domenica 28 novembre 2010

Arriva lo Statuto dei Lavori: il cerchio si chiude

Arriva lo Statuto dei Lavori: il cerchio si chiude
Oggi entra in vigore il Collegato Lavoro, di cui si è scritto in lungo e in largo. Altro ci sarebbe da scriverne, ma la verità è che qui non si fa in tempo a parare un colpo che subito arriva una nuova fregatura.
Lo Statuto dei Lavori è una grossa fregatura e proprio per questo, anche se la sua entrata in vigore non è imminente, conviene prenderlo per tempo. Di che si tratta? Al momento, di un disegno di legge-delega che il Ministro del Lavoro Sacconi ha presentato alle “Parti sociali” (sindacati e Confindustria) alcune settimane fa, con l’obiettivo dichiarato di “aggiornare” lo Statuto dei Lavoratori.
Essendo una legge-delega, il progetto è tutt’altro che definito: l’idea è che il Parlamento affidi al Governo il compito di elaborare la disciplina, delineando soltanto i principi generali. Ma questi principi generali non lasciano dubbi sulle finalità della riforma. Nelle parole della relazione che accompagna il testo:
Al lavoro stabile e per una intera carriera si contrappongono oggi sempre più frequenti transizioni occupazionali e professionali che richiedono tutele più adeguate. I mutamenti del mondo del lavoro implicano l’insorgere di esigenze che spiazzano un sistema di tutele ingessato – perché fatto di norme rigide sulla carta quanto ineffettive e poco adattabili alla mutevole realtà del lavoro – suggerendo l’introduzione di assetti regolatori maggiormente duttili e la definizione di diritti universali e di tutele di matrice promozionale.
In sostanza, si dice, dal momento che le leggi attuali, e in particolare lo Statuto dei Lavoratori del 1970, non sono sufficienti a tutelare efficacemente i lavoratori “flessibili”, le leggi stesse devono diventare “duttili” per poter assicurare una tutela omogenea tra lavoratori stabili e precari. Ecco un’ulteriore conferma, qualche riga sotto:
La verità è che l’attuale sistema normativo del diritto del lavoro non soddisfa pienamente nessuna delle due parti del contratto di lavoro. Non i lavoratori che, nel complesso, si sentono oggi più insicuri e precari. Né gli imprenditori ritengono il quadro legale e contrattuale dei rapporti di lavoro coerente con la sfida competitiva imposta dalla globalizzazione e dai nuovi mercati.
Anche dopo le recenti innovazioni apportate dalla legge Treu e, più ancora, dalla legge Biagi è palese, e non solo nei settori maggiormente esposti alla competizione internazionale, l’insofferenza verso un corpo normativo sovrabbondante e farraginoso che, pur senza dare vere sicurezze a chi lavora, rallenta inutilmente il dinamismo dei processi produttivi e l’organizzazione del lavoro.
L’argomentazione del Ministro in sostanza è questa: “lo Statuto dei Lavoratori e tutte le altre leggi che regolamentano il mercato del lavoro serviranno forse a difendere i lavoratori stabili, ma non sono valide per i precari, che sono al di fuori del loro campo di applicazione e infatti crescono costantemente di numero. Allo stesso tempo, quelle regole e in primis lo Statuto dei Lavoratori con quel suo antiquato articolo 18, servono soltanto a vincolare le aziende impedendo loro di essere competitive sul mercato globale.”
Ed ecco ora lo stesso ragionamento al netto della squallida ipocrisia che cerca di coprirlo: “Abbiamo introdotto la precarietà prima con la legge Treu (sui contratti a termine: grazie al Centrosinistra) poi con la legge Biagi (per tutto il resto: grazie alla Destra) ormai da sette lunghi anni. In questo modo il mercato del lavoro si è destrutturato e polverizzato abbastanza da rovinare la vita a milioni di persone, soprattutto giovani, ma non ancora abbastanza da consentire alle aziende di fare tutti, ma proprio tutti i loro porci comodi. Insomma, per poter affrontare degnamente (degnamente? mica tanto) la sfida del mercato globale, i padroni di casa nostra devono essere liberi di assumere e licenziare quando cazzo gli pare, senza dover rendere conto a nessuno, senza dover spiegare il perché, tantomeno a dei giudici. Tanto precari lo siete già, esserlo un po’ di più non vi cambia la vita.”
Si nota il difetto logico? “Siccome l’art. 18 non si applica ai precari, e siccome ormai i precari sono sempre di più, aboliamo l’art. 18″. Come se fosse colpa di quella legge se non si applica ai precari! Come se fosse colpa dello Statuto se i Governi passati hanno introdotto forme sempre più estese di precarietà del lavoro!
La colpa invece è tutta dei Governi che si sono susseguiti negli ultimi (almeno) dieci anni, seguendo un disegno coerente di cancellazione della stabilità del lavoro, operando così nei fatti una colossale redistribuzione dei rischi d’impresa dalle aziende ai lavoratori, mentre i redditi seguivano il percorso inverso, dalle tasche dei lavoratori a quelle dei loro padroni. Prima, con l’introduzione massiccia dei contratti precari, hanno creato un’area sempre più vasta in cui fosse disapplicato lo Statuto dei Lavoratori; adesso, una volta diffuso come un virus il fenomeno della precarietà in modo da renderlo, agli occhi degli stessi lavoratori, un modo del tutto normale di pensare la propria vita, si propongono di eliminare le tutele anche a chi continuava ad averle, precarizzando l’intero sistema con tutti gli strumenti disponibili. Tra questi, la cancellazione della fuzione di garanzia dei contratti collettivi, che si vogliono sempre più decentrati a livello territoriale (il ritorno delle gabbie salariali) e perfino aziendale. Il cerchio si chiude, insomma, ed è come il recinto in cui sono rinchiusi gli animali da mandare al macello.
La legge-delega, per inciso, è lo strumento che consente il massimo arbitrio al Governo e il minor controllo parlamentare – non che questo Parlamento avrebbe difficoltà a votare a larghissima maggioranza, se non all’unanimità, un progetto del genere. Non a caso, appena il giorno prima della presentazione del disegno di legge-delega, il Senato ha approvato con 14 contrari e 12 astenuti (tra l’altro, tutti della maggioranza), unordine del giorno che impegna il Governo a prendere provvedimenti per sostenere la crescita della produttività
che è anche condizione per attrarre investimenti esteri, attraverso nuove regole per le relazioni industriali che tengano conto dell’esperienza di Pomigliano d’Arco e modelli contrattuali che sviluppino la contrattazione decentrata di secondo livello e coinvolgano i lavoratori nei risultati dell’impresa; l’effettiva premialità per la responsabilità e il merito anche nelle amministrazioni pubbliche; un nuovo codice del lavoro semplificato, anche sulla base delle proposte del disegno di legge Senato 1873.
“Nuove regole per le relazioni industriali che tengano conto dell’esperienza di Pomigliano d’Arco”! L’ordine del giorno, tra parentesi, porta la firma di Francesco Rutelli e altri appartenenti al campo del “Centrosinistra”. Ma che cos’è questo “disegno di legge Senato 1873″? Lo troviamo sul sito del Senatore Pietro Ichino, giuslavorista di punta del Partito Democratico: è una sorta di precursore dello Statuto dei Lavori, in termini del tutto analoghi a quelli annunciati dal Ministro Sacconi. Converrà però parlarne nei prossimi giorni in un altro post, interamente dedicato alle proposte del Partito Democratico in materia di lavoro.
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giovedì 25 novembre 2010

Contro Marchionne e Berlusconi, per lo sciopero generale, in piazza con la CGIL.



Intervista ad Oliviero Diliberto di Antonio Calitri su Italia Oggi del 25 novembre 2010
Sergio Marchionne va temuto al pari di Silvio Berlusconi perché è una persona per bene e per questo può insidiare nella sinistra il suo modello, fallimentare per l’Italia. Fallimentare per i diritti dei lavoratori e per il paese ma anche dal punto di vista dell’economia e del marketing, perché puntare sulla Panda quando il mondo si divide tra auto cinesi a basso costo e auto di qualità tedesca, è perdente. A parlare così è Oliviero Diliberto, appena eletto portavoce nazionale della Federazione della Sinistra, che dopo aver accennato, nel congresso che lo ha acclamato, al nuovo obiettivo che deve combattere una sinistra unita, spiega in escusiva a ItaliaOggi perché il modello dell’amministratore delegato della Fiat va temuto. Anche più di una possibile scesa in campo di Luca Cordero di Montezemolo. E illustra anche le sue ricette di economia e politica industriale per tentare l’impossibile e dopo aver unito Comunisti Italiani, Rifondazione Comunista e Socialismo 2000 tentare di mettere insieme anche Sel di Nichi Vendola e una parte del Pd.
Domanda. Professor Diliberto, davvero pensa che Marchionne sia un nemico come Berlusconi?
Risposta. Assolutamente no. Non penso minimamente che Marchionne sia come Berlusconi. Sconfiggere Berlusconi alle prossime elezioni sarà difficilissimo, tuttavia c’è un largo movimento che lo vuole mandare via, compresi gli industriali che sono stati scontentati.
D. Marchionne invece?
R. Marchionne è diverso ed è molto insidioso. È una persona per bene, che si presenta bene. Che non si circonda di escort. Che non è il rappresentante di una destra volgare.
D. E allora perché avercela con lui?
R. Perché quello che propone Marchionne è peggio di un crimine, è un errore. La logica dello scambio che ci propone, lavoro contro diritti per tenere aperta Fabbrica Italia è sbagliata non solo moralmente ma giuridicamente e anche dal punto di vista economico.
D. Si spieghi meglio?
R. Marchionne è per l’inversione della gerarchia delle fonti del diritto. Un contratto tra privati diventa più importante della prima fonte che è la Costituzione. È una cosa aberrante che può valere negli Stati Uniti dove non hanno la Costituzione, non per l’Italia. Abolire il diritto allo sciopero che è sancito dalla Costituzione ne è uno degli esempi.
D. Diceva che anche economicamente è errato. Cosa c’è di sbagliato nel volere fabbriche più produttive?
R. Comprimere il costo del lavoro non porta a fare auto migliori. Oggi il costo del lavoro su un’auto incide dal 3,5% al 6%. Seppure, per paradosso, si riuscisse a ridurlo della metà, ci sarebbe una riduzione dell’1,75% cioè niente. Tanto e vero che in Europa le altre case produttrici hanno ripreso a vendere mentre la Fiat no. La Fiat non ha il problema del costo del lavoro ma dei modelli sbagliati. Marchionne sta puntando sulla Panda che dovrebbe uscire tra qualche anno da Pomigliano. Tra due anni però in Italia arriverà l’utilitaria cinese da 4 mila euro. Dall’altra parte del mercato i tedeschi stanno preparando utilitarie di grande qualità. In mezzo a queste due aree la Panda sarà schiacciata. Non sarà che Marchionne non è così bravo come qualcuno ha pensato, anche a sinistra.
D. Il problema Pomigliano però esiste ed esiste da prima che arrivasse Marchionne. L’assenteismo, le continue interruzioni di lavoro, le Alfa che uscivano difettate compromettendo l’immagine internazionale del marchio hanno danneggiato la Fiat prima dell’arrivo del manager. Qualcosa bisognerà pur farla?
R. Se il problema è l’assenteismo, si combatta in altra maniera, applicando le regole. Più che abolire il diritto di sciopero, si facciano tutti i controlli sui lavoratori. Ma nella legalità.
D. Sì, ma dalla Fiat si lamentano dell’assenteismo anomalo, quello che scoppia quando c’è una partita e arrivano 600 certificati medici.
R. La storia la conosco ed è esistita. Ma si tratta di una storia vecchia e riguarda le vecchie generazioni. I nuovi assunti di Pomigliano, dati alla mano sono meno assenteisti hanno percentuali di assenteismo molto basse. E su di loro si può ancora lavorare.
D. Ad ogni modo, senza Marchionne la Fiat non si sarebbe salvata e oggi ci sarebbero state dicine di migliaia di operai per strada_
R. Questo senza dubbio gli va riconosciuto”
D. Quindi è diventato un nemico dopo il salvataggio?
R. Marchionne non è un nemico, me ne guarderei bene. Io mi sono ripromesso di non lavorare per una sinistra contro qualcuno. Il problema è che l’affascinazione nei suoi confronti c’è anche nel centrosinistra. Esponenti del Pd mi dicono di accettare la sfida per vincere.
D. Lo disse anche Bertinotti.
R. Che ora non è più con noi.
D. È dall’altra parte, con Vendola con il quale volete lavorare.
R. Vendola ha manifestato con me a Pomigliano. Io ho risposto all’appello che ha fatto 15 giorni fa a Firenze, per passare dai risentimenti ai sentimenti. E la sfida di Marchionne ci offre la possibilità di unirci per un nuovo modello.
D. Quale? Come salviamo l’Italia in questo contesto tra globalizzazione e crisi?
R. Credo che serva un nuovo modello di sviluppo che punti sul nuovo lavoro e sulla società della conoscenza. Dobbiamo rendere i nostri lavoratori migliori di quelli dei paesi dove si delocalizza, anche perché non potranno mai essere competitivi a livello di costi, né possiamo trasformarli in automi lobotomizzati”.
D. E allora, come si rendono migliori?
R. Evitando la formazione professionale tradizionale, che non serve a niente, e puntando su una nuova scuola e sull’aumento dell’obbligo scolastico a 18 anni. Collegato a questo poi è il secondo punto, quello della trasformazione della società manifatturiera in società del sapere. Bisogna puntare sulla filiera della cultura, sulla scuola e sui brevetti. Nella classifica dei brevetti industriali in passato l’Italia è stata al primo posto mentre oggi è penultima. E senza innovazione non si va da nessuna parte mentre esiste un enorme mercato come quello cinese che può essere una grande opportunità.
D. Concludiamo con la politica. Lei dice che dobbiamo temere Marchionne e il suo modello, ma in campo sembra voglia scendere Luca Cordero di Montezemolo. Va temuto anche lui?
R. Spero che non si arrabbi ma io temo di più Marchionne perche è più bravo. Perché non ha ambizioni politiche in senso stretto e perché viene da un altro mondo. Montezemolo non so cosa farà ma è un consumato navigatore di aziende e di politica italiana.

domenica 21 novembre 2010

Congresso della Federazione / Salvi:"Cambiare si deve, la Storia non è finita"."


di Romina Velchi

La Federazione della sinistra va. A zig zag, dice qualcuno, ma va. E non suoni strano che a dare la carica alla platea sia un signore settantenne, ancorché stimato costituzionalista, come Gianni Ferrara: «E’ una buona giornata, confortante e non dobbiamo essere timidi, incerti, esitanti. Il percorso lo stiamo facendo e dobbiamo ritenerlo irreversibile, sennò saremo spazzati via - prosegue Ferrara -. Il futuro è denso di molti pericoli e poche chance, ma la sfida di esserci è cruciale. I comunisti ci sono, nessun muro ci ha seppellito. Possiamo non combattere?».
Ecco, se la federazione della sinistra nasce principalmente per ridare sostanza alla domanda di unità, allora il congresso che si è aperto ieri (anche se “anomalo” e criticato viste le modalità con cui si sta svolgendo) è il segno che si è sulla buona strada. Perché chi si riconosce nella nuova creatura politica (né partito, né semplice movimento) è proprio a questo che pensa: possiamo non combattere? E, soprattutto, dal dibattito del primo giorno emerge la comune analisi della situazione (politica, economica, sociale) e la comune affermazione che senza una sinistra comunista e anticapitalista non potrà arrivare alcuna risposta. Ciò che fa dire che la costruzione di un soggetto politico con una «massa minima di attrazione» (per dirla con Vittorio Agnoletto) è a portata di mano. No, proprio non «sembra di stare a Xfactor» (provoca Andrea Rivera, chiamato ad una pre-apertura sui generis dei lavori del congresso e che invita a non nominare più Berlusconi per non finire come il barone Lamberto «che visse due volte»). No, qui c’è la politica con la “p” maiuscola, quella che cerca di essere utile alle persone cambiando lo stato di cose presente.
«Cambiare si deve, la storia non è finita» esordisce infatti Cesare Salvi, che svolge la relazione di apertura in quanto attuale portavoce della Fds (farà anche le conclusioni). Basta vedere il disastro provocato dal neoliberismo, che ci ha portato ad una crisi tale che rischia di scomparire persino l’Europa. Un liberismo il cui volto peggiore è proprio quello italiano: attacco ai diritti, al lavoro, a conquiste cinquantennali, alla Costituzione. Un liberismo che va sconfitto al più presto. E per farlo serve l’unità principalmente delle forze che hanno aderito alla manifestazione Fiom del 16 ottobre e di quelle che si riconoscono nella Costituzione repubblicana.
Il messaggio è soprattutto a Vendola: dopo i «risentimenti» e i «sentimenti», avverte Salvi, è l’ora della politica. Se è vero che i sondaggi dicono che il centrosinistra unito ha più voti di Berlusconi e Bossi e se è vero che la vittoria di Pisapia alle primarie di Milano è principalmente il risultato dell’alleanza tra Fds e Sel, allora ecco la proposta a Vendola: un «impegno comune per un programma condiviso per le prossime amministrative. Perché uniti si vince» (mentre di «affabulatori» e di «fabbriche» non si sente alcun bisogno, diranno molti interventi).
Quanto al Pd (in platea c’è il coordinatore Migliavacca), Salvi mette in guardia dal governo tecnico a tutti i costi: «No grazie, abbiamo già dato», dice tra gli applausi. Meglio, molto meglio un’alleanza democratica: «Il Pd assuma l’iniziativa, noi ci siamo».
All’Ergife di Roma (proprio là dove dodici anni fa si consumò lo strappo tra Bertinotti e Cossutta) ora c’è, come recita lo slogan, la sinistra «del lavoro, della democrazia, dell’unità». Ed è attorno a queste tre parole d’ordine che si svolge il dibattito (del quale è impossibile dare conto qui interamente, anche per ragioni di chiusura in tipografia). Parole d’ordine che possono essere declinate in molti modi. Parla Landini, segretario Fiom, a conferma che l’obiettivo della Fds «è ridare al lavoro una grande forza della sinistra» che lo sappia rappresentare (Salvi), ma parlano anche studenti precari e soprattutto gli immigrati. Sonia e Ismail raccontano di razzismo e indifferenza, di sfruttamento e ipocrisia: «Gli immigrati di Brescia – ci ricorda Ismail – sono prima di tutto lavoratori». Non per caso Giovanni Russo Spena sottolinea come «l’autorganizzazione dei migranti va messa al centro» dell’azione della Fds. E che cos’è la democrazia se non sa assicurare un tetto come si deve sulla testa delle persone e lascia che gli sfratti per morosità si moltiplichino alla velocità della luce? Lo ribadisce Walter De Cesaris (Unione Inquilini) sottolineando che «nella crisi qualcuno ingrassa».
E la democrazia per nulla si sposa con la criminalità organizzata, con le «mafie borghesi», come le chiama Russo Spena, che riciclano denaro «nei santuari della finanza», proprio lì dove si è formato il patrimonio di Berlusconi. E’ per questo che il congresso della Fds si scalda e si commuove quando viene proiettato un frammento del film “I cento passi” su Peppino Impastato e quando sul palco sale il fratello Giovanni, al quale Salvi consegna la tessera della Federazione.
E’ il tema dell’unità, però, quello che, come ovvio, tiene banco. A partire dall’analisi della vittoria di Pisapia. Una vittoria, certo, ma che non deve far dimenticare le difficoltà, come quella di riuscire a rimandare all’esterno un’immagine positiva, non quella di un’«unione di comunisti sconfitti». «Radicamento nelle lotte e apertura all’esterno – dice Nello Patta, ma non solo lui - sono le basi indispensabili per l’autonomia del nostro progetto, affinché non appaia solo come una scialuppa di salvataggio». Anche per Bruno Casati, il successo di Pisapia è un «piccolo segno di vitalià», ma non si deve trascurare il «forte problema di identità, da ricostruire con pazienza».
Oggi parleranno i quattro segretari e si svolgeranno le votazioni sullo statuto. Si sceglie anche il nuovo simbolo, che conterrà, anticipa Salvi, la falce e martello. Perché «quando si rompe con il proprio passato, tutto può succedere».
Da Liberazione del 20/11/2010

Congresso della Federazione / Landini:"Una grande battaglia per la democrazia"


intervista di Stefano Galieni

Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, ha riscosso nel suo intervento al congresso applausi scroscianti. Una platea attenta ha seguito l’evolversi del suo discorso, scaldandosi soprattutto nei passaggi in cui egli richiamava la necessità di un’ampia battaglia per la democrazia dentro e fuori i luoghi di lavoro e chiedeva risposte chiare da parte delle forze politiche che intendono interloquire con i lavoratori e le lavoratrici, riproponendo l’esigenza di arrivare presto allo sciopero generale non solo contro le politiche governative ma anche per fermare le scelte di Confindustria.
Che idea ti sei fatto di questo congresso e della Federazione?
Non posso che salutare con piacere tutti i processi che mirano a superare le divisioni a sinistra. Si tratta di costruire una unità necessaria per sconfiggere Berlusconi e farlo a partire dal merito. E’ necessario per poter espandere gli spazi di democrazia, per riaffermare i diritti, per produrre reali cambiamenti sociali. Deve essere una unità nel rispetto delle diverse soggettività, mettendo in campo partecipazione diffusa nelle decisioni che si prendono
Nel tuo intervento hai posto la questione della crisi delle forme della rappresentanza.
Per poter rappresentare i lavoratori e le lavoratrici affinché essi si riconoscano nella politica, bisogna essere chiari: alternatività a Berlusconi significa essere contro il collegato lavoro, contro la precarietà e le leggi che la producono, per una legge sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro che consenta di poter votare per decidere se firmare o meno un accordo. Significa pensare ad un sistema solidale che preveda anche il reddito di cittadinanza: E combattere l’evasione fiscale, partendo dal fatto che il 90% del gettito Irpef viene da pensionati e lavoratori dipendenti. Bisogna chiedere un intervento pubblico in economia per combattere la crisi
Sull’intervento pubblico c’è una parte della sinistra molto riluttante
A volte ci sono preconcetti. Guardiamo la realtà. Ad esempio oggi il prodotto non è l’auto ma la mobilità, questo significa pensare ad un nuovo modello di società in cui l’intervento pubblico è indispensabile. C’è chi crede che dalla crisi si possa uscire con l’aumento dei consumi individuali. Non è vero, occorre investire in beni comuni, il nuovo modello di sviluppo deve essere produzione sociale. La crisi va affrontata curando la malattia che l’ha generata (bassi salari e prodotti non innovativi) e non la febbre.
Hai molto insistito sulla democrazia nei luoghi di lavoro.
Penso che si debba rompere con la tradizione delle decisioni delle organizzazioni sindacali che mettono in subordine le risposte dei lavoratori. Dobbiamo ristabilire il diritto dei lavoratori di votare sia i propri rappresentanti sia gli accordi proposti. E’ un passaggio necessario per stabilire una vera autonomia e costruire una unità di azione nel pluralismo sindacale. Questo serve anche ad uscire dalla logica degli accordi separati, per cui imprese e controparti si rivolgono al quel sindacato che è disposto a firmare senza fare troppe storie. Sappiamo bene che la frantumazione dei processi lavorativi si traduce anche nel fatto che in una stessa azienda non vale più la logica per cui allo stesso lavoro corrisponde lo stesso salario, ma quella degli appalti, e dei contratti diversificati. Democrazia significa anche riunificare i diritti, lottare per un unico contratto per l’industria, ragionare di diritti europei per costruire una proposta di stato sociale. Come vedi non sono solo temi di natura sindacale, ma politica. L’Europa oggi è unita solo dalla moneta e abbiamo da una parte la Germania e dall’altra la Grecia. Se la Fiat impone la Newco a Pomigliano o dove le fa comodo, non compie solo un attacco al sistema democratico ma cancella diritti e i lavoratori non vanno lasciati soli. Io mi auguro che cada Berlusconi ma non è detto che intanto Marchionne si fermi. La Fiat vuole trasferire la propria testa negli Usa e sta procedendo fabbrica per fabbrica. La politica deve intervenire per contrastare questo progetto, se si pensa che sia un problema che riguarda solo la Fiat io non ho più nulla da dire
Hai accennato un’autocritica anche rispetto al sindacato.
Quando ci siamo schierati con chi non voleva firmare l’accordo di Pomigliano, in molti ci hanno detto che sbagliavamo, che era un brutto accordo, ma da accettare perché al Sud non si possono perdere posti di lavoro. Se lo avessimo subìto come voleva la Fiat, anche il “no” della Fiom non avrebbe cambiato il risultato. Ora posso dire che lavoratori e Fiom avevano capito la logica della Fiat e dove avrebbe portato. C’è stata un’accelerazione dichiarata nelle scelte dell’azienda, hanno deciso di non avere neanche tavoli allargati di discussione, per cui bisogna cambiare pratiche e pensare a scelte strategiche. Per questo abbiamo scommesso sulla mobilitazione del 16 ottobre facendola diventare un momento centrale
Il 16 ottobre, dal palco hai fatto un discorso che abbracciava diversi temi, dalla guerra al welfare alla cultura, quasi un programma politico
L’autonomia del sindacato si fonda su un suo progetto di società da proporre in un rapporto paritario al governo, qualsiasi governo, e alle forze politiche. L’azione del sindacato deve essere coerente con un programma generale, le forze politiche debbono porsi il problema di rappresentare le lavoratrici e i lavoratori. Noi non intendiamo sostituirci alla politica, anzi, l’assenza e la frantumazione delle forze politiche con cui confrontarci ha già creato abbastanza problemi
Oggi, hai riproposto il tema dello sciopero generale.
Sì, e l’unico soggetto in grado di proporlo è la Cgil. La riuscita della mobilitazione del 27 novembre è condizione necessaria per rilanciare la proposta e cominciare a costruirla nelle difficoltà in cui ci troviamo. Le ultime scelte del governo rafforzano questo proposito, ma da qui al 14 dicembre vedremo
Nel parlare di estensione dei diritti hai pensato anche alle iniziative portate avanti dai lavoratori migranti a Brescia e a Milano?
Certo l’estensione dei diritti di cittadinanza è fondamentale. I lavoratori migranti non solo hanno un ruolo fondamentale nella produzione e nei servizi sociali ma debbono poter esigere diritti. Altrimenti prevale non solo lo scontro fra immigrati e autoctoni, ma anche quello che separa una regione dall’altra. Si tratta poi di una battaglia democratica, non è accettabile che una parte consistente della società non possa nemmeno scegliere chi la rappresenta politicamente
Oggi hai citato anche la situazione estrema dei lavoratori dell’Ilva.
Sì, una situazione molto dura. Dobbiamo ottenere per i lavoratori “somministrati” la stabilità occupazionale, per questo siamo disponibili ad un tavolo di trattativa con l’azienda o anche col governo
Gli immigrati sulla torre, i lavoratori di Taranto sono solo gli ultimi esempi di forme molto radicalizzate di scontro. Cosa ne pensi?
Sarò tradizionale ma credo che al di là della necessaria visibilità che debbono avere queste lotte, ragione per cui spesso si fanno scelte estreme, si debbono mettere in piedi iniziative in grado di resistere un giorno in più del padrone. Poi la nostra scelta, e lo stiamo dimostrando, è quella di esserci sempre, rispettando le scelte dei lavoratori ed evitando strumentalizzazioni delle loro iniziative dentro e fuori i luoghi di lavoro.

Da Liberazione del 20/11/2010

sabato 13 novembre 2010

Documento conclusivo del Primo Congresse Provinciale della Federazione della Sinistra

Dal documento:
La Federazione della Sinistra è la via d'uscita dall'inutilità della politica e dal compromesso a perdere come unica forma di contrattazione.
Al centro della nostra riflessione stanno il lavoro, i diritti di cittadinanza, la piena affermazione della democrazia sociale ed economica ed il superamento del capitalismo.
(...)
I nostri riferimenti ideali sono la storia del movimento operaio italiano, comunista e socialista, l'antifascismo, i movimenti per la pace, per l'ambiente, per l'internazionalismo, per i diritti delle donne e per i diritti civili.
(...)

Nelle nostri valli a forte egemonia leghista la Federazione della Sinistra propone di agire unitariamente campagne politiche per smascherare le contraddizioni della Lega. All’elettorato popolare deve essere denunciata la casta leghista e deve essere evidenziato come la Lega non sia in grado di risolvere nessuno dei problemi con i quali ha raccolto i voti.

(...) La destra va sconfitta a livello nazionale e a livello locale, è indispensabile lavorare alla crescita dell'opposizione politica e sociale, attraverso la partecipazione e la ricostruzione dell'azione politica collettiva e plurale, la valorizzazione delle lotte sociali e del movimento sindacale.
Anche a livello locale le forze democratiche non devono limitarsi ad una mera battaglia istituzionale cercando solo di incunearsi negli spazi generati dai conflitti Lega-PDL.
E’ tempo di aprire una stagione di vera opposizione partendo da campagne politiche nella società.
Il documento intero è scaricabile all'indirizzo

martedì 9 novembre 2010

Manifestazione regionale contro la privatizzazione dell'acqua

Ritrovo in stazione a Sondrio alle 7 e 20 per prendere il treno che parte alle 7 e 38 e arriva a Milano Centrale alle 9 e 40.

domenica 7 novembre 2010

"La Lega è l'avversario politico, ma il centrosinistra è inefficace"

Ponte Un soggetto unitario e plurale, che mira ad aggregare «tutti coloro che hanno come comune denominatore la critica al capitalismo», ma che rivendica identità e soprattutto differenze. Con le destre, ma anche con il centrosinistra, con i «partiti biodegradabili» o quelli legati «alle doti taumaturgiche di un leader». Non ha risparmiato critiche e fendenti Massimo Libera, segretario di Rifondazione comunista, presentando ieri a Ponte la nuova Federazione della sinistra di cui è stato celebrato il congresso fondativo.
La relazione di apertura, dopo i saluti del sindaco Franco Biscotti e l'introduzione di Guglielmo Giumelli, candidato di Rifondazione e Comunisti italiani alle provinciali, è toccata proprio a Libera che non ha risparmiato niente e nessuno. Un'analisi, la sua, partita dalla crisi, profonda - politica, culturale ed economica - che il Paese sta attraversando, dalla volontà di essere alternativi al capitalismo e al berlusconismo e punto di riferimento per i lavoratori, per poi passare attraverso la necessità dichiarata di «invertire la masochistica tendenza alla frammentazione» della sinistra che deve, dando risposta all'invito rivolto a livello nazionale dall'Anpi, opporsi «alla destra eversiva che fa dell'attacco alla Costituzione uno dei suoi elementi caratterizzanti» trovando un'alleanza anche con il Pd, con il quale però «non è possibile governare». E poi il passaggio al livello locale. «Noi qui stiamo nel Nord cosiddetto leghista - ha detto Libera - dunque dobbiamo caratterizzarci come quelli contro la Lega. Contro il loro razzismo, ma denunciando anche il fatto che il Carroccio non risolve nessuno dei problemi con i quali ha preso i voti. Dobbiamo denunciare la casta leghista, smascherando le palesi contraddizioni nelle loro politiche. Dobbiamo fare una forte operazione contro la Lega perché un pezzo consistente dell'elettorato leghista è elettorato popolare». Parole tagliate su misura su una provincia dove il popolo di Bossi riesce a superare il Pdl conquistando il 42% dei voti. Una provincia dove però - è la critica forte di Libera - il centrosinistra non è in grado di opporre alcuna resistenza. «L'opposizione alla destre messa in campo dal Pd - sostiene Libera - che si limita ai livelli istituzionali per aprirsi spazi sperando di incunearsi nei contrasti tra Pdl e Lega è inefficace e, tutt'al più, di breve respiro». Non a caso il segretario di Rifondazione prende le distanze da «quel centrosinistra valtellinese che non si è fatto scrupoli di votare alla presidenza di una Comunità montana (quella di Morbegno, nda) un ex coordinatore di Forza Italia sotto inchiesta (Silvano Passamonti, nda)». Libera rivendica l'autonomia della sinistra «e tuttavia - aggiunge - crediamo necessario, in questa provincia dove le destre hanno il 70%, condurre molte battaglie unitarie. Ma non spetta soltanto a noi».
Monica Bortolotti
Da La Provincia di Sondrio - 7/11/2010

SLAVOJ ZIZEK: NE’ PEPSI NE’ COCA. LA SCELTA DI LENIN

oggi ricorre l'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. La ricordiamo attraverso un articolo di Zizek su Lenin


Vladimir Ilic Lenin è morto il 21 gennaio 1924, ottanta anni fa, e ci chiediamo se l'imbarazzato silenzio che circonda il suo nome non significhi che è morto due volte, che è morta anche la sua eredità. Effettivamente la sua insensibilità nei confronti delle libertà personali è estranea alla nostra sensibilità liberale e tollerante. Chi oggi non si sente rabbrividire al ricordo delle parole con cui Lenin liquidò la critica che i menscevichi e i socialisti rivoluzionari facevano del potere bolscevico nel 1922? «In verità, le prediche che fanno i menscevichi e i socialisti rivoluzionari rivelano la loro vera natura: "la rivoluzione si è spinta troppo oltre(...)". Ma allora noi replichiamo: permetteteci di mettervi di fronte a un plotone di esecuzione per aver detto queste parole. O vi astenete dall'esprimere le vostre opinioni oppure, se insistete ad esprimerle pubblicamente nelle circostanze attuali, in un momento in cui la nostra posizione è di gran lunga più difficile di quando le guardie bianche ci attaccavano apertamente, non potete biasimare altri che voi stessi se noi vi trattiamo alla stessa stregua degli elementi peggiori e più perniciosi delle guardie bianche». Questo atteggiamento sprezzante nei confronti del concetto liberale della libertà spiega la cattiva reputazione di cui Lenin gode fra i liberali. La loro tesi si basa soprattutto sul rifiuto della classica contrapposizione marxista-leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: come non si stancano di ribadire anche i liberali di sinistra del calibro di Claude Lefort, la libertà è intrinsecamente «formale», per cui la «libertà reale» equivale all'assenza di libertà. Lenin è ricordato soprattutto per la sua famosa risposta: «Libertà - sì, ma per chi? Per fare cosa?». Per lui, nel caso appena citato dei menscevichi, la loro «libertà» di criticare il governo bolscevico equivaleva in effetti alla «libertà» di minare alle basi il governo dei lavoratori e dei contadini, a favore della controrivoluzione ...
Oggi come oggi, dopo la terrificante esperienza del socialismo reale, non è forse più che evidente in che cosa consiste l'errore di questo ragionamento? In primo luogo, esso riduce una costellazione storica a una situazione chiusa, in cui le conseguenze «oggettive» degli atti di una persona sono completamente determinate («indipendentemente dalle vostre intenzioni, quello che voi adesso state facendo serve oggettivamente a ....»). In secondo luogo, il suo «oggettivismo» apparente ne copre l'opposto soggettivismo: sono io a decidere il significato oggettivo delle tue azioni, dato che sono io a definire il contesto di una situazione: ad esempio, se io considero il mio potere l'espressione immediata del potere della classe operaia, chiunque si oppone a me è «oggettivamente» un nemico della classe operaia.
Ma è proprio questa la conclusione del discorso? In che modo funziona di fatto la libertà nelle democrazie liberali? Per quanto la presidenza di Bill Clinton rappresenti alla perfezione la terza via della (ex) sinistra odierna subalterna al ricatto ideologico della destra, il suo programma di riforme dell'assistenza sanitaria costituirebbe comunque, nelle condizioni di oggi, un atto fondato sul rifiuto dell'ideologia imperante del taglio della spesa pubblica: in un certo senso, Clinton avrebbe «fatto l'impossibile». Non c'è da stupirsi, quindi, che tale programma sia fallito: il suo fallimento - forse l'unico evento significativo, ancorché negativo, della presidenza di Bill Clinton - conferma una volta di più la forza materiale del concetto ideologico di «libera scelta». Sebbene la grande maggioranza della cosiddetta «gente comune» non fosse adeguatamente informata in merito al programma di riforma, la lobby medica (due volte più forte dell'infame lobby degli armamenti!) riuscì a inculcare nell'opinione pubblica l'idea fondamentale che, con l'assistenza medica universale, si sarebbe in qualche modo minacciata la libera scelta in questioni attinenti alla medicina.
A questo punto tocchiamo il centro nervoso dell'ideologia liberale: la libertà di scelta, questione di cruciale importanza nelle nostre «società del rischio» - come le definisce Ulrich Beck - in cui l'ideologia dominante tenta di «venderci» quella stessa insicurezza che è provocata dallo smantellamento dello stato sociale, spacciandola per l'opportunità di nuove libertà. Dovete cambiare lavoro ogni anno, facendo affidamento su contratti a breve termine invece che su un lavoro stabile a lungo termine? Perché non vedere in questo la liberazione dai vincoli di un lavoro fisso, la chance di reinventare continuamente la propria vita, di prendere consapevolezza di sé e di realizzare i potenziali latenti della propria personalità? Non potete più fare affidamento sui sistemi pensionistici e mutualistici tradizionali, per cui dovete scegliere una copertura integrativa e pagare di tasca vostra? Perché non percepire in questo un'ulteriore possibilità di scelta: una vita migliore adesso, o una maggiore sicurezza a lungo termine? E se vivete con angoscia un frangente del genere, l'ideologo post-moderno o della «seconda modernità» vi accuserà immediatamente di essere incapace di assumere la libertà completa, di «rifuggire dalla libertà», in un'immatura adesione alle vecchie forme di stabilità. Meglio ancora, se questo si iscrive nell' ideologia del soggetto inteso come individualità psicologica, gravida di capacità e tendenze naturali, ciascuno interpreterà automaticamente tutti questi mutamenti come risultati della propria personalità, e non come conseguenza del fatto di essere sballottato come un fuscello dalle forze del mercato.
Fenomeni come questi rendono più che mai necessario oggi riaffermare la contrapposizione fra libertà «formale» e libertà «reale», in un senso nuovo e più preciso. Consideriamo la situazione dei paesi dell'Est europeo intorno al 1990, quando il socialismo reale stava crollando. All'improvviso, la gente si è trovata catapultata in una situazione di «libertà di scelta politica»senza che le venisse posta la domanda fondamentale: quale tipo di nuovo ordine desiderava realmente? Prima le si disse che stava entrando nella terra promessa della libertà politica; subito dopo, la si informò del fatto che questa libertà comportava privatizzazioni selvagge, lo smantellamento della sicurezza sociale, ecc. ecc.. La gente ha ancora libertà di scelta, se vuole, può tirarsi indietro; ma no, i nostri eroici concittadini dell'Est europeo non volevano deludere i loro maestri occidentali, e quindi hanno perseverato stoicamente nella scelta che non avevano mai compiuto, convincendosi che era loro dovere comportarsi da soggetti maturi, consapevoli che la libertà ha il suo prezzo ...
A questo punto si dovrebbe rischiare di reintrodurre la contrapposizione leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: il nocciolo di verità nella caustica replica di Lenin ai suoi critici menscevichi è che la scelta veramente libera è una scelta in cui io non mi limito a scegliere tra due o più alternative all'interno di un insieme prestabilito di coordinate, ma scelgo invece di modificare quell'insieme stesso di coordinate. L'intoppo nella «transizione» dal socialismo reale al capitalismo è stato che la gente non ha mai avuto la possibilità di scegliere l'ad quem di tale transizione: all'improvviso si è vista catapultata (alla lettera) in una situazione nuova, in cui si trovava di fronte ad un nuovo insieme di scelte prestabilite (puro liberalismo, nazionalismo conservatore ....).
È questo il senso delle ossessive tirate di Lenin contro la libertà «formale», in questo consiste il loro «nocciolo razionale» che vale la pena di salvare ancora oggi. Quando Lenin sottolinea che la democrazia «pura» non esiste, che noi dovremmo sempre chiederci a chi giova la libertà specifica presa in considerazione, qual è il suo ruolo nella lotta di classe, Lenin mira per l'appunto a salvaguardare la possibilità di una vera scelta radicale. In questo consiste, in ultima analisi, la distinzione tra libertà «formale» e libertà «reale»: la libertà «formale» è la libertà di scelta all'interno delle coordinate dei rapporti di potere esistenti, mentre la libertà «reale» designa un intervento che mina alle basi queste stesse coordinate. In sintesi, Lenin non intende limitare la libertà di scelta, bensì conservare la scelta fondamentale. Quando si domanda quale sia il ruolo di una libertà all'interno della lotta di classe, quello che ci chiede è per l'appunto questo: questa libertà contribuisce alla scelta rivoluzionaria fondamentale, oppure la limita?
Lo spettacolo televisivo più popolare degli ultimi anni in Francia, con indici di ascolto altissimi, che hanno addirittura doppiato il successo dei reality shows tipo Il Grande Fratello, è stato C'est mon choix su France 3. Si tratta di un talk show che ospita ogni volta una persona che ha effettuato una scelta particolare, determinante per tutta la sua vita: uno che ha deciso di non indossare mai biancheria intima, un altro che cerca continuamente di trovare un partner sessuale più adeguato per il padre e la madre, e così via. I comportamenti stravaganti sono ammessi, addirittura incoraggiati, ma con l'esclusione esplicita delle scelte che possono disturbare il pubblico : ad esempio, una persona che scelga di essere e agire da razzista è esclusa a priori. Non si può immaginare un esempio più calzante di quello che la «libertà di scelta» rappresenta realmente nelle nostre società liberali. Possiamo continuare ad effettuare le nostre piccole scelte, a «reinventare noi stessi» compiutamente, a patto che queste scelte non incidano veramente sull'equilibrio sociale e ideologico generale. Per fare una cosa davvero di sinistra, C'est mon choix avrebbe dovuto concentrarsi per l'appunto sulle scelte «spiazzanti»: invitare come ospiti persone che fossero razzisti impegnati, cioè persone la cui scelta incide veramente, fa la differenza. È anche questo il motivo per cui, oggi come oggi, la «democrazia» è sempre più un falso problema, un concetto talmente screditato dal suo uso prevalente che, forse, si dovrebbe correre il rischio di abbandonarlo al nemico. Dove, come, da chi sono effettuate le decisioni chiave riguardanti i problemi sociali globali? Avvengono nello spazio pubblico, con la partecipazione impegnata della maggioranza? In caso di risposta affermativa, è di secondaria importanza vivere in uno stato a partito unico, o altro. In caso di risposta negativa, è di secondaria importanza che si viva in un sistema di democrazia parlamentare e di libertà delle scelte individuali.
Quanto alla disintegrazione del socialismo di stato venti anni fa, è doveroso non dimenticare che, approssimativamente nello stesso periodo, è stato inferto un colpo durissimo anche all'ideologia dello stato sociale delle socialdemocrazie occidentali, che ha cessato anch'essa di operare come immaginario coesivo delle passioni collettive. L'idea che «l'epoca dello stato sociale è tramontata» è ormai largamente acquisita e condivisa. L'elemento comune a queste due ideologie sconfitte è il concetto che l'umanità, in quanto soggetto collettivo, ha la capacità di limitare in qualche modo lo sviluppo storico-sociale anonimo ed impersonale, di guidarlo nella direzione desiderata. Attualmente, tale concetto viene sbrigativamente accantonato come «ideologico» e/o «totalitario»: di nuovo, si percepisce il processo sociale come dominato da un Fato anonimo, che trascende il controllo sociale. L'ascesa del capitalismo globale si presenta a noi nelle vesti del Fato, contro cui non è possibile combattere: o ci adattiamo, oppure la storia ci lascia indietro, ci travolge. L'unica cosa che si può fare è rendere il capitalismo globale quanto più umano possibile, combattere per un «capitalismo globale dal volto umano» (questo è, o piuttosto era, in ultima analisi, la terza via)
La nostra scelta politica fondamentale - essere socialdemocratico o cristiano-democratico in Germania, democratico e repubblicano negli Stati uniti, ecc. - non può non ricordarci l'imbarazzo della scelta quando chiediamo un dolcificante artificiale in un bar: l'alternativa onnipresente fra bustine rosa e bustine blu, fra sweet'n'low e dietor, e la ridicola pervicacia con cui ognuno sceglie fra le due evitando quella rosa perché contiene sostanze cancerogene o viceversa, servono semplicemente a evidenziare l'insignificanza totale dell'alternativa. E lo stesso discorso si ripete per la Coca e la Pepsi. Ancora, è un fatto ben noto che il pulsante «chiudi porte» degli ascensori è quasi sempre un placebo assolutamente inefficace, piazzato lì soltanto per dare ai singoli individui l'impressione di partecipare, di contribuire in qualche modo alla velocità del viaggio in ascensore; ma quando premiamo quel pulsante, la porta si chiude esattamente alla stessa velocità di quando ci limitiamo a premere il pulsante del piano. Questo caso estremo di falsa partecipazione è una metafora efficace della partecipazione degli individui nel processo politico della nostra società «postmoderna» ...
È questo il motivo per cui, attualmente, tendiamo a evitare Lenin: non perché egli fosse un «nemico della libertà», ma piuttosto perché ci ricorda i limiti ineluttabili (imprescindibili) delle nostre libertà; non perché non ci offra una scelta, ma piuttosto perché ci ricorda il fatto che la nostra «società delle scelte» preclude qualsiasi vera scelta.

Slavoj Zizek

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