martedì 31 gennaio 2012

Il nostro volantino per la manifestazione del 18 febbraio

ATTENZIONE: a causa del maltempo la manifestazione è stata rinviato al 18 febbraio
Per scaricare il PDF in bianco e nero clicca qui.



Perchè scenderemo in piazza l'11 febbraio.

Pubblichiamo l'intervento del Segretario Generale della FIOM Maurizio Landini sulla manifestazione Nazionale dell'11 Febbraio. Per partecipare alla manifestazione potete contattarci via mail gcsondrio@gmail.com o via facebook www.facebook.com/gcsondrio

Perchè scenderemo in piazza l'11 Febbraio
di Maurizio Landini.

La crisi economica e finanziaria che ha sconvolto le società occidentali sta presentando un conto pesantissimo per le lavoratrici, i lavoratori e i giovani nel nostro paese. Il bilancio drammatico dei suicidi dati dalla disperazione per la mancanza di speranza sul futuro dovrebbero allarmare chi nel corso degli ultimi due anni ha inforcato gli occhiali dell'eccezionalità che, con qualche azione tecnica, avrebbe nel giro di poco riattivato la crescita o se non altro almeno attenuato gli effetti del calo produttivo e dei consumi.
Il nuovo anno invece si è aperto con novità che non fanno ben sperare: le migliaia di esuberi dichiarati da Fincantieri, la mancanza di un piano industriale per la Fiat, la chiusura di uno stabilimento dell'Alcoa con cinquecento occupati a cui bisogna aggiungere l'indotto, solo per citare alcuni casi eclatanti.
Inoltre, moltissime aziende hanno esaurito o stanno esaurendo gli ammortizzatori sociali con conseguenze di proporzioni ad oggi non quantificabili sull'occupazione. Il 2012 rischia di essere un anno nel segno dei licenziamenti. La crisi sta presentando un conto sociale pesante: chi un lavoro ce l'ha rischia di vederselo tolto e chi non lo ha, ha poche possibilità per trovarlo. Per anni ci è stato spiegato che il mercato avrebbe perseguito il bene comune, come la «Dea bendata» della giustizia avrebbe di per sé ribilanciato i piatti della distribuzione del profitto, invece il 10 per cento del paese detiene quasi il 50 per cento delle ricchezze. Quello che stupisce è che questo non desti nessuno scandalo, anzi. L'opera di rimozione delle cause della crisi rende la crisi stessa un fenomeno straordinario ma naturale come uno tsunami che arriva imprevedibile, devasta e lascia dietro di sé macerie senza alcuna possibilità di intervenire per eliminare le cause che lo hanno scatenato. Forse l'unico sentimento che si riesce a provare per chi un lavoro lo perde o non riesce a trovarlo è un po di compassione proprio come verso le persone che hanno subito una calamità. Non può essere questa la lettura, perché così si è passati dall'incertezza del futuro alla paura del domani.
Pensate a chi in una ristrutturazione aziendale avendo la possibilità di accedere alla mobilità volontaria incentivata si è fatto due conti e con la copertura degli ammortizzatori sociali si sarebbe agganciato alla pensione e poi si è trovato con l'allungamento dell'età pensionabile. Pensate a un ragazzo che dopo anni di precariato rischia di trovarsi con la cancellazione dell'articolo 18, oppure a un migrante che oltre a pagare come tutti i tagli alla spesa sociale si vede aumentare la tassa di soggiorno in un clima crescente di intolleranza xenofoba e di violenza. Questi elementi sono o non sono costi della crisi? E in quale bilancio si iscrivono se l'unico parametro è lo spread che comunque continua ad essere alto per via delle speculazioni finanziarie. È l'ineluttabilità degli eventi o invece si possono mettere in moto politiche che ridiano una spinta all'economia reale senza che si barattino per questa via i diritti?
Quando da soli gli operai della Fiat di Pomigliano spiegavano che quello che lì stava accadendo non era l'eccezione ma la riscrittura delle regole la reazione è stata «sono quelli estremisti della Fiom Cgil». Oggi che il «modello Marchionne» si è esteso a tutti gli ottantamila lavoratori Fiat e contamina tutto il sistema delle relazioni industriali del nostro paese nessuno ne assume la gravità. Il silenzio assordante che ai primi di gennaio ha avvolto la cacciata delle Rsu della Fiom dagli stabilimenti Fiat dice dell'incapacità ancora oggi di capire quello che sta accadendo.
È diventato normale che le imprese possano scegliersi il sindacato? No, chiedo? È normale che si chiuda l'Irisbus e che l'Italia subisca un procedimento di infrazione dall'Europa perché non ha una mobilità sostenibile? E ancora, è normale che i lavoratori iscritti alla Fiom Cgil non siano reintegrati al lavoro alla Fiat di Pomigliano? È normale che di fatto, nel caso ci fossero nuovi assunti in Fiat, abbiano un salario inferiore ai vecchi assunti? Questi sono problemi della Fiom Cgil o del governo e più in generale del paese? Aggiungo che l'uso spropositato dell'istituto del lavoro straordinario, la riduzione delle pause, la totale flessibilità dell'orario di lavoro impediscono nuova occupazione e riducono la vita delle persone che lavorano a un mero fattore competitivo su cui si scarica l'incapacità di innovazione e programmazione.
Noi non accettiamo lo scambio diritti-lavoro. Anche perché non è più lavoro quello che viene offerto, e inoltre per essere precisi nel «caso Fiat» non c'è neanche il lavoro visto che sono stati chiusi Termini Imerese e Avellino. Il «famoso» piano industriale non lo conosce nessuno e tutte le notizie che rimbalzano dai giornali americani ci dicono che il centro si sta spostando negli Stati Uniti. Dove va il paese e dove va l'Europa se il lavoro è un oggetto e non persone? La tendenza aperta dalla Fiat e che si sta facendo strada anche in altri settori è che si possono fare profitti senza che ci siano ricadute positive sociali, altro che la redistribuzione. Ma addirittura con la divisione globale del lavoro assistiamo al fatto che non è assolutamente conseguente alla crescita della capacità produttiva l'aumento dell'occupazione e dei diritti.
L'obiettivo che le controparti stanno perseguendo è molto chiaro: o il sindacato diventa complice oppure è fuori. In questo, voglio essere chiaro, la Fiom Cgil è oggetto di un attacco violentissimo per la sola ragione che non è diventato un sindacato di comodo. Noi rifiutiamo l'idea che il compito del sindacato è firmare testi che scrivono altri e poi convincere i lavoratori che non c'era null'altro da fare. Ed è per questa ragione che l'antidoto alla completa subalternità dei lavoratori è la democrazia. Una testa un voto. Liberi di poter decidere, non la Fiom Cgil ma i lavoratori che quelle condizioni di lavoro affrontano ogni giorno nella loro postazione.
È per questa ragione che abbiamo fatto nostra la scelta dei lavoratori della Fiat di raccogliere le firme per indire un referendum abrogativo che bocci il testo sottoscritto dalle altre organizzazioni sindacali. Chi vuole la Fiom Cgil fuori dagli stabilimenti deve sapere che metteremo in moto tutta le nostre forze sindacali e legali per riconquistare il diritto costituzionale dei lavoratori a potersi organizzare e a poter decidere. Sappiamo che non è semplice, anzi. Sappiamo che dopo la scelta della Federmeccanica di raggiungere l'ennesimo accordo separato che recepisce la possibilità di poter derogare al contratto nazionale e, con l'articolo 8 del decreto del governo Berlusconi, di poter addirittura derogare alle leggi, la strada da percorrere è difficile e non riguarda solo i metalmeccanici.
Per uscire dal ricatto abbiamo bisogno di un movimento più ampio che offra un nuovo punto di vista generale. Ed è proprio per proporre un punto di vista generale che da tempo discutiamo fuori e dentro la Fiom Cgil di come affrontare il problema dell'inoccupazione, della precarietà e della condizione degli studenti, che abbiamo deciso di introdurre il reddito di cittadinanza insieme all'estensione dell'articolo 18 come uno dei punti qualificanti della nostra piattaforma con cui scenderemo in piazza l'11 di febbraio. Una piattaforma che chiede il sostegno di chi con noi vuole fare del lavoro, dell'ambiente, della formazione, del welfare e della legalità un bene comune.
La manifestazione che attraverserà le strade di Roma è il tentativo di non lasciare solo nessuno, perché la crisi innanzitutto produce disperazione e solitudine. Senza le manifestazioni pacifiche e democratiche c'è l'imbarbarimento. Ne sono un esempio gli omicidi dei migranti negli ultimi mesi. Pensiamo che possa esserci una grande manifestazione di massa a Roma, in cui i metalmeccanici sfileranno insieme a chi pretende di avere un futuro che non può fare a meno dei diritti e della democrazia.

domenica 29 gennaio 2012

Beni comuni: buone notizie da Napoli

A Napoli si è svolta l'assemblea dei Comuni per i Beni Comuni. Proponiamo il riassunto di Raffaele Tecce  (Responsabile Enti Locali di Rifondazione), l'articolo del Manifesto e l'intervento di Ferrero.

BUONE NOTIZIE DA NAPOLI
di Raffaele Tecce.

Si è svolto ieri a Napoli il Forum dei Comuni per i Beni Comuni indetto dalla Amministrazione Comunale partenopea guidata dal Sindaco de Magistris con la partecipazione di circa 1500 aderenti dei quali un migliaio di amministratori comunali, provinciali e regionali provenienti da tutta Italia . Al centro della riflessione, introdotta dall' assessore napoletano ai beni comuni Alberto Lucarelli, la proposta di costruire una "rete dei comuni per i beni comuni" capace di definire proposte e conflitto in particolare su due obiettivi: 1) contrastare le norme anticostituzionali del decreto di Berlusconi di ferragosto, accentuate nel decreto Monti sulle liberalizzazioni ,tese a obbligare i Comuni a tappe forzate alla privatizzazione di tutti i servizi pubblici locali e del patrimonio pubblico, in contrasto, al di la della apparente esclusione da queste norme del servizio idrico integrato ,con lo spirito e la lettera del quesito referendario su cui si sono pronunciati 27 milioni di elettori. 2) un "patto dei comuni contro il patto di stabilità ", figlio della politica liberista europea sintetizzata dai parametri di Mastricht, lesivo di ogni autonomia di Comuni intesi come enti di prossimità più vicini ai bisogni dei cittadini. Senza rompere la gabbia d'acciaio del patto i Comuni non potranno più garantire diritti e servizi costituzionalmente garantiti ai cittadini (dal welfare, alla casa, alla scuola, ai trasporti ecc.) violando le norme che garantiscono a tutti i cittadini livelli essenziali di prestazioni e sarà impossibile ogni intervento pubblico mirato allo sviluppo a tutela dei soggetti più colpiti dalla crisi. E' in questo quadro essenziale - è stato ribadito in molti interventi - impegnarsi nella battaglia contro l'inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione , contrastando il tentativo avviato in Parlamento di modifica dell' l'art. 81: tale modifica costituzionale, infatti, impedirebbe ogni intervento pubblico in economia.
Per raggiungere questi obiettivi è necessario intrecciare fortemente democrazia locale con democrazia partecipativa - è stato ribadito in moltissimi interventi - costruendo come rete dei Comuni un conflitto ed una vertenza col Governo fino a forme di disobbedienza civile impegnando, ad esempio, i Comuni stessi, se non ci saranno modifiche legislative, ad una azione coordinata e consapevole di non applicazione del patto di stabilità: è infatti lesivo di ogni autonomia finanziaria non poter spendere, a causa degli astrusi parametri del patto, risorse disponibili ritardando pagamenti a fornitori, piccole imprese e cooperative sociali, determinando ulteriori effetti recessivi sul tessuto economico locale già colpito dalla crisi e non politiche espansive.
Il Forum si è articolato, dopo la seduta introduttiva plenaria tenutasi al Teatro Politeama, in 4 tavoli di lavoro (Economia del territorio e bilanci degli EELL; Beni Comuni, partecipazione e servizi pubblici; Politiche del welfare,diritti dei migranti e del lavoro; Ambiente e nuovi modelli urbani) tenutisi al Maschio Angioino con la presenza di tutti i partecipanti e nei quali hanno preso la parola, complessivamente, circa 200 soggetti istituzionali ed associativi.
Al Forum sono stati presenti e sono intervenuti moltissime compagne e moltissimi compagni del PRC a partire dal segretario Paolo Ferrero e dal portavoce della FDS Massimo Rossi che, come consigliere provinciale e storico animatore delle battaglie per il bilancio partecipativo e per l'acqua pubblica,ha svolto una delle relazione nel tavolo sui servizi pubblici locali.
Nelle conclusioni si è deciso di render permanente la" rete dei comuni per i beni comuni" e di prevedere continuità a questa esperienza dandosi appuntamenti trimestrali per portare avanti i punti programmatici definiti, che saranno sintetizzati in una "carta".
La tavola rotonda finale con i Sindaci Emiliano e Zedda,con il presidente della Puglia Vendola, con l' operaio FIOM della FIAT di Pomigliano Di Luca, miliante del PRC - che ha sottolineato la inscindibilità della battaglia per i diritti dei lavoratori con quella per i beni comuni - è stata conclusa dal Sindaco di Napoli Luigi de Magistris che, dopo aver ringraziato tutti i partecipanti per aver raccolto l'invito di venire a confrontarsi a partire dal "laboratorio Napoli", ha aperto una riflessione su come valorizzare la partecipazione dei cittadini alla azione amministrativa locale anche al fine di costruire un alternativa a livello nazionale.

La FIOM resiste anche fuori dai cancelli.

All’Iveco (Fiat) assemblea «clandestina» e sciopero della Fiom. Landini: «Vogliamo il referendum per abrogare l’accordo che impedisce le libertà sindacali, la politica non taccia di fronte a chi vìola la Costituzione»


Non sembra un bello spettacolo. Però poi scoppia l’applauso e ci si abbraccia e alla fine ci scappa pure la foto ricordo. Gli operai dietro la sbarra che separa la fabbrica dal mondo libero, ma con il cuore che si scalda per una semplice assemblea che oggi ha il sapore delle cose proibite, come accadeva nell’autunno caldo, quando le fabbriche erano off-limits per il sindacato e la democrazia – era il 1969 e con il megafono in mano c’era Bruno Trentin, ma questa è un’altra storia. Eppure anche oggi i dirigenti e sindacalisti della Fiom restano fuori dalle fabbriche, con il microfono in mano per farsi ascoltare da tutti. Commossi e adrenalinici di fronte a centinaia di lavoratori radunati su un piazzale perché non riconoscono l’accordo separato imposto dalla «madre» di tutte le aziende. 
Adesso si fanno così le assemblee nelle fabbriche del gruppo Fiat dove viene applicato il «contratto Marchionne», quello che oltre a stracciare il contratto nazionale di fatto impedisce ai lavoratori di eleggere i propri rappresentanti sindacali all’interno degli stabilimenti. E quindi di tenere assemblee. Per questo ieri mattina, con replica nel pomeriggio, il segretario nazionale della Fiom Maurizio Landini dietro la sbarra dell’Iveco di Brescia ha vissuto una situazione che definisce kafkiana ma anche «molto molto emozionante». E per qualche minuto si è messo anche davanti alla sbarra, una scavalcata «illegale», un atto di insubordinazione non solo simbolica compiuto insieme ai delegati della Fiom bresciana. 
La Om Iveco, la più importante azienda bresciana con 2.800 dipendenti, aveva risposto picche alla Fiom che aveva chiesto di poter tenere un’assemblea. Non solo l’assemblea si è fatta, in un clima di straordinaria determinazione sottolineato da applausi liberatori, ma gli operai hanno anche partecipato in massa allo sciopero di due ore indetto dalla stessa Fiom: oltre il 60% ha incrociato le braccia. «La Fiom esiste», dice Landini, con la voce che tradisce l’emozione per un’assemblea particolare, diversa da tutte le altre. 
«Ci troviamo di fronte a un’azienda – spiega Landini – che vìola palesemente i diritti costituzionali, la democrazia non esiste più una volta varcati i cancelli della Fiat. Eppure i lavoratori ieri hanno dimostrato che non hanno nessuna intenzione di accettare quell’intesa contro cui hanno già raccolto 20 mila firme per indire subito un referendum abrogativo sul contratto. Hanno partecipato quattrocento persone e ha scioperato più della metà degli operai nonostante la pressione dei capi secondo cui questo sciopero non si poteva fare. Noi andremo avanti». 
E con un programma che non guarda solo in casa Fiat, «che comunque abbiamo intenzione di portare in tribunale». La Fiom, in vista della manifestazione dell’11 febbraio a Roma, vuole lanciare più di un messaggio al governo Monti; e anche ai partiti che all’epoca dell’accordo capestro di Pomigliano non perdevano una battuta per invitare gli operai a pronunciarsi in favore di Marchionne. «Abbiamo raccolto 20 mila firme contro quell’accordo – rilancia Landini – e oggi nessuno apre bocca, non si sente una parola, per questo chiediamo al governo, al presidente della Repubblica e alle forze politiche di pronunciarsi, di dire qualcosa perché ai danni dei lavoratori è stata vìolata la Costituzione. Inoltre, non siamo affatto convinti che sia chiusa la partita delle pensioni e crediamo che la Cig non solo non vada cancellata ma vada addirittura estesa, insieme all’introduzione del reddito di cittadinanza». Detta in una parola, parafrasando il «titolo» della prossima manifestazione nazionale, la Fiom chiede «Democrazia al lavoro».

sabato 21 gennaio 2012

Monti fa marcia indietro sull'acqua!

Riceviamo il comunicato del Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua e lo pubblichiamo con gioia!
La mobilitazione paga: il popolo dell'acqua ha costretto il Governo a ritirare il provvedimento che vietava la gestione del servizio idrico attraverso enti di diritto pubblico, quali le aziende speciali.
È una vittoria dei cittadini e dei comitati che in tutto il paese hanno fatto sentire forte la loro voce in difesa del voto referendario.
Rimane ampiamente negativo il giudizio del Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua sul decreto liberalizzazioni che, a dispregio voto del giugno scorso, peggiora le già pessime misure del precedente Governo sulla privatizzazione degli altri servizi pubblici locali.
La mobilitazione del popolo dell'acqua continua per la piena attuazione del risultato referendario: avanti tutta con la ripubblicizzazione del servizio idrico e la campagna di obbedienza civile per una tariffa corretta e coerente coi referendum. Si scrive acqua, si legge democrazia.
Roma, 20 gennaio 2012

martedì 17 gennaio 2012

Pensare come Lenin.

#Occupy Lenin
di Francesco Piobbichi.


 I depositi di liquidità a un giorno, fatti dalle banche allo sportello della Bce, sono volati ieri a 501,9 miliardi di euro, segnando un massimo storico contro i 493,3 miliardi di venerdì scorso. Praticamente i 500 miliardi di euro, prestati ad un tasso ridicolo dalla BCE agli intermediari privati, sono fermi nelle casse della BCE. Mentre le aziende hanno l'acqua alla gola, le banche preferiscono  tenersi il loro gruzzoletto al sicuro per paura dei futuri effetti della crisi. Così facendo però la crisi si trasferisce nell'economia reale aumentando la velocità della recessione. La disoccupazione aumenterà anche per questo. Ieri sera invece è arrivata la notizia che l'agenzia di rating S&P ha declassato il fondo salva stati. Due notizie quindi in breve distanza di tempo,  ci dicono che l'intera strategia delineata dalle classi dominanti europee e dalla BCE è "fuffa". Aver prestato soldi pubblici senza nessun vincolo alle banche private, come ha fatto la BCE non ha praticamente risolto nulla. Il tutto si è risolto in un giro di conto che ha assicurato sicurezza alle banche private. In questo senso ancheil cosidetto Fiscal Compat  che verrà firmato entro marzo e deciso nel vertice del 30 a Bruxelles dalle "gerarchie europee" è di fatto superato dalla crisi stessa. Per essere ancora più chiari, nel momento in cui il fondo salva stati è intaccato dalla stessa infezione che colpisce i fondi sovrani degli stati esso è inefficace ancor prima di iniziare a funzionare.  Monti e Merkel, così come Sarkozy e le loro retoriche non hanno più una base d'appoggio concreta. In questo senso di parole non ne hanno più nemmeno i socialdemocratici pentiti dell'ultima ora.  Chi inneggiava agli Eurobond come al comunismo, ora sa che inneggia a titoli che subirebbero lo stesso trattamento dei nostri fondi sovrani. L'Europa insomma, quella liberista è con le spalle al muro per effetto di un attacco speculativo senza precedenti che ha evidenziato la debolezza del suo gruppo dirigente di fronte al predominio USA. Cosa ci dice allora questo scontro tra capitalismi che investe il vecchio continente? Che l'ipotesi della crescita coniugata al rigore per l'uscita dalla crisi è impraticabile, perchè è collocata dentro lo stesso meccanismo che tende a riprodurla. In poche parole fino a quando non avremo un controllo democratico e pubblico sulla politica del credito non potremo nemmeno pronunciare la parola crescita. Su questo la sinistra, in particolar modo i comunisti devono battere come martelli nei prossimi mesi. Ma non basta, occorre aprire una riflessione seria su come noi leggiamo la crisi. 

Vedendo quello che sta accadendo, penso che oggi abbiamo uno straordinario bisogno di recuperare Lenin e la sua capacità di analisi. Le notizie di questi mesi ci dicono che siamo nel pieno di un conflitto intercapitalistico ( e Lenin questo lo aveva capito e analizzato efficacemente) dove operano le agezie di rating i fondi sovrani, i movimenti speculativi e tanto altro ancora. Un processo che tendenzialmente vede il capitale Usa divorare quello Europeo e quello prussiano quello dei paesi periferici. E' una partita aperta e non un complotto come sostengono le demenziali teorie che si leggono in rete. Dobbiamo analizzare il capitale finanziario e le sue funzioni all'interno di questo conflitto che può indebolire le classi dominanti, un conflitto oggi agito principalmente tra USA ed Europa, i cui effetti investono materialmente la condizioni di vita di milioni di lavoratori. Il capitale finanziario non è un'accozzaglia di vampiri  che succhiano il sangue al popolo, è una dinamica concreta dello sviluppo del capitalismo stesso le cui parti lottano oggi, in maniera molto più aggressiva per la supremazia. Analizzarlo  non può essere opera di una singolarità sociale ma di una intelligenza collettiva. Solo leggendo attentamente questo processo potremmo collocare in maniera efficace le nostre proposte per uscire dalla crisi. Lenin diceva analisi concreta della situazione concreta, mai insegnamento fu migliore. Stiamo in agguato compagni, avanti popolo!

sabato 14 gennaio 2012

Monti, giù le mani dall'acqua pubblica

Il Governo Monti, con la scusa della crisi e di far ripartire l'economie con le "liberalizzazioni", ignora il risultato del referendum e impone che le società di gestione del servizio idrico non siano società pubbliche. Il PRC aderisce all'appello del Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua e invita a firmarlo: clicca qui.

Governo Monti, giù le mani dall'acqua pubblica e dalla democrazia
di Marco Bersani (Attac Italia) - da Liberazione On Line del 12-01-2012


Il re è nudo e finalmente tutti possono vederlo. Salutato come salvatore della patria e liberatore dall’incubo berlusconiano, il Governo “tecnico” dei professori, dopo aver approvato la prima fase della macelleria sociale come regalo natalizio, si appresta ora al secondo decisivo affondo: la cancellazione di ogni spazio pubblico nella gestione della società e delle comunità territoriali.
Incurante del fatto che la drammatica crisi globale in cui siamo immersi segni in prima istanza il definitivo fallimento delle politiche liberiste; indifferente al fatto che i referendum dello scorso giugno abbiano chiaramente indicato la fine del consenso sociale all’ideologia del ”privato è bello”, il governo Monti persevera imperterrito nella funzione per cui è stato voluto dai poteri forti economico-finanziari e subìto dall’inconsistenza politica dei partiti di centrodestra e di centrosinistra: passare dal “privato è bello” al “privato è ineluttabile e obbligatorio”.
Un modello capitalistico in crisi di sovrapproduzione da oltre due decenni, posticipata ad oggi grazie all’enorme espansione della speculazione finanziaria, di fronte al precipitare sistemico della propria crisi ha davanti a sé una sola strada per mantenersi in vita:smantellare totalmente i diritti del lavoro (fase 3 del Governo “tecnico”) e mettere a valorizzazione finanziaria tutti i beni pubblici, a partire da quelli ad alta redditività perché primari ed essenziali come l’acqua.
Ventisette milioni di donne e uomini di questo Paese, nel giugno scorso, hanno votato per l’affermazione dell’acqua come bene comune e diritto umano universale e per la sua gestione partecipativa e senza logiche di profitto. Le stesse donne e uomini hanno votato anche in difesa dei servizi pubblici locali contro le strategie di privatizzazione.
Quel risultato, frutto di una mobilitazione sociale dal basso senza precedenti, costituisce la vera spina nel fianco dei poteri forti, intenti a trasmettere ad ogni piè sospinto le esigenze dei mercati, nuove divinità colleriche cui fare sacrifici per garantirsene la benevolenza.
Cancellare quel risultato diviene prioritario per poter procedere: e se non si può farlo con un consenso ormai perso, deve essere utilizzata l’autorità.
Solo così si spiega il disprezzo per il voto referendario espresso a più riprese in questi giorni da diversi esponenti di governo in trasmissioni televisive e in dichiarazioni sui mass media.
S<+Tondo>olo così si spiega come, dietro la foglia di fico delle “liberalizzazioni” di alcune categorie di servizi, ci sia la volontà di intervenire sulla gigantesca torta dei servizi pubblici locali (70 mld di euro solo per gli investimenti negli acquedotti).
Nella crisi sistemica, l’antagonismo tra democrazia e mercato non potrebbe essere più evidente: per il professor Monti – quello del ripristino del rispetto per le istituzioni - il voto consapevole e costituzionalmente garantito della maggioranza assoluta degli italiani nulla conta di fronte all’esigenza delle multinazionali francesi e nostrane di poter usufruire di un business garantito come quello sull’acqua.
La posta in gioco questa volta è drammatica : in gioco non c’è solo – e non è poco - un bene primario come l’acqua; sotto attacco c’è la democrazia, ovvero il diritto per le donne e gli uomini di questo paese di poter decidere sui beni che a tutti appartengono e sulla loro gestione.
Il governo Monti va immediatamente fermato. Possiamo farlo, perché siamo molti più di loro, possiamo farlo, perché consapevolmente abbiamo attraversato le strade e le piazze di questo Paese portando il nuovo linguaggio dei beni comuni e della democrazia partecipativa come risposta alla dittatura dei mercati finanziari; possiamo farlo, perché tra la Borsa e la vita abbiamo scelto, tutte e tutti assieme, la vita.
Il re è nudo: riempiamo le piazze e, al suo passaggio, indichiamolo con il dito e sorridiamo di futuro.

martedì 10 gennaio 2012

Raphael Rossi: torniamo alle buone maniere.

In questi giorni sta suscitando l'attenzione il "caso Rossi" al comune di Napoli. Qualcuno ha anche tentato di dire che il dirigente dell'azienda rifiuti sarebbe "troppo incorruttibile", troppo anche per la giunta De Magistris di cui il PRC fa parte. Pubblichiamo l'ultimo commento di Raphael Rossi sul suo blog personale, da cui si può risalire all'intera vicenda.

TORNIAMO ALLE BUONE MANIERE.


Prima di tutto voglio ringraziare le centinaia e centinaia di persone che mi hanno espresso o confermato la vicinanza e il sostegno, sia per i cambiamenti a Napoli, sia soprattutto per il ruolo di testimone che avrò nel processo sulle tangenti Amiat di Torino a partire da giovedì 12 gennaio.

Tanto per aggiornarci, la “novela” su Napoli è proseguita dopo il mio ultimo post, in cui facevo riferimento alle sciocchezze riportate dai giornali (per esempio, le “consulenze d’oro”, che visti gli importi forse dovremmo definire “placcate oro”…) e i tentativi impliciti di calunnia e distrazione dell’attenzione.

Il vicesindaco di Napoli, Tommaso Sodano ha risposto (ancora una volta sul sempre prontoMattino) che le mie sarebbero “fantasie sabaude”. Ecco un altro meccanismo interessante, tipico di una certa, tradizionale, comunicazione politica: spostare l’attenzione, minimizzando e buttandola sul sarcasmo. Un po’ come scherzare sul bunga bunga e raccontare barzellette.

Io qui non voglio aggiungere altro, ho già descritto il mio punto di vista, mentre noto un po’ di affanno a costruire versioni diverse. Tornerò a parlare di Napoli appena con il sindaco De Magistris (con cui, lo dico per l’ennesima volta, non c’è stato alcuno strappo) definiremo nuovi progetti per la città.

Intanto, come anticipato, fra tre giorni (giovedì 12 gennaio, alle 9 al Palazzo di giustizia di Torino) comincia il processo sulle tangenti all’Amiat nel quale sarò testimone per aver denunciato una tentata corruzione nei miei confronti, quando ricoprivo il ruolo di vicepresidente dell’azienda nel 2007. Sul sito dei Signori Rossi – Corretti e non corrotti è raccontata in dettaglio tutta la vicendache mi vede testimone.

Dopo averne parlato nel blog, mi ha chiamato un bravo giornalista de La Stampa, Andrea Rossi. Mi ha fatto sei domande: cinque su De Magistris e una sull’Amiat. Quest’ultima, eccola: “Si è scontrato con le pressioni della politica, come a Torino, dove la settimana prossima comincia il processo aperto da una sua denuncia”. E la mia risposta: “Attenzione: Torino è un caso di corruzione, Napoli è una riorganizzazione della squadra del sindaco. E a Torino io sono stato lasciato solo. La città non si è costituita parte civile né pagherà le spese processuali. Mi sembra di combattere una battaglia personale, non quella di chi si è opposto allo sperpero di 4,2 milioni e ha rifiutato una tangente”.

In risposta il vicesindaco di Torino, Tom Dealessandri, ha dichiarato sempre a La Stampa: “La città non ha subito alcun danno, perciò non può chiedere di rivalersi contro chicchessia. Amiat, invece, che come società Spa è del tutto autonoma, ed è l’azienda che ha subito un danno da questa vicenda e può considerarsi parte lesa, si può costituire. E l’ha fatto, per cui la polemica di Rossi mi sembra del tutto fuori luogo”.

Rispondere a questi commenti fa perdere tempo ed energie. E’ importante però far presente alcune cose. La prima è che una delibera del Consiglio comunale di Torino, del novembre 2010, approvata all’unanimità, richiedeva al sindaco Sergio Chiamparino di costituire il Comune parte civile al processo. Non avvenne e non ci furono vere risposte ufficiali e prese di posizione da parte del sindaco più amato dagli italiani.

La seconda è che Amiat si è sì costituita parte civile, tramite un comunicato “giustificatorio” dell’autunno 2010, ma non l’ha fatto per tutti i capi d’imputazione. Inoltre, io, nonostante quanto deliberato dal Consiglio comunale, dall’azienda non ho ricevuto alcuna chiamata per il supporto nelle spese legali, ma il mio avvocato mi ha già presentato le parcelle degli ultimi cinque anni (ossia da quando è iniziata giuridicamente questa storia).

Il punto decisivo comunque è che, essendo Amiat partecipata al 100% dal Comune di Torino, è a tutti gli effetti emanazione comunale, perciò un danno all’Amiat è un danno alla città. Cioè: qualunque danno inferto ad Amiat ricade de facto sui cittadini, che in ultima istanza sono chiamati a ripagarne i debiti, vuoi nella funzione di unico socio, vuoi nella funzione di unico cliente.

Ma questo è talmente ovvio per chiunque che mi sembra impossibile che Dealessandri abbia commesso un così clamoroso errore. Non voglio pensare male, altrimenti il vicesindaco, parafrasando il suo pari ruolo napoletano, potrebbe dirmi che ho delle “fantasie partenopee”… Perciò voglio credere che Dealessandri sia vittima anche lui di una cultura della pubblica amministrazione fondata sull’iper-burocratizzazione del pensiero, che porta inevitabilmente a scivoloni di questo tipo, quando parliamo di etica e correttezza.

Insieme a migliaia di cittadini torinesi, resto in attesa di una presa di posizione del nuovo sindacoPiero Fassino, il quale tra l’altro conosce la vicenda, perché ho avuto modo di comunicargliela di persona nel maggio scorso, in campagna elettorale. Mi rispose: “Vedremo”.

Il sindaco oggi, secondo me e secondo moltissimi torinesi che mi scrivono, deve pronunciarsi per evitare che capitino altri casi simili, per dare un segnale inequivocabile, per dichiarare ufficialmente che chi denuncia la corruzione viene appoggiato dalle istituzioni e non isolato. Corrompere infatti è talmente conveniente che chi tenta di far sprecare 4 milioni di euro pubblici al massimo rischia un anno con la condizionale (quindi niente carcere). Mentre chi denuncia rischia che l’accusa gli sia rivolta contro come diffamazione, viene isolato, spesso rischia il posto.

Come successo al “Signor Rossi” Francesco Scolamiero, ex dirigente Soges, che si è messo in contatto con il movimento dei Signori Rossi e che abbiamo coinvolto in una trasmissione di La7 (L’aria che tira) in cui ero ospite lo scorso 20 dicembre. La corruzione costa all’Italia 60 miliardi l’anno, finalmente i giornali lo stanno dicendo spesso. È il caso di usare tutte le dichiarazioni pubbliche e le sedi giudiziarie per intervenire ed educare a una nuova (antica) cultura: quella dell’etica e della correttezza.

E poi, scusate, le care “buone maniere” piemontesi: sono appena arrivato da Napoli e già mi ritrovo questa accoglienza del vicesindaco… “Polemiche fuori luogo” sembra proprio una di quelle frasi standard preconfezionate (come quelle degli sms: “Arrivo dopo”, “Sono in riunione”…). Lui ha liquidato la faccenda così. Quanto ci avrà messo? Un minuto? Forse due. Invece io sono in ballo dal 2007. Di fronte all’impegno che un cittadino deve sostenere, negli anni, è il caso di rispondere così? Insomma, un po’ di buone maniere…

lunedì 9 gennaio 2012

La nuova giunta provinciale.

Dopo aver vinto le elezioni con una larghissima maggioranza, la destra della nostra provincia non è mai riuscita a trovare a mettere insieme una giunta stabile. Il contrasto tra la Lega Nord e il PDL ha portato a un balletto di rotture e ricuciture. Dopo l'ennesimo litigio tra Del Tenno, coordinatore del PDL, e il presidente Provera,  la Lega aveva ordinato agli assessori berlusconiano di dissociarsi dal loro partito. Il rifiuto di 3 assessori su 4 ha portato alla nuova giunta.
Pubblichiamo l'articolo scritto da Simona Viganò per Vaol.it


Tre i revocati: Corradini, Pasina e Boletta.

Cambia la giunta della Provincia di Sondrio. Oggi -lunedì 9 gennaio- Massimo Sertori ha presentato la nuova formazione: sei assessori, invece che otto, più il presidente che assume la delega alle attività produttive.

LA DICHIARAZIONE
«Come affermato alla stampa ho chiesto ai quattro assessori del Pdl di prendere le distanze da quanto dichiarato dal loro coordinatore Del Tenno per non trovarmi costretto a revocare la loro delega, ma solo Severino De Stefani ha risposto». Sono queste le parole del presidente Massimo Sertori subito seguite dall'elenco delle tre revoche e dei nuovi incarichi.

LE REVOCHE
Tre, quindi, gli assessori revocati dalla giunta provinciale: il vice presidente Pierpaolo Corradini (con delega alleAttività produttive, Trasporti e Coordinamento dei progetti strategici con Regione Lombardia), Alberto Pasina (con delega al Turismo, Sport e Emigrazione) e Alberto Boletta (con delega a Formazione e Lavoro, Servizi Sociali e Sistema Informatico). A comporre, invece, la nuova giunta saranno 6 assessori, di cui 5 riconferme (cambiando alcune deleghe) e una nuova entrata.

NUOVE DELEGHE
Ecco allora la nuova composizione della giunta provinciale:
Severino De Stefani che assume l'incarico di vice presidente, al posto di Pierpaolo Corradini, e che oltre alla storica delega all'Agricoltura, Ambiente ed Aree Protette, Caccia e Pesca, da oggi riveste la delega ai Trasporti;
Filippo Compagnoni con delega al Turismo e Sport, oltre a quella per la Valorizzazione delle Tradizioni e Identità locali;
Costatino Tornadù con delega alle Politiche Sociali oltre alla delega al Bilanci, Affari istituzionali, Cultura, Istruzione, Personale e Controllo di gestione.
Si riconfermano, restando invariate anche le loro deleghe, Silvana Snider (delega ai Lavori pubblici, Manutenzione del patrimonio, Cave e Pari opportunità) e Giuliano Pradella (con delega alla Protezione civile, Polizia provinciale e Politiche di coordinamento dei servizi sanitari).

LA NOVITA'
Cinque, dunque, gli storici assessori che restano a comporre la nuova giunta provinciale ai quali si aggiunge una nuova entrata: Franco Imperial (presidente della Comunità Montana di Tirano) che entra con delega alla Formazione e lavoro, Emigrazione e Sistema informatico. «Una scelte istituzionali, perché Imperial rappresenta un territorio non ancora rappresentato. In conclusione ringrazio i tre Assessori revocati per il lavoro svolto e ricordo che questa nuova giunta sarà subito operativa per lavorare per il bene dei cittadini - ha affermato Massimo Sertori -. C'è, infatti, un aspetto istituzionale che mi preoccupa tantissimo ed è la possibile eliminazione della Provincia di Sondrio: in questo senso bisogna lavorare tutti insieme, in una battaglia che ci vede tutti protagonisti. Il mio partito è unito e siamo tutti d'accordo su questa scelta che comunque non siamo stati noi a cercare» ha concluso.
Nominata, dunque, la nuova composizione della giunta della Provincia di Sondrio. Stasera in calendario era previsto il coordinamento provinciale del Pdl, nel quale sicuramente cambierà l'ordine del giorno. Su questo punto i portavoce si sono trincerati dietro un “no comment” rinviando a martedì le loro considerazioni.

A cura di Simona Viganò

giovedì 5 gennaio 2012

Tutte le bugie sull'articolo 18

Tutte le bugie sull'articolo 18
di Gian Paolo Patta - http://www.controlacrisi.org

Non è vero che lo Statuto difende una minoranza di lavoratori. Ed è falso che sia la causa della precarietà




In vista dell’annunciato confronto tra governo e organizzazioni sindacali sul mercato del lavoro, è iniziata la campagna tendente a dimostrare come i lavoratori tutelati dal famigerato art. 18 dello Statuto dei lavoratori siano una minoranza privilegiata, la cui esistenza sarebbe la causa primaria della diffusione della precarietà giovanile. Sorvolando sul fatto che gli autori di questa campagna sono gli stessi che, criticando l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro italiano, a suo tempo pretesero l’introduzione massiccia di forme di lavoro atipico, vediamo come adesso stiano forzando i dati sull’occupazione, in senso inverso ma con il fine di sempre: allargare l’area della precarietà e la ricattabilità dei lavoratori. Esaminiamo alcuni assunti di questa campagna. È vero che i lavoratori a tempo determinato sono la maggioranza? Dai dati Istat sull’occupazione risulterebbe di no: gli occupati dipendenti a tempo indeterminato erano nel 2010 l’87,2% del totale e quelli a tempo determinato il 12,8%. 
È vero che i lavoratori ai quali si applica l’art. 18 sono la minoranza? Sempre dai dati Istat emerge che nelle aziende che occupano fino a 20 dipendenti sono occupati 4.574.000 dipendenti su un totale di 17.110.000. Anche aggiungendo tutti gli 800.000 collaboratori coordinati e 250.000 professionisti (non tutte queste figure sono assimilabili al lavoro dipendente: l’Istat li classifica nel lavoro autonomo), risulta evidente come la maggioranza dei lavoratori italiani siano tutelati dall’art. 18. Alcuni confondono i dati usando non il numero dei dipendenti ma quello degli addetti: questi ultimi comprendono i milioni di lavoratori autonomi che fanno più che raddoppiare l’occupazione globale delle piccole aziende, mentre lo Statuto fa riferimento a 15 dipendenti e non addetti. È vero che le aziende che ricorrono ai contratti di lavoro atipici lo fanno per evitare l’art. 18?
Sempre dai dati Istat risulta che gli addetti (termine che indica, come già scritto, anche i padroni e gli autonomi medi dell’industria sono 8,7, quelli delle imprese del commercio e alberghi 3,3, costruzioni 2,9 e 2,8 gli altri servizi (compresi quelli alla persona); ora, i lavoratori a tempo determinato presenti nell’industria sono 319.000, mentre quelli del totale dei servizi 1.464.000, di cui ben 974.000 nella categoria altri servizi (che comprendono quelli alla persona). Come si può ben intuire, la maggior parte dei contratti a tempo determinato sono nelle aziende che non applicano l’art. 18. È vero che si possono sostituire tutte le forme di lavoro precario con unico contratto di inserimento? Impossibile in diverse situazioni: nell’edilizia, che ha un’attività estremamente discontinua e legata ai cantieri, nel turismo stagionale e nell’agricoltura, stagionale per definizione, solo per citare 3 grandi esempi. In questi settori è impossibile assumere tutti a tempo indeterminato, tant’è che esistono, per evitare di non trovare dipendenti, specifiche forme di sostegno al reddito. Esiste poi il complesso dei servizi alla persona in ambito familiare (circa un milione di addetti) e i contratti di formazione, come l’apprendistato che nessuno ha proposto di abolire.
Le proposte in campo tese a limitare l’area di applicazione dell’art. 18 non porteranno pertanto che benefici marginali agli attuali occupati con contratti di lavoro a tempo determinato, soprattutto a quella parte che ha natura strutturale, mentre allargheranno l’area della precarietà introducendo una ennesima nuova figura: il contratto di lavoro a tempo indeterminato in cui non si applica l’art. 18. Ovviamente siamo in presenza di un ossimoro: senza l’art. 18 ogni contratto può trasformarsi con molta più facilità d’oggi in un contratto a tempo determinato. La verità è che l’ampia flessibilità del mercato del lavoro italiano, determinata in primis dall’ampia diffusione del lavoro autonomo e del lavoro nero, è causata dal ritardo del capitalismo italiano nei confronti degli altri paesi europei (Germania innanzitutto) e determina il differenziale di produttività che si è accumulato in questi anni. 
Ma questo blocco sociale arretrato è parte integrante del blocco dominante: quindi intoccabile per ragioni politiche e allora non resta che tirare il collo agli operai nella speranza (vana) di recuperare margini di profitto.

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