martedì 10 dicembre 2013

DOCUMENTO FINALE APPROVATO DAL IX CONGRESSO NAZIONALE DI RIFONDAZIONE COMUNISTA - PERUGIA 8/12/2013

Il 9° Congresso Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, riunitosi a Perugia il 6/7/8 Dicembre 2013, sentita la relazione del segretario uscente Paolo Ferrero e sentito il dibattito, impegna il Partito tutto a lavorare già dalle prossime settimane secondo quanto deliberato dai congressi di circolo del Partito, attraverso il voto degli iscritti e delle iscritte. Iscritti ed iscritte che ringraziamo per aver partecipato ai congressi di circolo e per essere, con la loro generosa militanza, il vero patrimonio del nostro Partito.

Occorre da subito continuare nel lavoro di costruzione del più ampio movimento di massa di opposizione al governo Letta, alle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea e nella difesa della costituzione nata dalla Resistenza. La Costituzione è oggetto di un vero e proprio attacco da parte della maggioranza del Parlamento. Una maggioranza che è delegittimata ad operare qualsiasi modifica alla nostra carta fondamentale , anche alla luce della recente decisione della Corte Costituzionale di dichiarare anticostituzionale l’abnorme premio di maggioranza della legge elettorale Calderoli, grazie al quale già si era operato nella precedente legislatura lo strappo dell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, attraverso la riforma dell’art. 81.
A tale proposito, il PRC ritiene istituzionalmente inopportuno e gravissimo politicamente l’intervento del Presidente della Repubblica Napolitano, teso a prefigurare un nuovo impianto istituzionale ed elettorale della Repubblica in senso maggioritario, attraverso una prassi presidenzialista. Contro questo disegno, il PRC si è sempre battuto e si batterà, facendo appello a tutte le forze democratiche e antifasciste, a partire dal comitato per il 12 Ottobre, a far sentire il proprio dissenso e manifestare la loro contrarietà alla manomissione della nostra carta costituzionale e a rilanciare la battaglia per un sistema elettorale proporzionale. Il tentativo in corso di disinnescare gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale va contrastato sul piano politico e culturale. Il fallimento di venti anni di maggioritario e bipolarismo rende possibile riprendere a livello di massa la battaglia per la proporzionale. La crisi democratica che viviamo è conseguenza di quella sociale ed economica.
La crisi economica che viviamo in Italia è figlia del neoliberismo bipartizan, applicato su scala continentale dalla troika e dalla commissione europea, attraverso memorandum, Mes e Fiscal compact, e nel nostro paese aggravata delle grandi coalizioni e dai governi Monti e Letta. In nome dell’osservanza cieca dei trattati europei e del rientro dal debito, si sta portando avanti un attacco senza precedenti alle condizioni di vita di milione di donne e uomini, dei lavoratori, delle classi sociali più deboli. Si sta operando una nuova offensiva, che vede questo governo protagonista di una ennesima ondata di privatizzazioni, di vera e propria svendita del tessuto produttivo del paese, già segnato dagli effetti recessivi delle politiche di rigore fin qui applicate. Una crisi che vede drammaticamente crescere il divario e insopportabili disuguaglianze fra aree del paese e classi sociali. Una crisi che colpisce le fasce più deboli della popolazione, fra cui giovani , donne, con una disoccupazione ai massimi storici ed una precarietà divenuta esistenziale. Una crisi che vede approfondirsi elementi di regressione civile e culturale, solitudine e disperazione, paura e razzismo. Fra questi spicca il moltiplicarsi dei casi di femminicidio. La diffusa violenza maschile, fisica, materiale e simbolica, sul corpo delle donne, sono il segno di una crisi del maschile che ancora non sa porsi in relazione con la libertà femminile.
Nella costruzione di un movimento di massa contro l’austerità, il PRC deve impegnarsi nel ridare centralità al conflitto sociale e di classe. I caratteri della crisi dimostrano attualità della critica marxista dell’economia politica e delle teorie economiche dominanti, della centralità del conflitto di classe, pur nelle rinnovate forme derivate dalla nuovo composizione sociale del blocco sociale di riferimento. Qui siamo chiamati ad un salto di qualità della nostra iniziativa, innovando e estendendo le nostre pratiche di intervento sociale, dando priorità alla nostra capacità di iniziativa politica e organizzazione, alla modalità di lavoro dei nostri circoli. Il 9° congresso del PRC chiama il prossimo CPN ha dare centralità al lavoro di radicamento sociale del partito, di cura della sua presenza fra i lavoratori e le lavoratrici, i precari, i movimenti per la casa e il reddito, i migranti, a estendere e rafforzare le pratiche del partito sociale. Senza cambiare rapporti di forza nella società e senza una nostra capacità di essere presenti e promotori nelle lotte sociali, non può esservi alcun cambiamento dei rapporti di forza politici. Occorre inoltre una cura della sua capacità di autonomia attraverso l’autofinanziamento, della sua capacità di comunicazione, dotandosi di ulteriori strumenti, della formazione dei gruppi dirigenti e del loro necessario rinnovamento. Un rinnovamento che sia anche e soprattutto delle pratiche, mettendo in atto una democrazia degli iscritti, un modello di partito partecipativo e inclusivo. Un partito che superi il suo carattere sessuato e una pericolosa tendenza a rimuovere la questione di genere, come purtroppo emerso anche durante questo nostro consesso. Un partito che sappia dialogare e costruire relazioni stabili con il mondo della cultura e dell’intellettualità non organica al pensiero unico. Un partito che accolga le figure sociali della nuova composizione di classe. Occorre inoltre lavorare alla cura dell’organizzazione del partito, per un suo rilancio e per migliorarne la vita democratica, il coinvolgimento dei circoli, una verifica dei gruppi dirigenti basata sul lavoro politico svolto. A tale fine, il congresso del PRC da mandato al prossimo Cpn di convocare una conferenza di organizzazione del Partito, per definire le necessarie innovazioni alla sua modalità di funzionamento a tutti i livelli. Per apportare le necessarie modifiche statutarie derivanti dall’esito della conferenza, il congresso propone di riconvocare la platea dei delegati.
Dal punto di vista del conflitto sociale, pur in un quadro di mobilitazioni che a differenza del resto del sud europa rimane segnato dall’inerzia e dalla subalternità della gran parte del sindacalismo confederale al quadro politico, esistono positivi segnali in controtendenza, come dimostrano le mobilitazioni del 18 e 19 ottobre, le mobilitazioni dei lavoratori del trasporto pubblico a Genova e Firenze, le lotte nel settore della logistica, la manifestazione del 12 Ottobre a difesa della costituzione, l'iniziativa della Fiom e dei sindacati di base in tutti questi anni.
Il PRC è chiamato a dare maggior efficacia e coordinamento nell’iniziativa dei suoi iscritti nel lavoro sindacale, coordinandone l’attività al fine della costruzione del movimento di massa contro l’austerità. A tal fine, per il prossimo congresso della CGIL, auspichiamo la costruzione di una sinistra sindacale che possa aprire una battaglia politica per rilanciare il ruolo di classe della CGIL su punti dirimenti la politica economica, sociale e contrattuale, invertendone il segno moderato e adattativo al quadro politico.
In Italia pesa enormemente l’assenza del conflitto sociale organizzato , che ponga la questione del lavoro e della giustizia sociale , della redistribuzione della ricchezza al centro del dibattito politico, e senza il quale la crescente sofferenza sociale trova come sbocco quello della protesta populista o dell’astensione, o il rischio di essere attratto da proposte reazionarie. L’antifascismo per noi rimane valore indiscutibile e impegno d riaffermare
La battaglia sociale che dobbiamo promuovere è anche battaglia delle idee, di egemonia per la costruzione del blocco storico, di ricomposizione delle tante vertenze sociali e ambientali che attraversano il paese, come la No Tav, quella terra dei fuochi, le lotte in difesa del posto di lavoro e per i beni comuni, del precariato per il reddito sociale, della difesa della scuola e università pubblica.’, per la pace e contro la guerra, i No Muos e contro gli F35.
In questa direzione il PRC si impegna a fare del Piano per il lavoro e riconversione ecologica dell’economia la sua campagna di massa dei prossimi mesi, per rimettere a tema la necessità dell’intervento pubblico in economia e del mutamento di paradigma sull’idea di sviluppo. La recente tragedia che ha colpito la Sardegna, dimostra ancor di più come sia urgente e necessario , attraverso una programmazione pubblica, intervenire per il riassetto idrogeologico del territorio, e quanto l’idea liberista sia incapace di coniugare sviluppo sociale e salvaguardia dell’ambiente, di come la lotta per la trasformazione sociale connetta questione di classe e ambientale. L’austerità colpisce i diritti sociali anche attraverso il patto di stabilità imposto agli enti locali. Il Partito si impegna in una campagna contro i suoi vincoli e per la sua messa in discussione e sostiene pertanto l’esperienza della rete dei comuni solidali come delle amministrazioni che in varie forme si oppongono alla distruzione del welfare locale in nome del rigore. Il 9° congresso del PRC sostiene la campagna per l’amnistia sociale, contro la repressione dei movimenti sociali in atto.

Accanto e insieme al piano per il lavoro, Il PRC fa della lotta per la rottura con questa Unione Europea, per la messa in discussione della sua architettura istituzionale neoliberista e dei suoi Trattati, come il fiscal compact, Mes , Maastricht e Lisbona, il centro della sua proposta e iniziativa politica. La disobbedienza ai trattati e la costruzione di coalizioni sociali e politiche contro l’austerità a livello nazionale ed europeo sono una priorità e necessità. Senza mettere in discussione gli attuali assetti di potere in Europa, la sua natura antidemocratica e antipopolare, non è possibile uscire da questa crisi, che anzi si aggrava seguendo la via tracciata dalle elites europee di massacro sociale e distruzione del welfare e dei diritti . A tal fine il PRC sostiene la campagna per referendum consultivi sui trattati europei e le comuni campagne con il Partito della Sinistra Europea, come quella contro il TTIP.
Il PRC è inoltre chiamato ad approfondire il dibattito su la possibile implosione dell’area euro e della moneta unica, come possibile conseguenza delle politiche di austerità, e sulle possibili proposte alternative e eventuali strategie di uscita, in difesa dei lavoratori e della sovranità popolare e democratica.
Nelle stesse ore in cui si chiude il nostro Congresso, si svolgono le primarie per l’elezione del nuovo segretario del PD, il cui probabile esito sancirà una nuova svolta moderata e centrista. Una svolta che si accompagna ad un quadro europeo segnato dalla nascita della grosse koalition in Germania e che chiude ogni illusione riguardo possibili mutamenti di rotta della socialdemocrazia europea nei riguardi dell’austerità.
Per tali ragioni è ancor più necessario rimettere in campo una proposta per la sinistra nel nostra paese.
Contro la grande coalizione europea e italiana, occorre costruire una sinistra alternativa e autonoma dal centrosinistra, che si unisca su un chiaro programma di lotta all’austerità, di rottura con il modello neoliberista di questa unione europea, per un’uscita da sinistra dalla crisi.
Ferma restando la necessità del Prc come organizzazione politica dei comunisti, che è aperta al confronto sul tema dell’unità con le altre forze comuniste, nella chiarezza della scelta strategica di autonomia dal centro sinistra e di innovazione politico culturale nel senso della rifondazione. Come nel resto d’Europa - e le esperienza del Front de gauche, Izquierda Unida, Syriza ne dimostrano la fattibilità - insistiamo nel proporre un processo di aggregazione dal basso, democratico e partecipativo della sinistra di alternativa e delle forze antiliberiste e anticapitaliste del nostro paese, che si connoti per l’autonomia e l’alterità rispetto al centrosinistra e al Partito Democratico. In questa direzione, il IX congresso del PRC impegna il Partito nel far crescere e avanzare per le prossime elezioni europee la costruzione di una lista di sinistra e contro l’austerità, che faccia riferimento alla Sinistra Europea e al Gue, e che riunisca intorno alla candidatura di Alexis Tspipras le forze della sinistra alternativa , i movimenti e le singole personalità che condividono il programma comune di lotta all’austerità, per i lavoro, la difesa dei beni comuni e dei diritti sociali. Una lista che dia voce ai precari, a lavoratori, a tutti popoli europei che resistono agli effetti nefasti delle brutali politiche di austerità imposte dalla Troika e dall’UE, e di cui la lotta del popolo greco e di Syriza rappresenta il punto più alto e la dimostrazione che è possibile un’uscita a sinistra dalla crisi.

lunedì 2 dicembre 2013

Rizzi nuovo segretario provinciale di Rifondazione


Domenica 1 Dicembre, il Congresso del Partito della Rifondazione Comunista ha eletto all’unanimità il nuovo segretario provinciale Paolo Rizzi, classe 1986, laureato in Studi dell’Africa e dell’Asia all’Università di Pavia dove è stato rappresentante degli studenti, attualmente è anche membro del direttivo provinciale dell’ARCI ed è stato coordinatore provinciale della campagna referendaria sull’Articolo 18 e l’Articolo 8. Il Congresso ha eletto un Comitato Politico provinciale composto da 15 uomini e donne operai, studenti, lavoratori autonomi e pensionati e ha nominato i delegati al congresso nazionale che si terrà a Perugia dal 6 all’8 Dicembre e deciderà la nuova linea politica e la nuova dirigenza dopo la sconfitta elettorale di Rivoluzione Civile.
Il Congresso Provinciale ha analizzato la situazione locale in cui per la prima volta da decenni la nostra Provincia conosce la disoccupazione di massa e ha espresso in particolare la propria solidarietà ai lavoratori della Rigamonti in lotta. Il PRC si impegna a discutere e a presentare a tutti i soggetti sociali interessati la proposta di legge popolare Piano Per Il Lavoro e l’Economia Ecologica e Solidale, sostenuta anche da economisti come Bellofiore, Gianni e Vertova e dall’ex segretario della Fiom Rinaldini. Dopo l’aumento di iscritti nell’anno 2013, l’obiettivo è aumentare ancora la militanza e dare sostanza al radicamento del Partito nei territori.
In vista delle elezioni europee, il congresso ha approvato all’unanimità la proposta di candidare alla presidenza della Commissione Europea il Presidente della Coalizione di Sinistra greca (Syriza) Alexis Tsipras, come candidato comune di tutte le forze di sinistra in Europa che si oppongono alle politiche capitalistiche di austerità e lavorano al di fuori del centrosinistra che non solo in Italia ma anche in Grecia e Germania governa insieme alle destre.


Per il PRC Sondrio, Paolo Rizzi, vi ringrazio per l’attenzione.

mercoledì 3 luglio 2013

"Nel mediterraneo c'è un potenziale rivoluzionario sfruttato dalla reazione". Intervista a Fabio Amato

Intervista a Fabio Amato, responsabile esteri di Rifondazione Comunista


Il mediterraneo torna ad infiammarsi. C’entra la crisi economica dell’occidente?
Le rivolte che stanno sconvolgendo tutto il mondo arabo nascono da ragioni strutturali. A cominciare dalla crisi economica, ovviamente, e poi per passare alle speculazioni sui futures del petrolio. Ed e’ questo in fondo che ha unito un pezzo di rivolta urbana, della parte più colta della società, le cui aspettative erano soffocate dal sistema clientelare e nepotistico, al peggioramento elle condizioni di vita di masse operaie e dei contadini stessi. Questo viene sempre sottostimato, ma voglio ricordare che i sindacati hanno avuto un ruolo sia in Tunisia che in Egitto.
Siamo di fronte a un buco nell’analisi degli Usa che invece hanno puntato la loro strategia sul ruolo di Morsi.
Gli Usa credevano al patto non scritto filtrato dal Quatar e dall’Arabia Saudita con la Fratellanza islamica. Un patto che avrebbe dovuto garantire un cambiamento soft dal punto di vista geopolitico. Questo è avvenuto sia in Tunisia che in Egitto. Oggi, pero’, il fatto che i Fratelli musulmani di fatto non abbiano toccato nessuna della cause strutturali della crisi e non abbiano implementato nessuna riforma sociale, anzi si sono affrettati ad occupare tutte le leve del potere e i posti chiave imitando i regimi precedenti in chiave islamica per mantenere la coesione del loro blocco, ci dice che quella fase e’ chiusa.
Cosa ci sta dicendo la mobilitazione in Egitto?
In Egitto la mobilitazione è trasversale. I militari, è evidente che sono parte del patto per la transizione. In Egitto esistono delle soggettività politiche, come in Tunisia dove esiste una sinistra. Però da un punto di vista di forza e di alleanze internazionali i militari e i musulmani sono i soggetti determinanti in questa fase. Nel Fronte di salvezza nazionale ci sono dai liberali alla sinistra.
Cosa lega questa ondata di rivolte alla crisi economica?
Al fondo si tratta di una rivolta rispetto ad una crisi che non ha più confini. Il problema è che non c’è abbastanza consapevolezza di questo legame. Turchia e Egitto sono i paesi della delocalizzazione verso Sud da parte delle aziende e delle multinazionali che operano in Europa e negli Stati Uniti. Le privatizzazioni ovunque applicate comportano la cancellazione dei diritti sociali. La dissoluzione di qualsiasi forma che esisteva prima di Stato sociale ha finito per accendere la miccia. Anche in Turchia tra le forze che hanno animato le proteste ci sono le forze della sinistra radicale per quanto frammentata. Il problema è che se da una parte ci sono le condizioni oggettivamente rivoluzionarie, per adesso i benefici le hanno colte le forze controrivoluzionarie. Il problema è la costruzione di soggettività politiche in grado di proporre la rottura del modello sociale.
Insisto su questo aspetto della crisi, perche’ intanto il potenziale esplosivo dell’Europa potrebbe investire anche le sponde del mediterraneo alla ricerca di una soluzione nuova…
E’ in fondo il nodo della Mesoregione mediterranea. Sarebbe anche una ipotesi naturale e storica. L’Unione europea aveva investito nel processo di Barcellona ma poi si è tradotto in accordi di libero commercio e sfruttamento del lavoro. Oggi, l’Unione europea guarda all’atlantico anche se con la vicenda del Datagate ci saranno non pochi problemi. O si battono quell’ipotesi lì ugualmente in Europa oppure si devono mettere in discussione i trattati così come sono. Il mediterraneo l’Europa l’ha intercettato solo rispetto al tema della delocalizzazione. Quindi, per fare il primo passo va rotta la gabbia neoliberista.
Qual è la situazione del dialogo tra i movimenti delle due sponde?
Si stanno costruendo le reti. E qualche cosa è stato fatto con il Forum mondiale sociale in Tunisia. Ad ottobre a Palermo c’è stata la prima conferenza euromediterranea della sinistra europea. E il prossimo ottobre ci sarà un incontro tra la sinistra europea, il forum di San Paolo e la sinistra del Mediterraneo. E’ chiaro però che i rapporti di forza sono più complessi.
Che vuoi dire?
Ci sono interessi geopolitici enormi e in campo ci sono gli stati nazionali. Noi, di contro, abbiamo reti informali. La ricostruzione di un immaginario tra neoliberismo e movimenti religiosi ci può essere, per esempio, a partire da un panarabismo socialista. In Egitto ha presa, così come in Tunisia. Il fronte della sinistra dimostra che una opzione progressista c’è. Del resto, è proprio agendo su questo elemento dell’immaginario che in Amercia latina sono riusciti a battere il neoliberismo, ovvero grazie al fatto che hanno ripreso un ideale umanista come il socialismo del xxi secolo.
Mi pare che Chavez avesse anche proposto un percorso che portasse ad una nuova internazionale…
Il tema della ricostruzione di una forma permanente e di una nuova internazionale secondo me rispetto a quello che sta accadendo è chiaro che si pone come urgente. Noi avevamo sostenuto quella proposta. Chavez non fu capito.

Fabbrica Italia, la Consulta dà ragione alla Fiom. "Non si può escluderla"


Storica sentenza della Consulta che oggi ha dichiarato illegittimo l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, nella parte che consente la rappresentanza sindacale aziendale (Rsa) ai soli sindacati firmatari del contratto applicato nell'unità produttiva. La sentenza, e qui sta il valore doppio del pronunciamento, arriva nell'ambito del ricorso della Fiom, esclusa dalla Rsa, contro la Fiat. Quindi, in poche parole, cade tutta l’impalcatura di Fabbrica Italia e la politica dell’accordo separato messa in atto da Sergio Marchionne. Un vero e proprio colpo al disegno di messa in discussione delle relazioni sindacali che la Fiat ha praticato escludendo la Fiom dal confronto.
Entusiastico il commento dei metalmeccanici della Cgil. "La Costituzione rientra in fabbrica. E' una vittoria di tutti i lavoratori. Non ci sono piu' alibi”, ha commentato a caldo il segretario della Fiom Maurizio Landini. “Il Governo convochi immediatamente un tavolo con la Fiat e tutte le organizzazioni sindacali – ha aggiunto - per garantire l'occupazione e un futuro industriale”. Il leader della Fiom, ricorda infine, facendo cadere l’accento sull’ultimo accordo tra sindacati e Confindustria, il nodo della rappresentanza. “E' ora che il Parlamento approvi una legge sulla rappresentanza", ha concluso. Non sfugge, infatti, che per estensione andrà considerato "in mora" anche l'accordo sulla rappresentanza raggiunto dai sindacati con Confindustria in quanto basato sulla stessa impronta della firma del contratto. 
 ''Alla lunga la giustizia vince. Adesso chiederemo che ci siano dati gli strumenti per fare attivita' sindacale nello stabilimento Fiat di Pomigliano'': commenta a caldo il responsabile del settore auto Fiom di Napoli, Francesco Percuoco. ''Già a novembre scorso - ha ricordato Percuoco - quando 19 dei nostri iscritti furono assunti nella newco in seguito alla decisione della Corte d'Appello di Roma, avevamo fatto richiesta di saletta e bacheca sindacale in fabbrica. Adesso ribadiremo le nostre richieste all'azienda''.
La Fiom, a novembre, aveva anche nominato le proprie rsa, non riconosciute dall'azienda proprio per la parte dell'articolo 19 dello statuto dei lavoratori, dichiarata illegittima oggi dalla Consulta. della Consulta rischia di complicare ancora di piu' le relazioni tra sindacati e imprese e aprire la strada ad una nuova stagione di ricorsi legali".           
                          
http://www.controlacrisi.org/notizia/Lavoro/2013/7/3/35092-fabbrica-italia-la-consulta-da-ragione-alla-fiom-non-si-puo/                                  

giovedì 7 marzo 2013

Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo

 di Gennaro Carotenuto - 6 marzo 2013
Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra.
È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grandelatinoamericana.
Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”.
Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale.
Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali.
Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica,massacrava nel 1989 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela.
Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia,ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari.
Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europeanon ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia.
È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte egli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonicorispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito.
Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa.
La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.

Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo

 di Gennaro Carotenuto - 6 marzo 2013
Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra.
È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grandelatinoamericana.
Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”.
Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale.
Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali.
Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica,massacrava nel 1989 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela.
Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia,ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari.
Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europeanon ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia.
È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte egli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonicorispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito.
Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa.
La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.

Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo

 di Gennaro Carotenuto - 6 marzo 2013
Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra.
È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grandelatinoamericana.
Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”.
Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale.
Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali.
Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica,massacrava nel 1989 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela.
Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia,ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari.
Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europeanon ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia.
È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte egli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonicorispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito.
Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa.
La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.

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