martedì 31 maggio 2011

Trionfano Pisapia e De Magistris, ora si deve cambiare rotta!

Ora si può (si deve) cambiare rotta
Massimo Rossi - Portavoce della Federazione della Sinistra (da Liberazione 31-05-2011)


Evviva! Come non esultare per il vento che è cambiato? Ora soffia decisamente a sinistra con una forza tale da riaprire il cielo. Tale da travolgere anche il governo ed offrire importanti spazi alla domanda di un reale cambiamento. 
Che questa sia la sua chiara direzione ce lo dimostrano in primis, come sgargianti “galletti segnavento” i nuovi sindaci di Milano, Napoli e Cagliari, il loro inequivocabile profilo, la riconoscibilità della proposta di governo ed il carattere delle campagne elettorali che li hanno portati alla vittoria. Essi non nascono certo nei laboratori degli apprendisti stregoni del centro sinistra che da anni sfornano proposte indistinte e candidati sbiaditi, nell’inutile rincorsa di un presunto centro moderato. Democrazia, solidarietà, legalità, giustizia sociale, accoglienza, beni comuni, ecologia: sono queste le parole chiave, i contenuti riconoscibili, chiari, alla base del loro successo e del nostro successo. Potranno dire ciò che vogliono ma sono proprio questi i pezzi del nostro Dna, i contenuti del patrimonio genetico di una sinistra che si voleva “superata dalla storia” e quindi bistrattata, censurata ed esclusa dai luoghi della rappresentanza da un bipolarismo del “pensiero unico”. 
Se la direzione di questo vento nuovo appare chiara a tutti, non si può ancora dire altrettanto del contesto politico e sociale e delle prospettive generali. Non è certo cambiata d’incanto questa Italia socialmente disgregata, culturalmente ed eticamente degradata da almeno due terribili decenni di liberismo incontrastato e di Berlusconismo. Così come è innegabile la varietà e la diversità dei molteplici fattori che hanno generato questa spinta. Hanno inciso certamente l’impresentabilità dei “mostri” oggi al comando, la loro disgregazione interna, la crisi dello stesso blocco sociale che li ha espressi. 
Ma come non riconoscere che è fondamentale, dentro questo dato, il peso della collera della crescente povertà, di chi subisce l’ingiustizia dilagante, la privazione del lavoro e dei suoi diritti, la negazione di futuro e del presente stesso? C’è dentro l’indignazione per le discriminazioni ed i soprusi di ogni tipo, il saccheggio dei beni comuni, lo spreco e la distruzione delle risorse naturali e dell’ambiente. C’è la consapevolezza, anche di chi non è morso così forte dalla crisi, che questo modello di economia e di società debba necessariamente imboccare una vera alternativa. 
E allora, se questo è il vento, non si tratta semplicemente di cambiare il timoniere, come già avvenuto infruttuosamente nel passato, ma di lavorare per invertire decisamente rotta! Altro che le ricette, riproposte proprio in questi giorni, da Emma Marcegaglia ad una platea plaudente, larga e trasversale! Proprio le medesime ricette velenose che ci hanno condotto in questa “macelleria sociale” e che sappiamo essere care da sempre a larga parte dello stesso fronte del centrosinistra che ha sostenuto in queste elezioni i nostri stessi candidati vittoriosi. Tagli alle tasse per le imprese ed alla spesa sociale, privatizzazioni e grandi infrastrutture. 
No. Oggi è necessario più che mai il coraggio di un netto cambiamento, di dare avvio ad una vera “alternativa di società” che, in vista dell’imminente e inesorabile cacciata del sultano da palazzo Chigi, questi nuovi sindaci possono iniziare a far vivere nei loro rispettivi territori. Stoppando, per fare qualche esempio, grandi infrastrutture speculative, privatizzazioni, poli logistici, centri commerciali, inceneritori di rifiuti, inutili consumi di territorio. Puntando invece su una nuova economia basata sulla conoscenza, la sostenibilità, la qualità e soprattutto sulla giustizia e l’equità sociale. Un cambiamento che, per essere tale, faccia leva sul conflitto sociale e sulla partecipazione. Perché non basta e non funziona l’affidarsi a nuovi timonieri, magari esperti e illuminati. Bisogna farlo ricorrendo a un modo nuovo di “navigare”. Un modo basato appunto sulla socializzazione delle conoscenze e sulla più larga partecipazione. 
Anche questo ci dicono i risultati di ieri, scaturiti non a caso da coinvolgenti percorsi partecipativi in cui, tanto Pisapia quanto De Magistris e Zedda, non sono apparsi come leader carismatici o nuovi messia ma quali garanti dell’unica vera pratica del cambiamento: quella democrazia che chiama in causa la società e la spinta innovatrice dei suoi conflitti. 
Ma siccome, avrebbe detto Seneca, «non c’è buon vento per marinaio che non conosce la rotta», c’è una bussola pronta ad indicarla. Sono i referendum sull’acqua e il nucleare. La loro vittoria, che non possiamo mancare, può affermare l’indisponibilità dei beni comuni e la necessità di ricostruire attorno ad essi una comunità partecipante che se ne prende cura collettivamente con scienza e con coscienza, per garantirne i benefici per tutti e per ognuno. Che poi tradotto in due parole vuol dire: bene comune. Senza dimenticare il quesito sul legittimo impedimento per dare voce a quell’indignazione nei confronti dell’arroganza del potere che è componente essenziale dell’ondata di Milano e Napoli. C’è da ricostruire la res pubblica. L’esatto contrario del neoliberismo in salsa italiana, con i suoi insopportabili privilegi, le sue cricche corrotte, la sua prepotenza nel cancellare diritti, la sua volontà famelica di accaparrarsi i beni comuni. 
Per chi come noi della Federazione della Sinistra, da posizioni minoritarie e scomode, da tempo indica e lavora in quella direzione si riaprono pertanto spazi politici ed ambizioni nuove. Nuove responsabilità di lavorare ad un’ampia ed unitaria sinistra d’alternativa, capace di progettare e praticare quella diversa rotta economica e sociale, opposta al berlusconismo ma anche alle sirene della Marcegaglia ed ai ricatti di Marchionne. Si offrono inedite opportunità di praticare questa rotta con una diversa idea partecipata di “navigazione” che il vento nuovo ci consente. 





La Federazione della Sinistra vince e scompare dai media



Scomparsi di nuovo dai giornali e tv. Per molti commentatori addirittura a Napoli De Magistris era sostenuto da SEL e non dalla Federazione della Sinistra, se poi SEL non elegge e la FDS porta a casa 6 consiglieri comunali questo non fa notizia, la retorica continua. Del sostegno a Pisapia poi nemmeno a parlarne, contano più i radicali. C'è una sinistra in Italia che non deve apparire mai. Ci sono simboli e nomi che devono essere cancellati dal dibatitto pubblico non solo dalla stampa di regime ma anche da quei giornalisti che si professano tali. Così capita spesso che quella libertà di stampa che difendi è la stessa che ti nega parola e visibilità, è la stessa che ti censura. Fuori misura l'atteggiamento di personaggi del calibro di Santoro e Floris che in una stagione televisiva non hanno mai invitato un esponente della FDS. Altrettanto l'atteggiamento di Fabio Fazio che prima ha pubblicamente detto che non esistevamo e poi, ha spiegato a tutti che non capivamo le battute. Nulla sia chiaro rispetto al giornale di De Benedetti, che sponsorizza da mesi con "sondaggi cocainomani" altri cavalli che purtroppo non si sono dimostrati all'altezza delle aspettative. Fatto sta che l'oscuramento continua, come se niente fosse continua, come e più di prima. C'è una sorta di processo relazionale anticomunista che influisce in questo meccanismo, in parte agito da chi nel centro sinistra ha sistematicamente operato per la nostra cancellazione politica - Veltroni e la sua gang, che ha molti stipendiati nel sistema mediatico - ed in parte frutto del meccanismo stesso dei media che funziona per copia e incolla. Una dinamica che incide non solo per quanto riguarda la produzione delle notizie, ma anche per quanto riguarda la produzione delle opinioni, del senso comune. Come rispondere a questo meccanismo è difficile, lisciare il pelo ai poteri forti per apparire è uno sport che lasciamo ad altri, il radicamento sociale serve ma di per se non è sufficiente a costruire una dimensione comunicativa in grado di incidere sul senso comune, la rete è utile, come lo è liberazione, ma da sole non bastano. Pensare di risolvere questo gap semplicemente con un'impresa di marketing comunicativo è poi come prendere un calmante, estremamente costoso, i cui effetti poi non sono certi. Presidiare la RAI e denunciare la censura è sacrosanto ma non incide nei rapporti di forza. 
C'è allora un tema che nessuno coglie nella complessità del sistema comunicativo, ed è dato dalla totale subalternità del mondo intellettuale al sistema dominante. Una matrice di produzione delle opinioni e di senso comune che influisce in questo processo di banalizzazione del presente. Se vogliamo rompere il meccanismo di oscuramento verso una forza che in maniera "oscena" espone i simboli della rivoluzione e del lavoro, è necessario che la sfida si porti anche su questo terreno.

venerdì 27 maggio 2011

La lotta alla Fincantieri

Intervista al Segretario Generale della FIOM; Maurizio Landini


MAURIZIO LANDINI Il segretario Fiom difende il lavoro e chiede una nuova politica economica. Se non si rilancia Fincantieri crolla un altro pilastro del manifatturiero. Va ripensato il sistema di mobilità di persone e merci. La società civile deve sostenere le lotte operaie 

«È singolare che la Confindustria, dopo aver condiviso e sostenuto le scelte di questo governo ora le critichi. La seconda cosa che vorrei dire alla presidente Marcegaglia è che la linea di attaccare i contratti nazionali e cancellare la contrattazione non li porta fuori dalla crisi ma fuori dal mercato. Non affrontano i nodi di fondo della crisi che richiederebbero un'assunzione di responsabilità da parte loro, investendo sull'innovazione, sulla ricerca, su una riconversione industriale che metta al centro la qualità e il rispetto del lavoro e la qualità e la compatibilità sociale e ambientale del prodotto». Il «signornò» Maurizio Landini risponde alle accuse di Emma Marcegaglia alla Fiom e alle proposte uscite dall'assemblea confindustriale. Con lui parliamo soprattutto di Fincantieri, ma essendo chiamata ancora in causa la Fiom, che per i padroni (e non solo) sembra essere l'unico ostacolo all'uscita dalla crisi, non possiamo che iniziare da qui. 

Invece di essere contento che anche i padroni se la prendono con il governo ti metti a fare i distinguo? 
Voglio solo ricordare a Emma Marcegaglia che la Fiom è il sindacato che ha firmato più accordi, i nostri iscritti stanno crescendo e a ogni rinnovo delle Rsu usciamo premiati dai lavoratori. Una seria Confindustria dovrebbe fare i conti con questa realtà e contribuire a ricostruire buone relazioni sindacali invece di insistere sulla linea degli accordi separati. E non è con la libertà di licenziare che si esce dalla crisi ma con un serio progetto di politica industriale, che riguarda tutti, certo il governo ma anche le imprese. Il governo e le imprese dovrebbero chiedersi cosa, come, dove, perché produrre, e quale sistema di relazioni democratiche bisognerebbe costruire. Attivando la scienza, le università e la ricerca, confrontandosi con i sindacati su come andare avanti e non su come chiudere stabilimenti e licenziare. La Fiom nei prossimi giorni aprirà una discussione di massa per riconquistare il contratto nazionale, anche innovando il sistema di relazioni sindacali, definendo criteri democratici di rappresentanza e confrontandoci sulla qualità del lavoro e dei prodotti. 

Veniamo alla Fincantieri, senza dimenticare Fiat e ThyssenKrupp: una tegola dopo l'altra... 
L'annuncio irricevibile di Fincantieri che pretende di chiudere impianti e licenziare a man bassa, mette a rischio un altro importantissimo pezzo del sistema manifatturiero italiano. Che lo faccia un'azienda controllata dal ministero del tesoro è addirittura paradossale. Qui pesa l'assenza di una politica industriale del governo, e le chiacchiere sulla necessità di lasciare le soluzioni in mano al mercato, pensando di competere intervenendo sui diritti e sulla prestazione lavorativa ci stanno precipitando in un burrone. A questo punto serve un sussulto, una grande protesta sociale al fianco dei lavoratori dei cantieri, della Fiat e della ThyssenKrupp. Per affrontare la crisi non ci si può adattare, riducendo la capacità produttiva, al contrario vanno messe in moto tutte le energie professionali, tecniche, scientifiche per un grande progetto di riconversione della produzione navale, affiancando altri settori alle navi da crociera e militari. Penso a traghetti, all'off-shore. E persino a una catena di smontaggio delle vecchie navi piene di amianto e veleni che ora vengono inviate in India e in Bangladesh perché «conviene». La crisi va intesa come un'opportunità di cambiamento. Il governo deve confrontarsi con le Regioni e gli enti locali, con il mondo scientifico, sulla base di una proposta strategica. Questo chiedono i lavoratori in lotta in tutti i cantieri navali italiani. 
Qualche risposta arriva, persino dal Vaticano, dai commercianti, dalle popolazioni minacciate dai licenziamenti. Adesso persino il ministro Romani dice che non si possono chiudere stabilimenti e licenziare senza un piano condiviso. 
Se per piano condiviso intende trovare altri lavori o sostegni e lasciare morire il sistema industriale navale, non se ne parla. Bisogna salvare, qualificare e rilanciare questo settore. 

Forse un progetto per salvare il navale dovrebbe rimettere in discussione l'intero sistema di mobilità. 
È ovvio, basti pensare alla Fiat oltre che a Fincantieri, mentre si ragiona a compartimenti stagni invece che di mobilità compatibile delle persone e delle merci. Da Fiat in Italia non riusciamo a vedere neanche il piano industriale, nemmeno fosse un segreto militare, mentre Marchionne scala la Chrysler e ha in testa solo gli Usa. E negli Usa, a differenza dell'Italia, il governo ha un progetto e pone le condizioni e i vincoli alle imprese. Fuggono indisturbate le multinazionali italiane, per non parlare di quelle straniere come la ThyssenKrupp che pure a Terni - dopo la chiusura drammatica di Torino che ben conosciamo - ha una produzione importante e competitiva di acciai speciali. Ti pare che i lavoratori, nelle fabbriche e nei cantieri, devono essere lasciati soli a difendere, insieme al posto di lavoro, un futuro industriale del paese? 
Almeno alla ThyssenKrupp e nei cantieri navali resiste un'unità delle forze sindacali. 

Perché in Fiat no? 
Lo chiedi a me? Va specificato che per lo meno TK e Finmeccanica non pretendondo deroghe al contratto nazionale e l'unità tiene. Spero che gli altri sindacati riflettano su quel che sta avvenendo alla Fiat, anche perché il modello Marchionne fa strada, e in Fincantieri cominciano a dire che chi sopravviverà ai licenziamenti dovrà essere tosato con interventi insensati sulla prestazione lavorativa e i diritti. È un'idea balorda in una filiera che andrebbe ricostruita dopo gli smembramenti a colpi di appalti e subappali. Non è la singola prestazione che va rivista, ma l'intera filiera navale. 

di LORIS CAMPETTI - IL MANIFESTO del 27 MAGGIO 2011


Napolitano anti-scippo

NAPOLITANO ANTI-SCIPPO



Nulla di sostanziale è cambiato con l'approvazione definitiva del decreto omnibus, che contiene lo «scippo» del referendum sul nucleare. Già sapevamo che non c'erano le condizioni di necessità ed urgenza previste dalla Costituzione, come ribadito da un appello di giuristi ed intellettuali, pubblicato sul sito www.siacquapubblica.it e sottoscritto da quasi 8000 persone (si può ancora farlo). 


E già sapevamo che la sospensione del piano energetico altro non è che un tentativo furbesco di depotenziare la tornata referendaria del prossimo 12 e 13 giugno, che proverà ad assestare il colpo del ko ad un governo già traballante. Prevedibile era anche il voto di fiducia, date le condizioni sgangherate di una maggioranza parlamentare che non è in grado di affrontare alcuna discussione nel merito dei problemi. 
Del resto, era stato proprio un voto di fiducia, quello con cui era stato approvato alla Camera il decreto Ronchi lo stesso giorno in cui in Senato veniva presentata la proposta di legge della Commissione Rodotà, a costringerci al referendum sull'acqua bene comune. Mentre sarebbe stata necessaria una discussione seria sulla strutturazione giuridica del nostro patrimonio pubblico e dei nostri beni comuni, ecco che il governo tentava il saccheggio definitivo di acqua e servizi pubblici. 
Neppure imprevedibili erano le scorrettezze del governo per scongiurare scongiurare dei referendum temuti perché rappresentano la prima risposta istituzionale di rango costituzionale, in un paese occidentale, espressamente contraria al modello di sviluppo neoliberista. Una tornata referendaria contro l'ideologia delle privatizzazioni e la concentrazione del potere tipica di un modello di sviluppo fondato su grandi opere inutili e dannose come le centrali nucleari non poteva che scatenare ogni sorta di interesse contrario. Se a questo si aggiunge, in salsa italica, una battaglia per la sottoposizione alla legge del Presidente del Consiglio, non può sfuggire il significato politico potenzialmente dirompente della partita che abbiamo aperto. 
In una prima fase Ronchi e Tremonti hanno cercato di far credere che fosse stata l'Europa ad averci dettato la privatizzazione dell'acqua e che quindi i referendum non fossero ammissibili. Questa tesi sfidava il buon senso, visto che in Francia si è ripubblicizzato e in Olanda da sempre si usa un modello pubblico partecipato. Sconfitta questa tesi alla Corte Costituzionale, il governo ha investito 350 milioni di euro per far fallire il quorum, rifiutando l'accorpamento con le amministrative. Non pago dello sperpero, dopo l'incidente atomico di Fukushima, che aveva trasformato il referendum sul nucleare nel vero traino dell'intera operazione quorum, ha posto in essere una campagna, anche mediatica, fatta di un mix fra silenzio e mistificazione della realtà. 
Tuttavia l'effetto boomerang del tentativo truffaldino di scippo referendario inserito nel decreto omnibus è stato evidente. Oltre all'appoggio ufficiale del Pd, abbiamo incassato quello, molto importante, del mondo cattolico e forse perfino della Lega. Un sostegno naturale, quest'ultimo, vista la brutale centralizzazione del potere operata dalla legge Ronchi, che toglie ai territori ogni possibilità di scelta su come gestire acqua e servizi pubblici. 
Adesso la palla è nel campo del Presidente della Repubblica, e soltanto se lui firmerà subito dovrà poi pronunciarsi l'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione. A costo di essere accusati, come si usa fare oggi con chi pretende che il Presidente tuteli sempre la Costituzione, di «tirare per la giacca Napolitano», mi sento di chiedergli di non firmare e di cogliere quest'occasione per «chiedere alle Camere una nuova deliberazione» (art. 74 Cost.). Il supremo garante dovrebbe rinviare loro il decreto omnibus con un messaggio che chiarisca il senso della locuzione «in casi straordinari di necessità e di urgenza» (art. 77 Cost.) e soprattutto il significato costituzionale del voto di fiducia. Questa sarebbe una buona azione costituzionale, che salverebbe il referendum sul nucleare e darebbe una nuova lezione di diritto costituzionale ad una maggioranza restia ad apprenderlo. 
In caso contrario, dovrebbe essere la Cassazione a scongiurare il saccheggio della democrazia. Gli alti giudici potranno farlo semplicemente seguendo i precedenti orientamenti, secondo cui è allo spirito e non solo alla lettera della norma che devono guardare nel decidere se il referendum sia superato da un successivo provvedimento legislativo. In questo caso tanto lo spirito quanto la lettera del decreto omnibus dimostrano che esso non rende il referendum superfluo perché di mera moratoria si tratta. 

di UGO MATTEI - IL MANIFESTO del 26 MAGGIO 2011

martedì 17 maggio 2011

Vento nuovo soffia forte sul paese.

Vento nuovo soffia forte sul paese
di Dino Greco (Liberazione del 17 maggio 2011



E' davvero clamoroso il responso delle urne. A Milano, innanzitutto, dove Giuliano Pisapia surclassa Letizia Moratti, sicché al ballottaggio si andrà, sì, ma con rapporti di forza diametralmente opposti rispetto a quelli dati per certi da quanti, nel Pdl, dubitavano che la screditata sindachessa uscente potesse farcela al primo turno. E poi, fatto non meno e, per molti versi, ancor più straordinario, a Napoli, dove Luigi De Magistris, sostenuto dalla Federazione della Sinistra, dai centri sociali, dai movimenti, sovverte ogni pronostico e supera di slancio Mario Morcone, candidato del Pd e si presenterà al ballottaggio del 29 maggio come il vero antagonista di Giovanni Lettieri e di un centrodestra che aveva considerato ormai chiusi i giochi nel capoluogo campano, dopo le disastrose prestazioni di un centrosinistra devastato da un'irreversibile crisi di credibilità, maturata in anni nei quali lo scollamento della politica con la società civile, con i problemi della gente, era divenuto una voragine. Dalle due città, cuore del nord e cuore del sud, viene un insegnamento di grande valore politico: si può vincere anche (anzi, si vince proprio) se si attinge a risorse estranee all'esausto establishment, purché candidati e progetto politico abbiano il sapore della credibilità e della radicalità. La tesi - spacciata da anni per scienza politica - secondo la quale per vincere occorre spostarsi al centro, collocarsi sull'asse medio della curva ed esibire le virtù della moderazione, esce totalmente demolita da questo voto amministrativo. 
A Milano, nessuno ha abboccato all'esca avvelenata di Berlusconi e di Moratti, i quali hanno cercato di assimilare Pisapia ad un uomo dalle trascorse contiguità brigatiste. Neppure la sudicia campagna contro la magistratura milanese ha prodotto i risultati sperati. E' un ottimo segno. Vuol dire che il terrorismo ideologico che tanta rendita elettorale ha assicurato a Berlusconi non paga più e che una lunga stagione sta chiudendosi. 
Diversamente a Napoli, una città in cui cospicua parte della politica è collusa con la criminalità organizzata o infiltrata dalla camorra. E, in ogni caso, si è dimostrata incapace di sottrarsi al condizionamento asfissiante di un groviglio di interessi che pesa come un macigno sulla società civile di cui ha frustrato ogni speranza di cambiamento. Ebbene, è dimostrato che anche in una situazione così compromessa esistono risorse vitali, pronte a tornare in campo, ad investire nel futuro, purché sia chiaro e percepibile che ne vale la pena. 
Proveremo, nei prossimi giorni, ad esaminare il voto, nell'insieme e nei dettagli, oltre l'esito relativo alle città che più hanno impresso il segno politico a questa competizione. 
Una cosa è tuttavia sin d'ora molto, molto chiara. Sarà acrobazia problematica, per la destra, camuffare lo scricchiolio delle sue giunture. E lo stesso Pd farà bene a prestare orecchio a ciò che si muove alla sua sinistra.

Sanità in Valtellina: disagi per i degenti e rischio chiusura

Le vicende che coinvolgono le strutture ospedaliere nella nostra provinciaconfermano amaramente le previsioni di chi per anni ha tentato di mettere in guardia Valtellinesi e Valchiavennaschi rispetto alle sciagurate politiche sanitarie filo privatistiche di Formigoni e delle destre.
Perché è del tutto evidente che il cosiddetto il cosiddetto “modello lombardo”, dietro l’accattivante slogan della “libertà di scelta” , era stato pensato per consentire ai privati di mangiarsi una fetta sempre più consistente delle prestazioni sanitarie grazie a politiche di graduale disinvestimento nelle strutture pubbliche.
il sommarsi di disinvestimenti nel tempo è stato funzionale al precipitare della credibilità della sanità pubblica fino ai clamorosi fatti di questi giorni che hanno visto l’ emergere di strutture non in regola con le normative di sicurezza, di degenti da dover trasferire, di lavoratori preoccupati per il proprio lavoro, di ospedali a rischio di chiusura.
Certo che ogni voto dato alle destre in questi anni – Lega compresa- è risultato essere una picconata ai nostri ospedali.
Crediamo che non solo debbano emergere nomi e cognomi di chi non sapendo gestire le risorse ha prodotto situazioni di disagio per cittadini e degenti, ma che tutta la politica sanitaria debba essere rivista in una prospettiva di salvaguardia e di riqualificazione e potenziamento dei presidi ospedalieri provinciali.

Sondrio, 10.05.2011
Per Rifondazione Comunista – Federazione della Sinistra
Massimo Libera

sabato 14 maggio 2011

Applausi

APPLAUSI
di Dino Greco (Liberazione del 12 maggio 2011)
Il direttore di Confindustria, Giampaolo Galli, ha ritenuto di doversi scusare con i familiari delle vittime del rogo della Thyssen Krupp e con l'opinione pubblica che si sono sentiti «colpiti e offesi» per l'applauso (una vera ovazione) che l'assemblea generale di Confindustria ha riservato ad Harald Hespenhahn, amministratore delegato del gruppo industriale tedesco. Atto doveroso, non so dire se scontato, ma immediatamente bilanciato dall'affermazione successiva, che recita testualmente così: «Quell'applauso va capito, perché è spontaneo in una platea di imprenditori e perché le imprese sono preoccupate per l'estrema incertezza del diritto in Italia». Preoccupate di cosa? E perché proprio ora? Non risulta che la pressoché totale impunità garantita in questi anni agli imprenditori che si sono resi responsabili di gravissimi infortuni sul lavoro, abbia mai generato apprensione o «incertezza del diritto» nel padronato italiano. Questa angoscia che morde la vocazione imprenditoriale, sino a rischiare di comprometterne la propensione all'investimento, sarebbe invece provocata dall'applicazione, inconsueta quanto rigorosa, della Costituzione. La quale prescrive che l'iniziativa imprenditoriale non debba porsi in contrasto con la libertà, la sicurezza, la dignità dei cittadini. Se incertezza del diritto vi è sin qui stata e vi è, essa ha riguardato e riguarda le molteplici, colpevolissime amnesie con cui si continuano a tollerare condizioni di lavoro inaccettabili, subìte da lavoratori non in grado di opporvisi e che costituiscono una modalità ordinaria della prestazione di lavoro di tante persone. Ci chiediamo inoltre se le scuse in cui si è profuso Giampaolo Galli siano anche riferite alle parole, non meno inquietanti, che Emma Marcegaglia ha pronunciato, in perfetta sintonia con umori e istinti della platea in visibilio per Hespenhahn. Ci chiediamo cioè se, depurato dalle scuse, rimanga fermo l'attacco frontale all'esemplare inchiesta condotta dal procuratore Raffaele Guariniello e alla sentenza di condanna pronunciata dai giudici torinesi; se, cioè, nel nome della libertà di impresa si possa continuare a sacrificare l'incolumità fisica di chi in fabbrica ci va per vendere la propria forza lavoro, ma non la propria vita. Perché questa è la madre di tutte le questioni: il resto sono chiacchiere. Dunque quell'applauso, egregio direttore di Confindustria, non va affatto «capito», va soltanto condannato. E il pronunciamento del tribunale di Torino deve essere salutato come un sussulto di civiltà, un punto fermo, di non ritorno, nell'edificazione di una società in cui il valore del lavoro sovrasti quello del (vostro) denaro.

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