sabato 25 febbraio 2012

La strada per la Siria

La strada per la Siria
di Gianpaolo Calchi Novati


In Siria c’è un sistema personale, dinastico e autoritario. Il regime ha reagito con spietatezza alle manifestazioni di protesta di alcuni settori della società coinvolgendo senza scrupoli i civili e intere città nella repressione. Il numero dei caduti è probabilmente più basso delle cifre esagerate fornite da fonti esterne non controllabili, ma anche una sola vittima in un processo di riforma politica volto a introdurre una maggiore libertà è già troppo. La Siria, a parte i suoi più che illustri precedenti storici, occupa uno spazio di grande rilevanza geopolitica nel Medio Oriente ed esercita un’alta influenza su una vasta zona che include il Libano, la Giordania e finché possibile la Palestina.
Se questo, approssimativamente, è il contesto la domanda è: la strada migliore per una soluzione della crisi è incentivare l’opposizione in armi o mettere in campo tutti gli strumenti della politica delegittimando o almeno scoraggiando la violenza di tutti? L’esperienza dovrebbe aver dimostrato a sufficienza quali e quante siano le distruzioni fisiche e morali che si lasciano dietro le guerre «umanitarie». Non è bastato, prescindendo qui dalle motivazioni reali delle guerre, il massacro di un intero popolo in Iraq e Afghanistan che richiederà anni per sanare tutte le ferite? L’assurdo di un simile sviluppo sta nel fatto che la globalizzazione prevede l’inclusione e non la separazione propria della guerra fredda (con un blocco o con l’altro): le fiammate di ritorno di questi incendi investono intere regioni, provocano migliaia di profughi e vendette incrociate, inceppano quelle forme di democrazia e governance che a parole si dice essere funzionali alla stabilità e al progresso generale.
Ci sono purtroppo tutte le condizioni per una ripetizione della fattispecie libica, che sarebbe completa se Homs, come verosimilmente cercano di ottenere i ribelli, divenisse una «città libera» trasformandosi in una Bengasi siriana.
Alcune nazioni arabe, le potenze occidentali, forse la Turchia hanno come solo fine il famoso “regime change” che ha un significato molto diverso dall’autodeterminazione dei popoli e che in teoria non rientra neppure nei compiti dell’Onu. Infiltrazioni di truppe speciali, contractors, esperti di intelligence e travaso di armi starebbero già avvenendo. Qualche dubbio resta se Israele preferisce un Assad in ambasce o un Assad massacrato dalla folla aprendo un vuoto di potere dagli esiti imprevedibili. L’Onu ha sancito in una risoluzione che fa testo la Responsabilità a Proteggere (il cosiddetto RP). Se il governo in carica non rispetta i diritti fondamentali della cittadinanza, i paesi terzi hanno il diritto e al limite il dovere di agire per far cessare gli abusi.
Sappiamo tutti che ci saranno sempre disparità e un trattamento diverso fra grandi e piccoli ma questo è ancora il meno perché appartiene al realismo della politica internazionale. La dottrina internazionalistica ha chiarito la perfetta congruenza con questa risoluzione di pressioni, sanzioni, esclusione dal novero della comunità internazionale. Resta però valida la Carta sul punto dell’azione militare. Né gli stati singolarmente né le coalizioni o organizzazioni regionali e internazionali possono fare la guerra se non per motivi strettamente difensivi. Tanto meno lo può la Nato, che è un residuato della guerra fredda e che come tale viene percepita anche se portasse ghirlande di fiori. Fausto Pocar scrive letteralmente in un articolo pubblicato nell’ultimo numero della rivista dell’Ispi (Quaderni di Relazioni Internazionali) che l’insieme delle norme del diritto internazionale vigente induce a ritenere che le operazioni militari siano riservate agli “appropriate competent bodies”.
Un organismo competente appropriato sarebbe ovviamente l’Onu. L’Onu ha regole ritenute defatiganti e inconcludenti ma anche i decreti-legge più urgenti nei sistemi di tipo democratico devono essere approvati dal parlamento. D’altra parte, l’Onu ha perso molta della sua credibilità e delle sua stessa legittimità proprio negli ultimi anni. Troppe guerre senza nessuna convalida e senza controlli sulla conduzioni delle operazioni. Troppe risoluzioni applicate in modo unilaterale con forzature di contenuto e intensità o addirittura misinterpretate a fini di parte. L’aggiunta di un’espressione innocua come «altre misure» in un testo che fa appello a un’azione combinata contro una situazione infausta (come sarebbe avvenuto nel caso dell’ultima risoluzione del Consiglio di sicurezza bocciata dal veto di Russia e Cina) è sospetta in quanto può diventare una breccia per il passaggio senza altre mediazioni ai bombardamenti. Torna a proposito ricordare come venne usata dalla Francia e dalla Gran Bretagna la risoluzione 1973 sulla Libia. In questa prospettiva, la natura effettiva del fronte combattente è un fattore secondario.
Il presidente Assad ha messo in moto una procedura di auto-conferma accettando di discutere con la parte più disponibile dell’opposizione. È inutile scandalizzarsi: è la tattica impiegata da tutte le potenze impegnate in una guerra di repressione. Lo ha fatto la Francia in Algeria aggirando il Fln alla ricerca di un’ipotetica “terza forza” e lo stanno facendo gli Stati Uniti negoziando con i taliban «moderati». Non è affatto detto che ci siano i margini per un compromesso accettabile evitando il peggio, ma, pur evitando di idealizzare gli scenari internazionali di altre epoche storiche, sarebbe veramente triste se nell’era della globalizzazione la diplomazia fosse ridotta a decidere i modi e i tempi di una nuova guerra.

La tassa patrimoniale per creare lavoro.

Una tassa sui patrimoni per creare 800mila posti di lavoro.
di Guido Ortona, Ugo Mattei e Francesco Scacciati.
la proposta integrale è consultabile sul sito www.sbilanciamoci.info


In questo intervento proponiamo quanto segue: 800.000 disoccupati vengono assunti nel settore pubblico dell’economia con una retribuzione netta di 1.200 euro al mese. L’operazione è finanziata con un’imposta patrimoniale sulla ricchezza mobiliare (escludendo cioè le abitazioni, i terreni ecc.). Prima di entrare nel merito chiariamo che: a) gli 800.000 posti e i 1.200 euro al mese vanno intesi come ordine di grandezza ; b) le aliquote fiscali che verranno citate più sotto sono anch’esse un ordine di grandezza medio. È sicuramente preferibile ricorrere ad aliquote progressive. Analogamente, si potrà pensare anche a una limitata tassazione del patrimonio immobiliare.
Premessa. L’emergenza economica in cui ci troviamo è l’insieme di più emergenze. Una è quella occupazionale. Gli economisti seri concordano su questi quattro punti: a) i prossimi mesi, o anni, di recessione aggraveranno questa emergenza; b) una crescita debole, paragonata a quella degli ultimi anni prima della recessione, non è sufficiente a risolvere questa emergenza, e forse nemmeno a impedirne l’aggravarsi; c) i costi di questa emergenza sono enormi, e di lungo periodo: in quanto oltre alle gravi sofferenze di natura sia economica sia psicologica per i disoccupati (che molti politici trascurano) comprendono anche la perdita di capacità lavorative, la disaffezione verso il lavoro, e vari tipi di degenerazione del tessuto sociale; d) il mercato non è in grado di risolvere questa emergenza. Ne consegue inevitabilmente quanto segue: a) l’emergenza occupazionale va affrontata come tale, cioè con provvedimenti di emergenza, che devono durare fino a che dura l’emergenza; b) è compito dello stato sostituirsi al mercato per creare occupazione; c) le risorse per affrontare questa emergenza devono essere sottratte al ricatto dei mercati finanziari. Infatti un aumento del costo del debito implica una riduzione delle risorse pubbliche disponibili, il che fa aumentare la disoccupazione; e contrastare la disoccupazione con nuova spesa pubblica implica un aumento del costo del debito, e così via; d) le risorse necessarie devono quindi provenire da una fonte consistente e stabile. La via più percorribile in tempi brevi è la tassazione della ricchezza mediante un’imposta patrimoniale.
La proposta qui illustrata solleva quattro ordini di problemi: tecnici, cioè come implementarla; economici, cioè la valutazione degli effetti che avrebbe sull’economia; finanziari, cioè dove trovare i soldi per attuarla; e infine politici. È importante, prima di continuare, verificare che i soldi ci siano, per dirla un po’ brutalmente. Ci sono. A quanto riferisce la Banca d’Italia, la ricchezza mobiliare netta degli italiani, cioè quella costituita da moneta e titoli (e non da abitazioni e altri immobili, e calcolata sottraendo i debiti) è di circa 2.700 miliardi di euro, di cui almeno il 45% è nelle mani del 10% più ricco. Il costo della manovra suggerita è di poco meno di 12,5 miliardi (includendo una tredicesima mensilità).
Ciò implica che il suo costo potrebbe essere coperto con un’imposta patrimoniale media pari allo 0,46%, cioè al 4,6 per mille . Per avere un’idea della portata di una simile imposta si consideri quanto segue: un cittadino che disponga di una ricchezza finanziaria di 10.000 euro (un valore piuttosto basso, dato che il patrimonio include ogni tipo di risparmio, compresi i conti correnti bancari) dovrebbe pagare 46 euro all’anno; non c’è motivo per cui non possa essere autorizzato a pagare in dodici rate mensili di tre euro e ottantatre centesimi ciascuna. Ci sentiamo di dire che questo esborso è ampiamente alla sua portata; e lo è quindi, a maggior ragione, quello richiesto ai cittadini dotati di un patrimonio maggiore.

mercoledì 22 febbraio 2012

L'Unione Europea distrugge la Grecia


In dirittura d'arrivo, i 130 miliardi concessi da Bruxelles alla Grecia per sventare nell'immediato il default sono arrivati. Il tono dell'Eurogruppo è trionfale: "Un nuovo inizio" è stato detto. Ma, come avevamo anticipato ieri, il prezzo pagato - dalla popolazione ellenica e, come tale, da un Paese fino a ieri sovrano - è pesantissimo. Più che ad un aiuto, il passo compiuto assomiglia a un'eutanasia.
La Grecia è sostanzialmente commissariata: le risorse prestate a caro prezzo dall'Ue e i futuri introiti provenienti dai tagli del bilancio statale e dai conseguenti sacrifici sociali confluiranno in un "Fondo speciale" sottoposto a controllo esterno, onde assicurare che nulla sfugga all'obiettivo del rientro dal debito e al pagamento dei relativi interessi. Punto inderogabile è la presenza in loco di "osservatori" Ue (sarebbe meglio dire "commissari") con il compito di verificare mese per mese l'evolvere degli equilibri contabili. La previsione è che per il 2020 il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo si riduca al 120,5%.
L'interrogativo che sorge spontaneo è sempre lo stesso: un simile estremo sacrificio, oltre che intollerabilmente iniquo, è almeno utile (utile a salvare la Grecia e l'Europa)? La previsione di cui sopra è destinata ad esser confermata dai fatti? La nostra risposta, come è noto, è negativa: lo abbiamo ripetuto innumerevoli volte e non vogliamo qui tornarci su. Piuttosto, notiamo che siamo in buona compagnia e che sono in molti a diffidare dei trionfalismi di maniera. In tal senso, è il caso di riportare la chiusura dell'odierno editoriale del Sole 24 Ore: "Ma può questa Europa di freddi contabili e meticolosi notai, incapaci di vedere oltre cifre o percentuali anche molto modeste, assicurare il successo del nuovo salvataggio della Grecia? A volte viene il dubbio che, più che dalle inadempienze vere e/o presunte di Atene, i veri rischi per la sopravvivenza dell'euro vengano da questi falsi maestri che sanno guardare solo il proprio dito senza vedere la luna. Questo è il vero pericolo mortale che oggi corre la moneta unica".
Un'ultima notazione: purtroppo, le medesime "politiche di austerità" che stanno affondando la Grecia, vengono riproposte per l'intero continente. E' quello che si evince dalla Lettera di 12 leader europei ai vertici dell'Ue (promossa dal duo Cameron/Monti e disertata dall'altro duo Merkel/Sarkozy): un appello con cui si chiede "crescita" invocando liberalizzazioni e nominando il lavoro solo per auspicare (contro)riforme del mercato del lavoro. All'orizzonte, non si intravede purtroppo alcuna "Europa sociale". Mestamente, così commenta Pier Virgilio Dastoli, presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo (Cime): "Abbiamo la disciplina di bilancio e il mercato, ma ci manca ancora la crescita e lo sviluppo". Appunto.

lunedì 20 febbraio 2012

Afghanistan: è ora di tornare a casa.


I tre soldati italiani morti oggi in Afghanistan portano a 45 le vittime del nostro paese a poco più di dieci anni dall'inizio della folle avventura bellica. La guerra in Afghanistan ha provocato decine di migliaia di morti, ancor più feriti, e non ha migliorato la situazione di quel paese. In spregio alla nostra Costituzione e contro la volontà dell'opinione pubblica italiana, in un periodo di crisi economica in cui si parla tanto di sacrifici necessari, questa missione di guerra costa all'Italia oltre due milioni di euro al giorno, 780 milioni l'anno. Basta: non possiamo più aspettare, è ora di ritirarci.

domenica 19 febbraio 2012

Camila Vallejo a Roma: Dal Sud America all'Europa, il futuro non è ancora scritto.

Per i media borghesi è incomprensibile che una donna comunista possa essere alla guida del movimento studentesco cileno. Loro non sanno trovare altra spiegazione se non "è bella". Noi ce lo facciamo spiegare da lei. La diversità comunista è anche questa.


Aerei da Guerra: mezzo passo avanti e due indietro

Mezzo passo avanti e due indietro
Giulio Marcon - www.sbilanciamoci.info


Mezzo passo in avanti e due indietro, così si potrebbero commentare le dichiarazioni del ministro-ammiraglio Di Paola alle commissioni Difesa di Camera e Senato. Il mezzo passo in avanti è l’annuncio della riduzione delle Forze Armate di 30mila unità (dalle attuali 183mila).
Per farlo, questo mezzo passo in avanti il ministro-ammiraglio se la prende comoda: ha detto che ci vorranno 10 anni.Per mandare a casa gli operai della Irisbus e della Thyssen bastano poche ore, per ridurre il numero di generali e militari, due lustri. E poi in realtà, bisognerebbe ridurre almeno il doppio di quanto previsto da Di Paola. Le nostre Forze Armate potrebbero benissimo fare a meno di 60mila ufficiali e soldati, senza venir meno agli obblighi costituzionali (la “difesa della patria”) e agli impegni internazionali nelle missioni “di pace” (tra cui quella “di guerra” dell’Afghanistan). Tutto questo sarà accompagnato da una “legge delega” alquanto discutibile, perchè -su un tema così importante- riduce i poteri del Parlamento dando al governo il compito di dettagliare norme molto delicate e sensibili.
I due passi indietro sono il mantenimento del programma di produzione e acquisizione dei cacciabombardieri F35 (parzialmente ridotti di numero, da 131 a 90) e di un bilancio della difesa a livelli altissimi (cioè 21 miliardi di euro). I soldi risparmiati per il personale saranno investiti nel miglioramento dell’”efficienza” delle Forze Armate, cioè in nuovi sistemi d’arma sempre più costosi e inutili. E per gli F35 -se fossero 90 invece di 131- alla fine sempre più di 10 miliardi andremmo a spendere. In realtà quelle avanzate da Di Paola sono delle finte riduzioni: anche con questo numero più contenuto di F35 (e con la ventennale riduzione di un po’ di militari), le spese militari aumenterebbero -in termini reali- mediamente del 5-6% ogni anno, se includiamo tutte le spese, ed in particolare quelle per i sistemi d’arma e per le missioni all’estero che non sono contabilizzate nel bilancio della difesa.
Anche per questo è ormai patetica la lamentosa propaganda del ministro della difesa di turno (questa è la volta di Di Paola ) di un bilancio della difesa ridotto allo 0,9% del PIL (perchè non vengono considerate le spese che vengono sostenute da altri ministeri come quello dello sviluppo economico), quando dalla NATO al SIPRI (il prestigioso istituto svedese per il disarmo) ci dicono che le spese militari del nostro paese rappresentano l’1,4% del PIL, sostanzialmente in linea con la media europea. C’è poi chi – come il generale Tricarico, Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica – afferma che dagli F35 ci saranno benefici economici per oltre 13 miliardi di euro. Ma quando, dove? Parole e numeri in libertà. Magari -con sprezzo del ridicolo- Tricarico potrebbe proporre di costruire qualche altro centinaio di F35 in più per uscire dalla recessione e rilanciare l’economia. Generali ed ammiragli sembrano in realtà avere a cuore solo il loro interesse corporativo e particolare.
L’interesse generale del paese è invece un altro: ridurre la spesa militare per investire nel rilancio dell’economia; risparmiare 10 miliardi di euro degli F35 per potenziare gli ammortizzatori sociali per i disoccupati, per i precari e per salvaguardare i redditi delle pensioni minime e dei salari più bassi. Il paese non si salverà con i dottor Stranamore -che al massimo ci condurranno in qualche nuova avventura bellica- ma con le persone di buon senso (e speriamo che nel governo Monti qualcuna ancora ce ne sia) che sappiano usare bene la spesa pubblica contro questa crisi così drammatica. E’ anche per questo che è importante rilanciare la campagna contro gli F35 promossa da Sbilanciamoci, Rete Disarmo, Tavola per la pace, Unimondo con il costante e convinto sostegno del manifesto e promuovere il prossimo 25 febbraio in tutte le città d’Italia, manifestazioni e iniziative per chiedere lo stop agli F35 (per info: www.sbilanciamoci.org e www.disarmo.org). Quei 10 miliardi di euro si possono risparmiare e si può ridurre il debito pubblico, oppure con lo stesso importo si possono creare migliaia di posti di lavoro in imprese che si dedicano al riassetto idrogeologico del territorio, alla messa in sicurezza delle oltre 12mila scuole che non rispettano la 626, alla creazione di 4mila nuovi asilo nido pubblici. Si può rischiare il default per tanti motivi, ma non certo per dei cacciabombardieri e per far contenta la casta dei generali.

martedì 14 febbraio 2012

9 Marzo: sciopero generale!

Riportiamo il documento finale del Comitato Centrale della FIOM che convocato lo sciopero per il 9 Marzo, e l'ordine del giorno a sostegno del popolo greco.
Per scaricare il nostro volantino in bianco e nero, clicca qui.


Dichiarazione di Paolo FerreroSosteniamo la decisione della Fiom di indire lo sciopero generale e appoggiamo il sindacato dei metalmeccanici nella mobilitazione per i diritti dei lavoratori, per l’articolo 18, contro il governo Monti. Chiediamo alla Cgil di dichiarare lo sciopero generale: l’articolo 18 tocca tutti, non solo i metalmeccanici. Per questo saremo in piazza con la Fiom il 9 marzo e invitiamo tutte le forze di sinistra, tutti i lavoratori, i pensionati, ad aderire allo sciopero generale: contro questo governo bisogna essere netti e decisi nel far sentire le nostre ragioni, o metteranno mano ai diritti – dall’articolo 18 in avanti - che i lavoratori italiani si sono faticosamente guadagnati dopo anni di lotte

La Fiom mette i piedi sul tavolo
www.rifondazione.it


La Fiom è il convitato di pietra al tavolo indetto dal governo dei tecnici su lavoro e welfare. Ma alla trattativa la Fiom partecipa a suo modo: con la mobilitazione. Primo appuntamento: sabato 18, a Roma, per un attivo nazionale di quadri e delegati del sindacato dei metalmeccanici. Seconda data da tenere a mente: venerdì 9 marzo, grande manifestazione nazionale a Roma e 8 ore di sciopero nelle industrie metalmeccaniche.
I metallurgici della Cgil hanno più di un motivo per protestare: lo scippo del Contratto nazionale, con l'accordo separato firmato da Cisl e Uil e mai validato da un referendum; l'offensiva di Fiat, che ha cancellato il diritto di rappresentanza degli iscritti al più antico sindacato dell'industria con un colpo di penna e ha esteso il "modello Pomigliano" a tutto il gruppo.
E poi la crisi, che strangola molte aziende: dalle piccole, sottoposte alla gelata dell'economia internazionale, a quelle grandi e strategiche, vittime della lunga latitanza dei governi dai tavoli che dovrebbero decidere la politica industriale.
Ma la manifestazione del 9 marzo, accanto ai temi "sindacali" dei metalmeccanici, metterà al centro anche i grandi temi politici, quelli "confederali", in discussione nel tavolo con le parti sociali indetto a palazzo Chigi. Su quei temi la piattaforma della Fiom è netta: nessuna manomissione dell'articolo 18 (al massimo la Fiom dà la sua «disponibilità per una normativa che acceleri la celebrazione dei processi»); riduzione della precarietà, estensione dei diritti, tutela del reddito, ampliamento degli ammortizzatori sociali a tutte le imprese e a tutte le forme di lavoro. Come dire, parafrasando Monti e Ichino: «basta con l'apartheid tra protetti e non protetti». Però con una strategia opposta: per riunificare il mondo del lavoro non bisogna togliere i diritti a chi li ha, ma darli a chi non li ha (se di "protetti" si può ancora parlare durante l'era Marchionne e con la disoccupazione in vertiginoso aumento). Infine, la Fiom chiede un piano straordinario di investimenti pubblici e privati per il rilancio del sistema industriale.
In sintesi, la Fiom dice un no netto alle politiche del governo Monti. Le sue parole d'ordine non sono molto dissimili da quelle della Cgil, che però è stabilmente seduta al tavolo di confronto col governo, nonostante molti provino a far saltare i nervi della Camusso (vedi Repubblica coi suoi scoop) e la fragile unità sindacale con Cisl e Uil. La segretaria generale della Cgil ha salutato la mobilitazione della Fiom con fredda condivisione: «Lo sciopero è per il contratto nazionale di lavoro, per la democrazia in Fiat, per l'esclusione della Fiom e per il mancato reintegro al lavoro a Pomigliano dei metalmeccanici iscritti alla Fiom», ha dichiarato Camusso, lasciando da parte i temi "confederali" affrontati nella piattaforma presentata da Landini. Quanto all'articolo 18, «la Cgil ha già espresso la sua posizione», chiosa la Camusso.
Il corteo si preannuncia lungo e partecipato. Come sempre, accanto alla Fiom scenderanno in piazza movimenti, associazioni, partiti della sinistra, a partire dal Prc e dal Pdci. «Sosteniamo la decisione della Fiom di indire lo sciopero generale per i diritti dei lavoratori, per l'articolo 18, contro il governo Monti», ha dichiarato il segretario del Prc Paolo Ferrero. Più qualche esponente sparso del Pd. Il segretario dei democratici capitolini Miccoli ha già annunciato la sua partecipazione. Facile prevedere che sul corteo della Fiom si assisterà all'ormai classica spaccatura del Pd tra fan di Monti e fan della Cgil.
Roma, 15 Febbraio 2012


Fiom verso lo sciopero generale


Oggi il Comitato Centrale delle tute blu. La Cgil smentisce incontri segreti con Mario Monti sui licenziamenti. Repubblica conferma
(Francesco Piccioni - Il Manifesto)
La Fiom lascia e raddoppia. E la Cgil? La domanda ha un senso, visto il bailamme provocato dallo scoop domenicale di Repubblica. Ma andiamo con ordine.
Stamattina si riunirà il Comitato centrale dei metalmeccanici per decidere, tra l'altro, il rinvio della manifestazione nazionale ai primi di marzo (probabilmente il 9), ma accoppiandola a uno sciopero generale di categoria. La manifestazione, con corteo a Roma, doveva tenersi in un primo momento sabato 11; poi era stata spostata al 18 per l'emergenza neve che sta ancora bloccando l'Italia.
Ma non sono soltanto le ragioni climatiche ad aver consigliato uno slittamento. In parte la scadenza del 18 veniva a coincidere con altre mobilitazioni dei movimenti, sottraendo dunque forza che invece è bene tenere unita. In parte perché il contratto dei metalmeccanici - quello «legalmente» in vigore, riconosciuto dalla Fiom - è scaduto il 31 dicembre, e c'è una piattaforma rivendicativa approvata nelle assemblee su cui chiamare la controparte al tavolo. Ma anche «per impedire che il modello Fiat si espanda in Italia». Infine, perché davanti alla determinazione del governo nel voler cancellare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, la sola manifestazione nazionale appariva insufficiente.

Sull'art. 18 la posizione è semplice: «non bisogna modificarlo». E su questo il segretario Maurizio Landini ribadisce che «posizione della Cgil è molto precisa: non può essere oggetto della trattativa se non per migliorare e accelerare i processi».
Il problema, per tutta la Cgil, nasce però dall'articolo con cui il quotidiano di Debenedetti ha rivelato un presunto «incontro segreto» tra il segretario generale della confederazione, Susanna Camusso, e il presidente del consiglio, Mario Monti. Incontro in cui sarebbe stata raggiunta un'intesa di massima per «manutere» la tutela dal licenziamento in modo da renderla di fatto inefficace.

Un resoconto peraltro molto dettagliato, non privo di coerenza «mediatoria» tra gli obiettivi del governo e le posizioni - ufficialmente inconciliabili - della Cgil. Al punto che il redattore chiosa: «una soluzione che consenta al governo di presentare alla Ue e ai mercati una 'moderna' riforma del lavoro e ai sindacati tutti di non dover salire sulle barricate». Sarebbero infatti «temporaneamente» privati dell'art. 18 quei lavoratori che «dopo una lunga esperienza di precarietà» potrebbero venir assunti in pianta stabile; le aziende riceverebbero agevolazioni fiscali e per almeno 3-4 anni potrebbero licenziare senza problemi. Non basta: verrebbero «liberate» dal rispetto della legge 300 anche le «nuove aziende» e quelle che aumentano l'occupazione superando la soglia dei 15 dipendenti. L'esperienza delle newco Alitalia e Fiat Pomigliano, però, mostrano che non sempre il «nuovo» è davvero tale. Un trucco societario, insomma.

Un pastrocchio immondo, indigeribile per tutta la Cgil. Aggravato dalla caduta di stile di un segretario che fa accordi «segreti», in barba al dibattito interno, dopo aver criticato i «colleghi» - Raffaele Bonanni della Cisl e Luigi Angeletti della Uil - per quanto combinato all'epoca (pochi mesi fa!) di Maurizio Sacconi. Peraltro alla vigilia della convocazione a palazzo Cgigi (domani alle 9.45). Secca quindi la smentita, addirittura con una inedita «nota congiunta» tra Cgil e Palazzo Chigi. Via twitter la Cgil è stata molto più dura, parlando di «bassezza per boicottare il confronto», di «grave invenzione assolutamente infondata»; fino a ipotizzare un mezzo complotto mediatico per aumentare «le pressioni improprie» o addirittura «far saltare il confronto».
Sia come sia, Repubblica ha confermato la sua ricostruzione, attribuendola a «fonti certe». E per chi conosce la predilezione di lunga data della segreteria confederale per il quotidiano di Scalfari, non ci sono molti dubbi.

Di fatto, però, quello schema è ora «bruciato». Non sarebbe davvero possibile «firmare» un accordo su quelle basi. Il sito della Cgil è stato assaltato da militanti inferociti, con inviti a «fare gli origami con la tessera» e anche peggio. Il che rimette in alto mare una barca - «il confronto» - che sembrava ormai avviata sul «sentiero largo» descritto dal ministro del lavoro, Elsa Fornero, subito dopo una chiacchierata di ben tre ore con Camusso.

Lo sciopero generale della Fiom, a questo punto, potrebbe diventare una mobilitazione molto più ampia. Di tutta la Cgil? Sarebbe auspicabile. Altre categorie e camere del lavoro lo stanno chiedendo. Manca soltanto qualche passaggio: un Direttivo Nazionale. Meno «confermativo» del solito, magari.

sabato 11 febbraio 2012

Preparativi di guerra in Siria.

In Siria è in corso una guerra civile. Le potenze occidentali vogliono riportare il medioriente sotto il loro controllo imperialista. Per legittimare questa nuova guerra, è già partita una campagna mediatica in cui qualsiasi menzogna può essere detta.

Siria: guerra mediatica. Come si usano i neonati di Homs.
www.rifondazione.it


La tempesta mediatica imperversa sulla Siria. I cosiddetti Comitati di coordinamento locale (Lcc), appartenenti all’opposizione, hanno detto alla tivù del Qatar Al Jazeera che almeno 18 neonati sarebbero morti nelle incubatrici dell’ospedale pediatrico al Walid perché i colpi di artiglieria pesante dell’esercito siriano contro il centro di Homs avrebbero causato un black-out elettrico, togliendo l’alimentazione agli apparecchi. Il governo nega e sostiene che gli ospedali funzionano correttamente; anzi insieme a molte altre denunce circa atti di violenza e sabotaggio compiuti da gruppi armati, riferisce che l’ospedale al Naimi in provincia è stato preso di mira da gruppi armati che l’hanno saccheggiato.

La notizia sui 384 bambini uccisi in Siria era già stata diffusa dall’agenzia Reuters il 27 gennaio (leggi) ma – curiosamente - è esplosa sui massa media solo il 7 febbraio, cioè dodici giorni dopo, ovvero quando l’escalation politico-mediatica sulla Siria aveva trovato una doppia difficoltà con l’occultamento del rapporto degli Osservatori della Lega Araba che era venuto alla luce e con Russia e Cina che avevano posto il veto al Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione contro la Siria. Inoltre nel report ufficiale delle Nazioni Unite, la responsabile dell’Unicef Marixie Mercado riporta testualmente qual è la fonte delle sue informazioni e cioè che "secondo le organizzazioni siriane dei diritti umani oltre 400 bambini sono stati uccisi e altri 400 sono in custodia". Vedi.
Ma la notizia dei neonati di Homs ha avuto grande risonanza soprattutto in Italia. E’ lecito sollevare più di un dubbio. E non solo perché nemmeno i regimi più brutali avrebbero interesse a colpire neonati e ospedali (per la verità ad eccezione di Israele che gli ospedali palestinesi o libanesi li ha sempre colpiti e sempre ne è uscita impunita).
La fonte (gli Lcc) è di parte e non dà alcuna prova. Oltretutto, tutti gli ospedali hanno generatori; se c’è un black-out elettrico funzionano quelli. Succedeva perfino nell’Iraq e nella Libia sotto le bombe, dove l’elettricità andava a singhiozzo.
Poi l’accusa di tagliare la spina alle incubatrici ha più di un precedente e non solo in Siria. Sempre smentito. La scorsa estate i social network (twitter a partire dal 30 luglio) diffondono l’atroce notizia: tutti i bambini prematuri sono morti nelle incubatrici ad Hama perché gli shabiba (milizie di stato) hanno tagliato l’elettricità durante l’assalto alla città. Si parla di qaranta in un solo ospedale; senza precisare quanti sarebbero negli altri. Il 7 agosto la Cnn riferisce: l’Osservatorio siriano per i diritti umani di Londra (sempre quello) denuncia l’assassinio di otto bambini prematuri, “martiri” nell’ospedale al Hurani, sempre a causa dei black-out. Ovviamente nessuna notizia circa il lavoro dei generatori…. Una foto corredava la denuncia: un gruppo di neonati, arrossati, tutti insieme in un unico lettuccio. Dopo qualche tempo viene fuori che la foto era stata pubblicata mesi prima sul giornale egiziano al Badil al Jadid e si riferiva a un problema meno grave, ed egiziano: un ospedale sovraffollato di Alessandria. I bambini erano rossi e vivi, anche se in spazi ristretti.
Del resto, chi non ricorda l’altro falso, datato 1990? Gli invasori iracheni avevano rubato le incubatrici negli ospedali pediatrici, causando la morte di diversi bambini prematuri. Venne poi fuori che il tutto era stato orchestrato dall’ambasciata kuwaitiana negli Usa, che agiva sotto le mentite spoglie del Comitato “Citizens for a Free Kuwait” e con l’assistenza da parte dell’agenzia di public relations Hill & Knowlton - per la modica cifra di 1 milione di dollari.
Del resto anche l’ultima denuncia dell’Unicef riguardo alla Siria (400 fra i minori – in inglese children) è molto vaga quanto alle fonti; si riferisce a “media presenti a Homs” e a “rapporti” (all'Unicef internazionale abbiamo chiesto più dettagli, finora invano). Il non avere avuto riscontro ci fa supporre, e ovviamente sperare, che la notizia sia falsa. Ma la sua diffusione sarà utilizzata per convince tanti pacifisti della giustezza di un’azione di guerra che di vittime bambini ne vedrà ben più di 400.


venerdì 10 febbraio 2012

L'illusionista Monti dall'Imperatore Obama.

L'illusionista Monti
di Fabio Amato, Responsabile esteri PRC - www.rifondazione.it


Leggendo nelle pieghe dei commenti e delle  cronache trionfali della visita americana del Presidente del consiglio Monti, si possono cogliere, nonostante i toni enfatici, celebrativi e stucchevoli della stampa allineata al governo tecnico, in cui spicca Repubblica,  alcuni elementi di scetticismo che Obama non ha mancato di sottolineare a quello che viene celebrato come salvatore dell’Italia e dell’Europa.

Infatti c’è una domanda che fa Obama  semplice semplice, a cui il nostro Presidente del Consiglio non risponde. Come riuscirà, Mr Monti, a far coincidere rigore e crescita, visto che oramai anche le agenzie e gli analisti un tempo fan del neoliberismo sostengono che l’effetto recessivo di tali politiche non può che portare ad una recessione con conseguente peggioramento  del deficit e del debito?  Monti non risponde a questa domanda, perché la risposta la conoscono tutti. Obama in primis.
Ovvero che non è possibile portare alla crescita attraverso i tagli e le folli politiche di austerità che si stanno applicando in Italia e nel resto d’Europa.
A meno che il professore non abbia poteri magici in grado si sovvertire regole basilari della politica economica, infatti, il futuro che ci aspetta non è roseo come Repubblica vuole far credere.
Il rigore non porterà crescita ma solo recessione, le manovre di Monti e della compagnia europea ( BCE, commissione, Merkozy) salveranno le banche e i pescecani della speculazione, ma affosseranno il paese e , come è già più che evidente per la Grecia, faranno pagare ai ceti popolari i pesanti effetti di queste sciagurate politiche economiche.  Toglieranno diritti ai lavoratori, ai precari, agli studenti. Ma creeranno solo disoccupazione e ingiustizia sociale.
Mr Monti viene celebrato in realtà per tentare di usarlo come strumento di pressione nei confronti della Germania, per tentare di smuovere la Merkel dalle sue posizioni ultrarigoriste, giudicate eccessive persino da Washington. Tentativo finora risultato vano anche per Obama. E qui invece Monti il tedesco risponde e lo fa chiaramente. Inutile sperare che la Germania e la Merkel faranno politiche keynesiane di sostegno alla crescita. Le aperture di credito, le dichiarazioni trionfali su Monti diga per l’euro, servono a dissimulare il timore che questa diga costruita sul rigore crolli con l’inevitabile recessione economica che è l’unica certezza sugli effetti che avranno le manovre del governo.
Gli Stati Uniti però, possono comunque essere soddisfatti ed essere sicuri di una cosa. Ovvero che l'Italia è oggi allineata più che mai alla Nato e alla sua strategia nel Mediterraneo. Questo è il biglietto da visita con il quale si è presentato Monti.
Con questo governo, in caso di intervento armato alla Siria o all’Iran, continueremo ad essere, come e più di prima, la fedele portaerei della Nato nel Mediterraneo, complici  di sciagurate e nuove guerre, come nel caso della Libia.

domenica 5 febbraio 2012

4 febbraio 1992: inizia la rivoluzione Bolivariana!

In occasione dei 20 anni dal primo tentativo di insurrezione contro il governo liberista di Carlos Perez, pubblichiamo un ricordo sull'entrata di Chavez in politica e un'intervista al Ministro delle Finanze venezuelano sul socialismo del XXI secolo.

4 Febbraio 1992, Chavez in campo.
di Geraldina Colotti (Il Manifesto)


Il capo del Mbr-200, il movimento bolivariano con dentro giovani ufficiali nazionalisti, finì in carcere. Ma fu l'inizio di un percorso politico democratico e (finora) inarrestabile: il «socialismo del XX secolo»
In una piazza Caracas recentemente restaurata, uno schermo gigante rievoca i momenti principali dell'insorgenza militare che, il 4 febbraio del 1992, vide affacciarsi sulla scena politica il volto del tenente colonnello Hugo Chavez Frias. A capo di un movimento clandestino, politico e ideologico, denominato Mbr-200, il giovane ufficiale tentò di rovesciare il governo di Carlos Andres Perez con un'operazione denominata Ezequiel Zamora. Per parecchie ore, i suoi mantennero il controllo in diverse città del paese: Valencia, Maracaibo, Barquisimeto e Maracay.

Tutto comincia a Caracas. L'allora presidente, giunto il giorno prima nella capitale dopo un lungo viaggio in Svizzera, viene informato dal ministro della difesa circa l'esistenza di un possibile colpo di stato. Quando arriva a Miraflores, un tank irrompe nel palazzo presidenziale travolgendo la scorta. In pochi minuti, Perez è costretto a fuggire. Dagli studi del canale televisivo Venevision, il presidente informa i cittadini di quanto sta accadendo, mentre gli insorti dirigono le operazioni dal Museo storico militare di La Planicie e dalla base aerea Generalissimo Francisco de Miranda nella Carlota.

Dopo poche ore, il governo nazionale riprende il controllo del paese e il presidente Pérez ritorna a Miraflores. Un'ora dopo torna in tv per informare dell'esito il paese. Il tenente colonnello Chavez depone le armi e viene arrestato dai militari fedeli al governo insieme ai suoi ufficiali. Anche il tenente colonnello Arias Cardenas, attualmente deputato all'Assemblea nazionale per lo stato di Zulia, che guidava l'azione a Maracaibo, depone le armi. Prima di andare in carcere, Chavez appare in televisione e si assume la responsabilità dell'accaduto: «L'insurrezione è fallita, per ora». E con quel profetico «por ahora» entrerà nella storia politica venezuelana. «In un paese poco abituato all'assunzione di responsabilità da parte dei politici, quel comportamento rimase impresso - dice oggi al manifesto il professor Andres Bansart, intellettuale di lungo corso della politica venezuelana -. Dopo, mentre Chavez era in carcere, il movimento Mbr-200 ingrossò le sue fila. Ricordo che allora, durante il carnevale, le mamme vestivano i bambini con la divisa di Chavez». Da ieri, in tutto il Venezuela si festeggia quel 4 febbraio.

Nella biblioteca nazionale della capitale, una mostra (una parte della quale è dedicata ai bambini) ne ricorda le tappe e il secondo tentativo che prese forma il 27 novembre di quell'anno. Una rivolta contro l'agonizzante patto di Punto Fijo - il sistema di alternanza fra i due principali partiti, Accion Democratica (centrosinistra) e Copei (centrodestra) che escludeva dal potere il Partito comunista - siglato dopo la fine della dittatura militare di Perez Jimenez (1958). Già il 27 febbraio 1989, la rivolta popolare denominata il «Caracazo» aveva detto la sua contro le misure neoliberiste di Carlos Andrés Pérez, appena rieletto con grande maggioranza.

Durante i due mandati del socialdemocratico Pérez, i piani di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo monetario internazionale avevano ridotto in miseria circa l'80% della popolazione. Da allora, intorno a Chavez si coagulò un vasto arco di forze in cerca di alternativa: comunisti, ex guerriglieri, movimenti di resistenza contadina e scuole occupate, e soprattutto ufficiali democratici che avevano condiviso con Chavez il «giuramento di Bolivar»: in memoria del Libertador e del suo sogno di indipendenza per l'America latina che intendevano riprendere. Chavez, liberato nel 1994, verrà eletto presidente del Venezuela nel 1998.

Ora, dal teatro Catia in Piazza Sucre, nella capitale, il presidente - con gli occhiali, ma con i capelli di nuovo folti dopo il cancro che lo ha colpito alla prostata l'estate scorsa - torna a parlare al paese: «Siamo un popolo formidabile», dice al mare di camicie rosse che gli pone domande sul prosieguo del «proceso bolivariano». Intanto, nei quartieri come la Candelaria, i deputati di opposizione volantinano per le loro primarie nelle feste religiose, fra incensi e santini del santo patrono. Il 7 ottobre ci saranno le presidenziali.

Jorge Giordani:"Gli USA non possono permettere il nostro modello alternativo".

Intervista a Jorge Giordani , ministro delle finanze del Venezuela e “gramsciano”
Jorge Giordani, ministro della pianificazione e della finanza (foto), è unanimemente considerato l’autorità più importante del governo venezuelano dopo il presidente Chavez. Ci riceve nel suo studio al ministero, tra un quadro del «comandante» e uno di Bolivar, tra un ritratto seppiato di Lenin e una pila di grafici, formule e proiezioni a cui attinge a ogni nostra domanda. Economista, scrittore e saggista, studioso di Gramsci, ha scritto numerosi libri e costruito l’ossatura della politica economica bolivariana. Buon conoscitore dell’Italia, ricorda volentieri il periodo di studi a Bologna e l’impegno politico del padre italiano. «Mio padre – racconta – fu membro della Brigata Garibaldi, nella guerra civile spagnola perse una gamba combattendo contro i fascisti. Mio fratello nacque in Spagna, quando Franco prese Barcellona e i miei scapparono, un soldato lo mise sotto la camicia per fargli passare il confine con l’Italia, dove mio padre partecipò alla resistenza. Durante l’avanzata di Hitler, che stava chiudendo l’Europa, fuggirono di nuovo. Non potevano andare né in Argentina, né in Messico, perché le due frontiere erano chiuse. Così finirono a Santo Domingo, dove sono nato io. Con l’arrivo del dittatore Trujillo, la cui specialità era gettare gli oppositori in pasto ai pescecani, siamo venuti in Venezuela. Nel ’59 noi studenti accogliemmo Fidel che aveva vinto con la rivoluzione cubana e che portava con sé un vento di liberazione. Insieme al capitano Jimenez Moya, che aveva combattuto nella Sierra con lui, organizzammo un’invasione a Santo Domingo partendo da Cuba. L’evasione fallì e così io, che facevo parte del secondo gruppo, non partecipai. Avevo 18 anni. Subito dopo, lasciai una lettera a mio padre e partii per l’Italia con un passaporto falso su cui era scritto “apatride”». Dalle strade di Caracas arrivano gli echi degli imminenti festeggiamenti per il 4 febbraio, che ricorda la ribellione armata dell’allora tenente colonnello Hugo Chavez al governo del socialdemocratico Carlos Andres Perez, nel 1992.
Come ha conosciuto il comandante Chavez? 


Il 26 marzo ’93 insegnavo all’università. Insieme a un gruppo di persone preoccupate per l’avvenire del paese dopo la rivolta dell’89, il Caracazo, discutevamo sul da farsi e stilammo una proposta. Qualcuno di noi aveva già conosciuto Chavez, che era in prigione dal 4 febbraio dell’anno prima dopo il fallimento dell’operazione Ezequiel Zamora. Chavez ci invitò a discutere. Lo andammo a trovare in carcere. Prima di uscire, lui mi disse che aveva letto alcuni miei libri e che mi stava cercando da tempo. Io risposi: meno male che non mi ha trovato, altrimenti sarei anch’io dietro le sbarre… Dottore in scienze politiche, l’allora tenente colonnello stava per finire il suo corso post-laurea all’università Simon Bolivar. Mi chiese se volevo seguirlo nella tesi. Accettai, e quello fu il mio secondo sbaglio, dopo quello di andarlo a trovare. E da lì, una catena di “sbagli” intenzionali: quando l’anno dopo uscì di prigione, lavorai con lui. Mi propose di coordinare il programma di governo che lo porterà a vincere le elezioni, nel ’98, a cui abbiamo lavorato insieme al professor Hector Navarro.

Come si è costruita la politica economica bolivariana? 


Il primo documento, a cui abbiamo lavorato insieme al comandante, è stato pubblicato nel luglio 96. S’intitolava “Un’alternativa bolivariana”. Poi è venuto il primo programma di governo per le elezioni, vinte nel dicembre del ’98 e che hanno portato Chavez alla presidenza il 2 febbraio del 99. Sono già 13 anni… Allora ereditammo una situazione economica disastrosa, non avevamo neanche i soldi per il bilancio. Guarda questo grafico. Guarda lo sviluppo che abbiamo realizzato sul piano economico, politico, internazionale. Nonostante il golpe del 2002, il sabotaggio petrolifero e gli effetti della crisi internazionale, per 22 trimestri successivi la crescita dell’economia venezuelana è stata continua. Nei prossimi 6-7 anni prevediamo una crescita tra il 5 e il 6%. Nel 2000 abbiamo presentato un’altra proposta, con la quale Chavez ha rivinto le elezioni. Dopo un primo piano socialista per il 2001-2007, c’è stata una seconda proposta che ha programmato la politica economica fino al 2011. In questa settimana sarà resa pubblico il piano 2013-2019. I punti fondamentali sono sette: una nuova etica socialista, la felicità sociale (un concetto che ci viene da Bolivar), la democrazia «protagonica» rivoluzionaria che è un portato della nostra costituzione, la costruzione di un modello produttivo socialista, una nuova geopolitica nazionale, la consapevolezza di essere una potenza energetica a livello mondiale e una nuova geopolitica internazionale.
Quali sono i motori del “proceso bolivariano”?


Per prima cosa il petrolio, il nostro continua a essere un paese rentier. Per quest’anno, si prevede una forte rendita del petrolio, anche con una tecnologia al 20% com’è la nostra. In secondo luogo, la costruzione di case che – oltre alla soddisfazione di avere un tetto sulla testa – ha consentito una crescita del 10%. Il terzo punto, e per noi il più importante, è la crescita qualitativa in termini di investimento totale sulla salute, l’educazione, la casa. Il totale dell’investimento sociale nei dieci anni precedenti il governo Chavez era di circa il 37%, il nostro è il 62%. Questo si riflette nella realizzazione dei cosiddetti obbiettivi per il millennio, in primo luogo la diminuzione della povertà estrema e nell’indice di Gini, che misura le disuguaglianze sociali: il Venezuela è il paese dell’America latina in cui la distribuzione del reddito è la meno diseguale. Lo zoccolo di povertà estrema, al 7%, è comunque difficile da intaccare, per questo sono state recentemente create altre grandi missioni sociali, come Amor mayor, rivolta a fornire assistenza pensionistica a tutti gli anziani, anche a quelli a cui non erano stati versati i contributi, e corrispondente al salario minimo. Per favorire tutto questo, dopo la crisi finanziaria del 2009, abbiamo varato nuove leggi per il mercato della valuta, dell’assicurazione, della banca, una riforma finanziaria per consentire al flusso di valuta esterna di essere reinvestito nell’infrastruttura e nei progetti sociali. Abbiamo riconvertito una banca privata in un fondo per lo sviluppo. Aprendo un credito speciale con la Cina, in gran parte pagato, abbiamo incrementato lo sviluppo industriale, le infrastrutture, foraggiato il settore privato che non ripaga in termini di investimento e produttività. Se l’opposizione tornasse al potere, tutto questo verrebbe spazzato via. Gli Usa non possono permettersi di vederci crescere con un modello alternativo. Oggi abbiamo finito di riportare in patria tutto il nostro oro. Questo forma la nostra base sociale, i fondamenti della nostra società e ci permette di pensare a un secondo gradino, allo sviluppo delle infrastrutture, alla modernizzazione del paese, allo sviluppo della sovranità e dell’indipendenza nazionale e continentale. Sabato (oggi per chi legge, ndr) si inaugura il vertice dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America
Un paese con un tasso di inflazione altissimo. 


Anche l’inflazione è un fatto strutturale, dipende da molti fattori. Noi la definiamo inerziale, nel senso che è un portato degli anni precedenti in cui nessun governo – dagli anni ’80 a oggi – ha potuto fare niente. Guarda questo grafico, che fotografa bene la situazione in termini di tendenze economiche nell’arco di sessant’anni. All’inizio degli anni ’80 s’è prodotto un punto di frattura determinante per via della partenza dal paese dei grandi capitali finanziari, che non è iniziata con il governo Chavez. Questi capitali non torneranno più, si sono integrati a quelli internazionali. E’ quello che possiamo definire il collasso del capitalismo rentier, uno smottamento sismico che ha ridotto l’investimento del settore privato, la rendita petrolifera ne ha subito gli effetti. Noi abbiamo subito gli effetti del “venerdì nero” venezuelano, dell’economia neoliberista nelle due decadi perdute degli anni ’80-90. Eppure negli ultimi 22 mesi, la nostra economia ha continuato a crescere. Mentre il capitalismo licenzia e taglia le pensioni, dagli Stati uniti all’Europa, noi abbiamo anteposto gli interessi dell’essere umano a quelli del profitto. E non torniamo indietro. Malgrado lo sforzo del governo per sviluppare le nostre vaste aree agricole, purtroppo non siamo ancora autonomi nel settore alimentare, sono 40 gli alimenti che producono l’inflazione a livello nazionale. Da noi si dice “sembrar petrolio”: si è preferito comprare all’estero e spostarsi nelle città piuttosto che rendere produttive le campagne. Ora cerchiamo di invertire la tendenza, anche sviluppando un’economia, tendenzialmente alternativa al petrolio, che favorisca la produzione di beni intermedi.
Che cos’è il socialismo bolivariano che tanto spaventa i poteri forti internazionali? 


Un sistema misto. Nel nostro ultimo piano abbiamo previsto uno spazio per l’economia privata: per quella produttiva, non speculativa. Da noi il settore privato è un settore parassitario, che negli ultimi trent’anni ha mantenuto un livello produttivo che non supera il 10%. Per questa fase di transizione al socialismo, vorremmo mantenere un certo equilibrio fra l’investimento privato – nella piccola e media impresa e nelle cooperative -, la proprietà di stato e quella comunale. Vorremmo che quest’ultima, in tendenza, crescesse fino a ridurre e sostituire le altre due. Nel frattempo, cerchiamo di favorire un’alleanza virtuosa fra lo stato e i piccoli imprenditori che intendono investire nel paese. In una prospettiva gramsciana.


venerdì 3 febbraio 2012

Precarietà: Monti parla come un Berlusconi austero.

di Giorgio Cremaschi
Presidente del Comitato Centrale della FIOM

Se l’avesse detto Berlusconi! Se il vecchio Presidente del Consiglio o magari Brunetta avessero vantato la bellezza della precarietà, si sarebbe scatenato lo scandalo, giustamente. Invece Monti ha parlato, non a caso in una rete berlusconiana, con la stessa arroganza, con la stessa ottusità sociale di un salotto di Cortina, e per questo viene considerato uno statista coraggioso.
Naturalmente una responsabilità non piccola di questo ce l’ha il sistema informativo, quel giornale e quel telegiornale unici che da quando è andato al governo il professore della Bocconi ci forniscono solo la versione ufficiale del palazzo.
Ma resta il fatto che le frasi di Monti sono comunque rivelatrici del degrado sociale e culturale del paese. Nessun capo di governo di paese occidentale potrebbe parlare così in un momento di crisi drammatica e di disoccupazione di massa come questo. Se lo fa quello italiano è perché pensa di poterselo permettere.
Certo queste frasi dimostrano che Monti e il suo governo sono in larga parte persone sopravvalutate, com’è sopravvalutata la Bocconi e com’è sopravvalutato un certo mondo culturale e intellettuale che non è mai stato in grado di spiegare davvero nulla del nostro paese e della sua crisi. Ma resta il fatto che frasi di questo genere sono un segno politico chiaro. Se dopo averle dette Monti è ancora lì al suo posto a salvare l’Italia, vuol dire che il degrado dell’epoca di Berlusconi sta ancora continuando.
Monti è un Berlusconi sobrio e casto, ma è anche il continuatore radicale ed estremo dell’ideologia e della cultura politica del padrone di Mediaset. La crisi vera dell’Italia sta tutta qui: nel fatto che il Presidente del Consiglio possa fare affermazioni di destra liberista estrema, a cui peraltro paiono corrispondere le reali intenzioni del governo, e che tutto questo sia presentato e gestito in un regime di unità nazionale.
Questo è l’aspetto devastante per la nostra democrazia, di cui ha gravissime responsabilità anche il Presidente della Repubblica. Che un capo di governo, espressione degli interessi delle banche e della grande finanza, parli con arroganza del lavoro, e che di fronte a tutto questo ci siano balbettii in quella che era una volta la sinistra e nel movimento sindacale, questo ci fa dire che il regime Monti è un regime più dannoso per la nostra democrazia di quello berlusconiano.
Contro Berlusconi qualche difesa in questi vent’anni si era costruita. Contro Monti la democrazia, i diritti sociali, il pensiero critico, sembrano andare tranquillamente al macello. Per questo dobbiamo solo augurarci che Monti fallisca, e magari fare qualcosa perché ciò succeda. Solo la sconfitta politica e sociale di questo governo può davvero chiudere l’era berlusconiana.

mercoledì 1 febbraio 2012

Campagna contro la doppia tassazione sull'IVA



APPELLO AL GOVERNO E AL PARLAMENTO
Per cancellare la doppia tassazione dell’IVA su le altre tasse
Noi sottoscritti, riteniamo illegale”gonfiare” il gettito fiscale,applicando il prelievo IVA non solo sul costo netto di servizi e prodotti ma anche su altre imposte.In alcuni tipi di servizi o prodotti,infatti, l’IVA viene calcolata anche su altre imposte,tasse,accise.Il che porta a pagare una tassa su di un’altra tassa:una doppia tassazione,una truffa. Nel caso della benzina,per altro,la maggiorazione delle tasse produce inflazione e ulteriore erosione di salari e pensioni.
Le sezioni unite della Corte di Cassazione si sono già espresse,con sentenza n.3671 del 29/04/97, sul principio per cui la tassazione non può applicarsi su altre tasse. COSI’ E’ IN EUROPA.
Ciò appare particolarmente inaccettabile stante la situazione di crisi economica che colpisce duramente anche il nostro paese, e che rende sempre più difficile arrivare alla fine del mese.
In questo quadro,gli aumenti delle tariffe,delle bollette,dei prezzi incidono pesantemente sui bilanci delle famiglie. A fronte di ciò c’è la tollerata scandalosa entità dell’evasione fiscale e la mancanza di un’adeguata tassazione della ricchezza così come è previsto dalla Costituzione.
Per questo, facciamo appello al governo,al parlamento,ai Sindaci affinchè,ognuno per la propria competenza,emanino con urgenza provvedimenti che vietino questa pratica illegale,riportando,in questo modo,a correttezza il rapporto Stato/contribuente.

Per firmare l'appello rivolgersi ai banchetti del PRC oppure all'indirizzio e-mail prclombardia@gmail.com

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