il 13% - con la lotta all’evasione fiscale, tagliando le grandi opere, recuperando i soldi pubblici dati alle imprese che delocalizzano, tagliando di un quinto le spese militari. La novità sta nel tentativo di andare oltre il livello della propaganda episodica costruendo su queste proposte concrete e immediatamente praticabili, una vera e propria campagna fatta di volantini, dibattiti, proposte di legge regionali, delibere consiliari, costruzione di vertenze concrete con i disoccupati e i lavoratori. Una campagna per dire che dalla crisi si può uscire e noi avanziamo proposte concrete, denunciando che i soldi ci sono, è solo un problema di volontà politica distribuirli. Una campagna di massa - collegata alla richiesta di sciopero generale e alle campagne per i no ai referendum - per battere il senso di impotenza che attanaglia la nostra gente.
Ma come si batte elettoralmente Berlusconi?
Su questo piano bisogna sconfiggere la proposta neocentrista del Pd proponendo al contrario un fronte democratico, che unisca Pd e forze di sinistra, e che sia fondato sul rispetto e lo sviluppo della Costituzione e sul superamento del bipolarismo. Senza Fli e Udc quindi. Il Cln non fu costituito dai gerarchi fascisti che avevano defenestrato Mussolini nel gran consiglio del fascismo del luglio ’43; il Cln lo hanno costituito i partiti antifascisti. Il Pd dovrebbe ricordarsene prima di cercare di imbarcare Fini che ha condiviso tutti i peggiori provvedimenti del governo Berlusconi. Ma l’aggregazione tra il Pd e le sinistre deve riuscire a definirsi perché se si creasse solo come risulta del rifiuto di altri quell’alleanza non diventerebbe senso comune. Ecco, la campagna sociale che vogliamo far partire serve anche a questo, a dialogare, a sintonizzarsi con quanti si sono schierati con la Fiom - penso a Unitcontrolacrisi - a trovare una piattaforma comune. Perché uno schieramento che escluda le forze che hanno cinguettato con Berlusconi non è ancora l’alternativa al Berlusconismo. Mezzo Pd, come sai, sta con Marchionne.

Certo che i vent’anni del percorso di Rifondazione e il prossimo congresso non potevano cadere in una fase più complicata.
Finora la nostra storia è stata scritta dagli altri, in particolare da chi ha fatto le diverse scissioni. Vogliamo cominciare a fare noi la nostra storia, vogliamo fare un bilancio del nostro percorso, anche degli errori compiuti, che ci aiuti a fare un passo in avanti nel processo della rifondazione comunista. Vogliamo rileggere la nostra storia – di cui non ci vergogniamo – per andare avanti, non per restare girati indietro. Anche il congresso dovrà quindi porsi un duplice obiettivo. Da un lato l’obiettivo di fare un passo in avanti concreto nella rifondazione comunista, cioè nell’elaborazione di un pensiero e di una pratica comunista efficace. Dall’altra di fare un passo in avanti sulla strada di costruire un polo autonomo della sinistra anticapitalista: la federazione. Noi vogliamo fare un congresso che elabori una proposta di fase, con cui dialogare con tutti i comunisti e a tutte le comuniste comunque collocate, per ricercare un percorso unitario. L’unità deve essere ricercata a partire da una proposta politica chiara e – si spera – efficace. Vogliamo quindi costruire un congresso di proposta e unitario, che superi ogni tendenza all’autoconservazione.

Sembra già una risposta a chi ha annunciato l’uscita dal Prc per andare a fare il partito dei comunisti. Penso all’appello firmato da Giannini.
Al di là delle sua scarsa rilevanza numerica contenuta, il senso di quell’appello è un attacco frontale al partito della rifondazione comunista e al suo progetto. Così come l’Arcobaleno aveva abbandonato il comunismo in nome di una sinistra senza aggettivi, così questo appello sceglie di abbandonare la rifondazione in nome di un comunismo senza aggettivi. Se vuoi è assolutamente simmetrico, speculare, al percorso vendoliano: separare il comunismo dalla rifondazione. Si tratta quindi della ripetizione di un errore grave che va combattuto. Il nostro problema è di fare un partito rivoluzionario; a tal fine serve una analisi di fase e una proposta politica chiara, non una suggestione.

domenica 13 febbraio 2011

Attivo della Federazione della Sinistra

attivo della federazione della sinistra
sulla fase politica
martedì 22 febbraio
ore 20.45 Sondrio c/o sede prc di via Aldo Moro 49

l'incontro sarà introdotto da una relazione
del compagno EZIO LOCATELLI del Consiglio Nazionale della Federazionde della Sinistra

si prega i compagni di estendere l'invito e di essere presenti e .... puntuali,


per Federazione della Sinistra

Guglielmo Giumelli

giovedì 10 febbraio 2011

Petizione contro l'aumento dei biglietti del treno.

Aderiamo alla petizione del Patto Dei Pendolari italiani contro l'ulteriore aumento del costo dei biglietti del trasporto pubblico.


FIRMA ANCHE TU CONTRO GLI AUMENTI TARIFFARI
AL TRASPORTO PUBBLICO E LA RIDUZIONE DELLE CORSE
Gli effetti della manovra economica concepita nei mesi scorsi dal ministro Tremonti, consistente nella riduzione dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni e agli Enti Locali, stanno ormai arrivando nelle tasche dei pendolari italiani. Molte Regioni italiane hanno deciso forti aumenti alle tariffe dei Trasporti Pubblici, anzichè redistribuire equamente la riduzione delle risorse sull’intero settore del trasporto pubblico e privato (auto) e ridurre gli sprechi agendo contro i monopoli e le inefficienze. In Liguria gli aumenti sono del 15% sugli abbonamenti e del 25% sulla corsa semplice. In Lombardia gli aumenti saranno in più fasi, due del 10% e, tra pochi mesi, anche a Milano del 20%.
Non si può allontanare il sospetto che, in realtà, dietro agli aumenti tariffari si nasconda una strategia precisa che ritiene il trasporto pubblico, anziché una risorsa, un inutile fardello per le casse dello Stato, penalizzando così milioni di cittadini che si comportano in modo virtuoso.
Viene altresì completamente ignorato il basso livello qualitativo dei nostri trasporti pubblici e le gravi inefficienze che li caratterizzano, a cominciare dalla velocità commerciale dei nostri autobus, tram e treni, che risulta essere di gran lunga più bassa degli altri Paesi e che ne influisce negativamente la produttività e l’efficacia. Ciò è dovuto alla mancanza di una vera politica della mobilità sostenibile e di un quadro normativo arretrato, causando un enorme dispendio di risorse e danni incalcolabili al sistema economico e produttivo.
Se, peraltro, vi fosse reale necessità di risorse, una politica che vuole assegnare la priorità al trasporto pubblico si dovrebbe preoccupare, anziché penalizzare gli utenti, di recuperare nuove entrate per sostenerlo, mirando a riequilibrare il rapporto tra trasporto pubblico e trasporto privato.
L’assenza di qualunque tipo di strategia complessiva di riforma del sistema della mobilità in questo contesto è la riprova più evidente che dagli aumenti tariffari non si avrà alcun miglioramento qualitativo, ma solamente un indebito prelievo economico per milioni di pendolari che finirà per alimentare ulteriormente sprechi ed inefficienze.
Ecco perché dobbiamo dire NO! ad ogni ipotesi di adeguamento tariffario e chiedere invece una verificata e trasparente politica di aumento della qualità e di sviluppo dei trasporti pubblici.
Vogliamo essere noi a decidere sugli orari, sugli standard qualitativi, sugli investimenti!
TESTO PETIZIONE
Egregio signor Presidente, Onorevole, Assessore, Consigliere,
gli effetti della manovra economica approvata nello scorso mese di luglio, consistente nella riduzione dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni e agli Enti Locali, sono ormai arrivati a farsi sentire nelle tasche degli utenti del trasporto pubblico.
Il sottoscritto ritiene che la ricerca di un mero equilibrio dei conti non possa prevalere sulla grande valenza sociale ed ambientale del trasporto pubblico, che va ritenuto una risorsa, anziché un inutile fardello per le casse dello Stato, in quanto utilizzato da milioni di cittadini che adottano così un comportamento virtuoso.
Non si può inoltre ignorare il basso livello qualitativo dei nostri trasporti pubblici e le gravi inefficienze che li caratterizzano, a cominciare dal fatto che i nostri autobus, tram e treni hanno la velocità commerciale di gran lunga più bassa degli altri Paesi europei. Ciò provoca un enorme dispendio di risorse e danni incalcolabili al sistema economico e produttivo.
Ritengo che vada innanzitutto perseguito l’obiettivo di aumentare la produttività e quindi l’efficacia e l’efficienza del sistema della mobilità nella direzione della sostenibilità ambientale e sociale, liberandolo dai vincoli normativi arretrati o inadeguati che ne appesantiscono la gestione e adottando una coerente politica degli investimenti.
Ritengo peraltro che, se vi fosse una reale carenza di risorse, una politica che vuole assegnare la priorità al trasporto pubblico si dovrebbe preoccupare non di penalizzarlo con tagli e aumenti tariffari, ma di recuperare nuove entrate per sostenerlo.
Occorre, in particolare, cercare di evitare di squilibrare il difficile rapporto tra trasporto pubblico e trasporto privato per limitare i gravi danni sociali ed ambientali conseguenti ad un ulteriore aumento della mobilità privata, come l’aumento della congestione, dell’inquinamento, dell’incidentalità e la necessità di costruire nuove strade.
Le evidenzio infine che, dagli adeguamenti tariffari attuati con le modalità che si stanno prefigurando, ovvero al di fuori di una strategia complessiva di riforma del sistema della mobilità, verrebbe completamente a mancare ogni criterio di giusto rapporto tra qualità e prezzo del servizio. Non vi è, infatti, alcuna garanzia che, a fronte di un consistente aumento delle tariffe, vi sia un aumento della qualità adeguato. Al contrario, come sopra detto, vengono annunciate diminuzioni del livello di servizio. Se ciò dovesse realmente avvenire, le manifesto sin d’ora la mia più netta contrarietà.
Sono dunque a chiederLe di impegnarsi in prima persona affinché:
  • vengano innanzitutto ricercate e perseguite tutte le forme di risparmio, intervenendo in particolare sui fattori che limitano la produttività e l’efficacia del servizio reso;
  • venga salvaguardato il livello di finanziamento per il trasporto pubblico locale, che sia adeguato non solo al mantenimento dei livelli di servizio, ma anche all’incremento in funzione delle necessità degli utenti, anche attraverso la ricerca di nuove risorse, come intervenendo sulle accise, nell’ottica del riequilibrio tra trasporto privato e trasporto pubblico;
  • ad un eventuale adeguamento tariffario corrisponda un immediato, adeguato, proporzionale e concretamente misurabile miglioramento della qualità del servizio offerto;
  • i cittadini utenti del Trasporto Pubblico siano chiamati a partecipare e a decidere in merito alla governance del sistema, in particolare per ciò che concerne gli orari dei servizi, gli standard qualitativi e gli investimenti.
Certo che prenderà in considerazione le richieste sopra enunciate, porgo i miei più cordiali saluti.


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