sabato 24 aprile 2010

BUON 25 APRILE


Il rapido succedersi, senza soluzione di continuità, del moto insurrezionale nei tre grandi centri del triangolo industriale ha una sua logica politica e militare. La tempestiva rivolta di Genova stronca il deflusso delle forze tedesche verso Torino e Milano, che a loro volta entrano in azione al momento giusto con tutto il peso delle loro masse operaie cittadine e delle agguerrite formazioni partigiane prementi alla periferia.

Anche nel momento dell'insurrezione il quadro colpisce per l'unità del moto nazionale e la funzione dirigente della classe operaia e delle forze popolari. A chi gli consiglia di acconsentire al transito dei tedeschi per evitare il bombardamento della città, il comandante Rosa risponde: «io non faccio la guerra per Cuneo, ma per l'Italia». E nella risposta vi è la sintesi di una progredita e rinnovata coscienza nazionale.

Il 19 aprile, il prefetto di Milano annuncia con un ordinanza che si sarebbe proceduto all'immediato arresto di tutti gli operai che si fossero ancora astenuti dal lavoro. La risposta non tarda: al mattino del 23 i comitati di agitazione proclamano lo sciopero generale ad oltranza dei ferrovieri che abbandonano compatti il lavoro, militi della ferroviaria compresi. Il 24 il bollettino tedesco non arriva più ed al mattino tanto il comando delle Garibaldi quanto il triumvirato unitario (Longo, Pertini, Valiani) impartiscono l'ordine dell'insurrezione, che per Milano deve scoccare alle ore 14 dell'indomani.

«La battaglia insurrezionale precipita verso la sua conclusione vittoriosa, nelle fabbriche, negli uffici, nelle aziende non si deve più lavorare. Dappertutto alle armi, alla lotta per imporre la resa ai nazifascisti, per salvare dalle distruzioni i nostri impianti e le nostre città».

Le contestazioni sulle ore precise in cui questo o quest'altro partito o comitato ha dato per primo l'ordine di insurrezione, per vantarne la priorità, hanno scarsa importanza nel momento in cui sul quadrante della storia batteva la grande ora della libertà per tutti i popoli d'Europa e le notizie volavano sulle onde di tutte le radio. Non vi fu forse una sola località ove, quando giunse l'ora di applicare i piani insurrezionali, operai e contadini, partigiani, gappisti e sappisti non fossero già in azione.

Le notizie che l'esercito rosso è entrato a Berlino, nel centro dell'imperialismo nazista e del militarismo prussiano, che le armate sovietiche, inglesi, americane hanno occupato i centri nevralgici della Germania, che le unità corazzate di Tolbukin avanzano velocemente sull'autostrada Vienna-Venezia, sono di dominio pubblico e rimbalzano con la velocità del suono; i comandi partigiani di tutte le zone non sono più in attesa di ordini, ognuno sa che cosa deve fare.

I tram si arrestano a Milano alle 13 del 25 aprile, alla stessa ora inizia lo sciopero generale insurrezionale e l'occupazione delle fabbriche. Come già a Torino, anche a Milano più che non gli schematici piani militari, sono decisive le fabbriche. Qui vi è il concentramento delle maggiori forze operaie, nelle officine vi sono i depositi d'armi. E' dalla Pirelli, dalla Breda, dalla Falk, dalla Innocenti che escono le squadre gappiste e sappiste per andare all'assalto delle caserme, dei posti di blocco fascisti e repubblichini; la fabbrica è il punto di concentramento, il fulcro della lotta.

Tutte le officine di Sesto sono occupate, la popolazione manifesta nelle strade. I tedeschi attaccano la Pirelli con i carri armati per liberare i loro «camerati» fatti prigionieri dagli insorti. Dopo alcune ore di ostinata resistenza gli operai che non dispongono né di mortai, né di cannoni anticarro sono costretti ad abbandonare lo stabilimento che rioccuperanno all'indomani. I nazisti riescono a rioccupare anche la Innocenti, ma il comando dei garibaldini milanesi (Pietro Vergani, Italo Busetto, Lamprati, ecc.) riesce ad ammassare rapidamente gli operai della Olap, della Bezzi, di altre fabbriche del rione, ed i tramvieri di via Teodosio che vanno all'attacco costringendo i tedeschi alla resa e rioccupando lo stabilimento.

Mentre nei quartieri popolari ferve la lotta ed alcune caserme repubblichine, tra cui quella di Niguarda, sono già occupate dagli insorti, avviene all'arcivescovado l'incontro tra Mussolini ed alcuni esponenti designati dal CLNAI, il generale Cadorna, Riccardo Lombardi, Achille Marazza. Situazione paradossale, malgrado lo sciopero insurrezionale in atto, la città è ancora nelle mani di notevoli forze tedesche e fasciste. Ciononostante alcuni esponenti del movimento di liberazione si recano inermi ed indifesi all'arcivescovado per incontrarsi col capo del governo nemico che va al convegno accompagnato dal comandante dell'esercito fascista, Graziani, scortato da carri armati e autoblinde. Ma nelle ore in cui la tirannia crolla tutto è possibile. Le trattative ormai note, superfluo il soffermarvicisi ancora, si svolgono in un'atmosfera tesa. Il duce, che sino all'ultimo s'è illuso di essere lui a «consegnare il potere» a qualcuno, pensa ancora di poter trattare. Gli rispondono offrendogli una sola possibilità: la resa senza condizioni. Il cardinale Schuster non rinuncia all'ultimo tentativo per salvare «l'uomo della Provvidenza» e rinnova l'invito a «trovare un punto d'accordo onde risparmiare alla popolazione inutili sofferenze».

La conversazione si anima, poi bruscamente Mussolini si alza, dice che va a parlare con Wolff e farà conoscere la sua decisione entro un'ora. Ma non ritorna più. Alle 21, quelli rimasti in arcivescovado vengono a sapere che Mussolini ha deciso di rompere le trattative ed è partito per ignota destinazione. Non importa, tanto la sua sorte è segnata, non andrà lontano.

Nella stessa notte tra il 25 e il 26 le forze patriottiche occupano gli edifici pubblici, la stazione radio, le tipografie dei principali giornali. Come a Torino anche a Milano la guardia di finanza, comandata dal col. Malgeri, è dalla parte degli insorti e occupa la prefettura ed altre caserme. La 117a brigata Garibaldi assalta la sede fascista della Oberdan, la 118a il Policlinico, la 124a l'aereoporto Forlanini, un distaccamento della 117a la Rací e cattura Achille Starace ex segretario del partito fascista; la 116a s'impadronisce di un treno blindato e, in via Varesina, costringe alla resa una colonna tedesca; la 125a occupa l'aeroporto di Taliedo.

I matteottini, con alla testa Sandro Faini («Oliva»), assaltano il parcheggio dei carri armati alla Fiera campionaria. Bruno Trentin guida squadre sappiste e di GL nel combattimento all'Arena.

Impossibile seguire tutte le azioni, ogni brigata punta decisamente al suo obiettivo, si combatte ancora attorno ad alcune caserme, stazioni, e officine. Ma il grosso delle formazioni tedesche e fasciste ha già lasciato la città. L'alba del 26 vede lunghe colonne di autocarri uscire da porta Sempione, attaccate ed inseguite dai partigiani e dai patrioti.

Alla sera del 26 i partigiani sono già padroni della città sino alla vecchia cerchia dei navigli ed il 27 l'intera Milano è sotto il controllo delle forze insurrezionali; appostati sui tetti o dalle feritoie delle cantine gli ultimi fanatici fascisti hanno improvvisato nidi di cecchinaggio, destinati ad esser rapidamente eliminati.

La vittoria insurrezionale di Milano è relativamente facile, costa ai patrioti minori perdite che non a Genova o a Torino: complessivamente una trentina di morti ed un centinaio di feriti in città; più grande il numero dei caduti nell'immediata periferia.

La preparazione e la decisione degli insorti hanno avuto il loro peso, ma soprattutto decisiva è stata la demoralizzazione del nemico in seguito alla capitolazione dei tedeschi ed alla fuga di Mussolini e dei gerarchi fascisti.

Alle ore 20,30 del 27 al Comando generale del CVL perviene dalla 52a brigata Garibaldi-Luigi Clerici il messaggio: «Mussolini, Pavolini, Bombacci sono stati arrestati. Seguiranno altre notizie». Queste arrivano due ore dopo con i nominativi dei catturati. Sono noti i particolari dell'arresto di Mussolini e della sua banda. Un distaccamento di garibaldini in missione per andare a cercare qualche pacco di sigari trova invece... Mussolini. Le vie del tabacco, come quelle del Signore, sono veramente infinite. Altrettanto noti i particolari della fucilazione del «duce» e della Petacci in località Giulino di Mezzegra (Como) su ordine del CLNAI.

La decisione era già stata presa dal Comando generale del CVL in uno scambio di opinioni avvenuto all'inizio dell'insurrezione, sulla sorte da riservare a Mussolini nel caso fosse stato catturato dai partigiani.

«Lo si deve accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche» fu la proposta di Luigi Longo che aggiunse: «E' da tempo che il popolo italiano ha pronunciato la sentenza, non si tratta che di eseguirla». Gli altri membri del comando furono concordi. Tuttavia l'esecuzione della sentenza non fu facile perché ci fu chi cercò di mettere il proverbiale bastone tra le ruote.

Appena giunta al comando del CVL la notizia della cattura di Mussolini vengono immediatamente inviati il col. «Valerio» (Walter Audisio) e Guido Lampredi con un plotone di garibaldini dell'Oltrepò pavese appena giunti a Milano; il plotone ha l'ordine di fare giustizia.

All'indomani mattina racconta Luigi Longo, «mentre mi trovavo al comando fui chiamato al telefono da Como. Era "Valerio" che voleva informarmi della situazione. Un vociare, un intrecciarsi di strida, risuonavano nella stanza da cui "Valerio" telefonava. Ad un tratto sento "Valerio" gridare come un ossesso: "Fuori di qui altrimenti vi faccio fuori io". La situazione era questa: quelli del CLN di Como erano più terrorizzati che onorati della cattura di Mussolini. Sollevavano ogni possibile eccezione per non guidare Lampredi e "Valerio" dove si trovava Mussolini. Si capiva che era giunto qualche agente americano per fare valere particolari diritti sulla persona di Mussolini. "Valerio" chiedeva istruzioni. La risposta fu semplice: "O fate fuori lui o sarete fatti fuori voi". Non ci fu — conclude Longo — bisogno di altro. Sentii sbattere il ricevitore sull'apparecchio telefonico e mi immaginai il colonnello "Valerio" filare dritto, dritto, senza più esitazione alcuna per la missione cui era stato comandato».

Il quartier generale alleato immediatamente informato della cattura di Mussolini, al mattino del 28 fa pervenire al CLNAI due pressanti messaggi; il primo dice: «Per CLNAI stop Comando alleato desidera immediatamente informazioni su presunta locazione Mussolini dico Mussolini stop Se est stato catturato si ordina egli venga trattenuto per immediata consegna at comando alleato stop Si richiede che voi portiate queste informazioni subito et notifichiate formazioni partigiane che avrebbero effettuato cattura del suddetto ordine che riceve assoluta precedenza».

Due ore dopo arriva il secondo messaggio: «Per CLNAI dico CLNAI stop XV gruppo d'armate desidera portare Mussolini et Graziani dico Mussolini et Graziani at sede comando alleato stop Se voi siete disposti a rilasciarli est possibile inviare quadrimotore per prelievo».

Gli alleati non avevano mai avuto così grande fretta nelle loro operazioni, ma gli italiani avevano più fretta di loro. Nel momento in cui incalzano con i loro messaggi, giustizia è già fatta. Ed è importante sia stata fatta dagli italiani in nome del popolo italiano.

Due giorni dopo, quando il col. Poletti, commissario per la Lombardia del governo militare alleato arriva a Milano, accompagnato dal col. Hancock OBE vicecommissario, si congratula con alcuni aperti «O.K.» per «il magnifico lavoro fatto». Al ricevimento dato in prefettura dalle autorità, in suo onore, il Poletti dichiara tra l'altro: «Siamo andati a spasso per Milano. Abbiamo trovato ordine, disciplina. Siamo stati anche a piazzale Loreto. Esprimiamo la nostra soddisfazione al CLNAI e ai partigiani per il magnifico lavoro fatto». A guisa di commento un ufficiale del seguito di Poletti cita una sentenza americana: «L'albero della libertà fiorisce solo là dove l'irrorano periodicamente col sangue dei tiranni e dei martiri».

Alla sera del 27 fanno il loro trionfale ingresso in Milano esultante i partigiani dell'Oltrepò, al mattino del 28 quelli della Valsesia e dell'Ossola: sono in ritardo sui piani prestabiliti, ma la realtà è sempre più complessa di ogni previsione. La loro non è stata una passeggiata, hanno dovuto aprirsi il varco combattendo; l'ultimo scontro prima di arrivare a Milano, quelli dell'Oltrepò l'hanno sostenuto a Casteggio ed i valsesiani si sono scontrati duramente col nemico prima di Novara, a Busto ed in altre località lungo la strada per Milano.

Impossibile se non con qualche accenno seguire il divampare del moto insurrezionale che si svolge con semplicità, ma fugacemente come in un film. A Brescia la popolazione è insorta all'arrivo dei partigiani. Dalla val Brenda i combattenti delle varie formazioni hanno fatto irruzione a Bergamo il 28. Tutta la zona compresa tra le Alpi Orobie a nord, il lago d'Iseo ad est ed il lago di Como ad ovest e la strada Brescia-Como sono libere. In quest'ultima città quelli delle Matteotti e delle Garibaldi hanno sgominato gli ultimi reparti della X Mas.

Nella Valcamonica ed in Valtellina le Fiamme verdi combattono le ultime battaglie; sin dal 26 i partigiani della Sondrio hanno liberato Chiesa Valmalenco mentre quelli della Stelvio sono a Sondalo. Dopo aver salvato le centrali elettriche, GL e Garibaldi irrompono a Sondrio. In queste ultime cruente azioni la 1a divisione alpina GL, subisce gravi perdite, cade tra gli altri il col. Edoardo Alessi, ma nulla ormai rimane di quello che avrebbe dovuto essere il fantomatico ridotto alpino che Pavolini intendeva attrezzare ad estrema difesa.

giovedì 22 aprile 2010

25 aprile: parte la raccolta firme per l'acqua Pubblica


Il 25 Aprile la Federazione della Sinistra sarà presente alla commemorazione della Liberazione dal nazifascismo che si terrà a Morbegno. Sarà presente anche il banchetto della raccolta firme dei referendum sull'acqua.
Per più informazioni sui referendum si può far riferimento al sito del comitato provinciale a sostegno dei referendum http://acquasondrio.blogspot.com/ oppure al sito nazionale www.acquabenecomune.org

venerdì 16 aprile 2010

25 Aprile all'Arci Demos, 1 Maggio al Forno


Per ingrandire le locandine, cliccare sulle immagini

martedì 13 aprile 2010

Noi stiamo con Emergency (2)


Noi stiamo con Emergency

La cifra morale dei governanti di questo nostro sfortunato Paese è ben rappresentata dal ministro degli esteri, tale Franco Frattini, il quale, di fronte al sequestro dei tre operatori di Emergency da parte dei servizi afghani in combutta con l’Isaf, con l’accusa di terrorismo, non ha trovato altre parole che queste: «Se fosse vero sarebbe una vergogna». Sarebbe, appunto. Dove quel condizionale, che sfiora la presunzione di colpevolezza, così imprudentemente ostentato, tradisce l’ostilità per l’organizzazione che ha scelto per se stessa, come missione incondizionata, l’assistenza sanitaria, per salvare vite nei luoghi più disgraziati e per le persone più povere. Ma secondo l’ineffabile ministro degli esteri italiano, c’è una macchia indelebile - confermata dalle parole del sottosegretario Alfredo Mantica - sull’organizzazione di Gino Strada: «Fanno troppa politica», dice. Dove per “fare politica” si intende la professione pacifista, la condanna senza appello della guerra, dell’inutile ferocia, della disumanità e dei danni irreparabili di cui essa si rende responsabile. Più in là di tutti si spinge Maurizio Gasparri, per il quale è la “linea” di Emergency a costituire «un grave danno per l’Italia». La convinzione di Emergency che l’occupazione militare e il sempre più attivo coinvolgimento italiano nelle operazioni militari rappresentino un errore gravissimo è motivo più che sufficiente per innescare l’odio di chi invece - abbandonati ogni remora e paravento umanitario - nel conflitto ha immerso il nostro Paese sino al collo. E si sa che quando ci sono due parti in conflitto, anche la più disinteressata iniziativa, proprio perché orientata, come nel caso di Emergency, ad offrire cure e assistenza a 360 gradi, senza esclusione alcuna, viene vissuta e spacciata per collusione con il nemico. Dove la disumanità e la violenza più efferata regnano sovrane, dove è bandito ogni sentimento di pietà, dove il gesto solidale, che richiama ad una fratellanza dimenticata, quotidianamente presa a cannonate, è considerato un pericolo. Come pericolosi, per la cattiva coscienza di chi nasconde i propri crimini dietro la propaganda di guerra, sono gli occhi di quanti, in quel teatro, sono in grado non soltanto di curare, ma anche di vedere, di capire, di testimoniare. Perché, come è noto, la prima vittima della guerra è la verità, sottoposta alla contraffazione, piegata artatamente nel suo opposto per offrire uno straccio di giustificazione a ciò che giustificazione non può avere. Abbiamo iniziato da qui perché, con tutta evidenza, il pregiudizio politico dei titolari dei dicasteri degli Interni e della Difesa, il loro sentirsi, sopra e prima di tutto, parte politica in gioco, prevale su ogni altra considerazione e giunge sino a travolgere i loro primari doveri istituzionali di ministri della Repubblica. Prendono per buone informazioni di fonte giornalistica e si preoccupano unicamente di commentarne il contenuto per dichiarare che «Emergency non fa parte della rete di organizzazioni umanitarie patrocinate dalla cooperazione italiana»; non protestano per non essere stati direttamente messi a conoscenza di un’operazione svoltasi con il palese coinvolgimento dell’Alleanza; trascurano di intervenire (o lo fanno tiepidamente e con grave intempestività) al fine di pretendere il rispetto dei diritti delle persone tuttora (illegalmente) fermate e di cui nulla è dato più sapere. Dovrebbero dimettersi, se fossero provvisti di un brandello di dignità. E qualcuno, dalla cloroformizzata opposizione parlamentare, dovrebbe chiederlo.
Dunque, il Times di Londra ha accreditato la notizia, rivelatasi falsa, di una mai avvenuta confessione dei tre uomini di Emergency prelevati dall’ospedale di Lashkar Gah: la confessione di essere terroristi impegnati in un complotto per uccidere il governatore della provincia afghana di Helmand. Ebbene, Il Giornale, nella edizione di ieri mostra di conoscere l’una e l’altra notizia: la falsa ammissione di colpevolezza e la totale infondatezza della circostanza. Dell’una e dell’altra il quotidiano di Feltri dà conto nell’articolo, ma in prima, il titolo di testa continua a recitare: «Gli amici di Strada: confessione shock». E il sottotitolo: «Preparavano agguati kamikaze». Libero batte tutti e si aggiudica lo sproloquio più clamoroso, suggerendo un sillogismo il cui senso è questo: Strada è amico dei Talebani, i Talebani sono terroristi, quindi... Piuttosto indecente. Ma perché lo fanno? Diceva un saggio che raccontare un diluvio di menzogne è come vuotare un sacco di piume: per quanto tu ti sforzi di raccoglierle, qualcuna resta sempre in giro. Vale forse la pena di aggiungere che un estremo per quanto residuo soprassalto morale dovrebbe impedire di gettare fango su persone integre. Di varcare quella soglia. Ma temo che questo limite sia stato ormai ampiamente superato e che chiedere ascolto, almeno in questo, sia una passione inutile.
Noi stiamo con Emergency.
Dino Greco

lunedì 12 aprile 2010

NOI STIAMO CON EMERGENCY



Con chi bisogna stare

Per il pedigree dell’organizzazione e per tutta la brava gente che crede nella sua missione oggi bisogna stare con Emergency
Bisogna essere pacifisti incalliti e un po’ ottusi per non lasciarsi prendere dal sospetto che qualcuno di Emergency sia veramente colpevole del complotto ai danni del governatore di Helmand.
Bisogna rifiutare la realtà per non immaginare che dei medici possano fare causa comune con quelli che curano.
Bisogna essere sordi e ciechi di fronte ai problemi del mondo per non ammettere che una organizzazione umanitaria come Emergency potrebbe ospitare dei violenti repressi mal mimetizzati dal buonismo e dal sorriso scimunito dello pseudo-buddista che crede di aver trovato la felicità interiore.

Siccome non sono pacifista, siccome cerco di stare con i piedi per terra e non ho ancora trovato alcuna pace interiore che mi lasci inebetito trovo molti aspetti della vicenda, perfino i più imbarazzanti, plausibili e comprensibili. Specie alla luce di qualche esperienza.

Anni fa una delle lettere ”dai Medici senza Frontiere” rivelava che uno di essi in Africa si era preso l’Aids andando a letto con una collaboratrice locale. Non disse nulla a nessuno, nemmeno al suo sostituto che, ovviamente, ebbe una relazione con la stessa collaboratrice e si beccò l’Aids anche lui. Alla faccia dei medici umanitari, si potrebbe dire.Alcune organizzazioni umanitarie islamiche fanno proselitismo per l’estremismo e anche contrabbando di armi. Alla faccia dell’umanitarismo, si potrebbe dire.
Alcune organizzazioni internazionali di cosiddetto sviluppo sono manifestamente agli ordini dei servizi d’intelligence e di corporazioni dedite allo sfruttamento degli uomini e delle risorse. Alla faccia dello sviluppo, si potrebbe dire.

Non ci sarebbe quindi nulla di strano che un medico di Emergency si facesse dare mezzo milione di dollari per aiutare dei terroristi. Con quello che li paga l’organizzazione, il compenso varrebbe il rischio della pelle.
Semmai di strano c’è che quella cifra viene offerta a uno straniero da chi non dà alcun valore alla vita e in un posto dove la vita non ha obiettivamente alcun valore.
I dubbi aumentano se si considera che una tale fortuna viene offerta al medico per portare un paio di scatoloni nel suo ospedale e lasciarli in bella vista in modo che vengano subito trovati: sembra più una operazione da “governatori” e servizi segreti che da terroristi.
Non ci sarebbe nulla di strano che un medico, ancorché pacifista, a forza di vedersi portare corpi straziati dalle bombe dell’umanità occidentale, desse i numeri e diventasse terrorista. Non avrebbe però bisogno di essere pagato. Lo farebbe gratis e anzi pagherebbe lui per avere l’opportunità di scaricare frustrazione e impotenza.

Non sarebbe neppure strano che Emergency non sapesse nulla delle deviazioni di alcuni suoi componenti e che quindi sia tra le vittime dei complottisti piuttosto che tra i complici. Ogni organizzazione ha le sue mele marce e nessuna organizzazione umanitaria dovrebbe essere messa sotto accusa perché uno o alcuni suoi componenti vengono meno agli impegni assunti o diventano matti.
E non è strano che il responsabile dell’organizzazione difenda a spada tratta i suoi: sia che non ne sappia niente e ancor di meno se ne sa qualcosa.

Semmai è strano che la prima dichiarazione venuta in mente al nostro Ministro degli Esteri sulla vicenda sia la condanna contro tutti i terrorismi: in pratica è l’ammissione che Emergency è una organizzazione terroristica. O almeno una di cui è lecito sospettare.

E infine non sarebbe affatto strano che i prigionieri in Afghanistan confessassero. Da quelle parti gli stranieri si salvano solo se confessano, qualsiasi cosa e alla svelta. Salvano la faccia dei loro aguzzini e così salvano la pelle. Se c’è da fare dell’eroismo o del martirio bisogna aspettare di essere tornati a casa.

Queste sono possibilità che vanno giustamente considerate con dispiacere e senza cinismo o accondiscendenza anche se qualcuno può goderne e strumentalizzarle.

Tuttavia, una volta considerate tutte le possibilità bisogna esaminare i fatti. Piaccia o non piaccia, Emergency ha fatto un eccellente lavoro in Afghanistan. La sua storia parla a suo favore in termini umanitari ma anche di indipendenza ed equidistanza dalle parti in conflitto. Semmai le leggerezze commesse in passato sono state determinate da eccesso di zelo o protagonismo, ma a fin di bene.

Ho già detto chiaramente in tempi non sospetti che Emergency avrebbe pagato caro il suo intervento “politico” nella vicenda Mastrogiacomo. Ora ci siamo.
Un altro fatto concreto è il fastidio arrecato da Emergency alle forze internazionali e ai governanti afgani ogni volta che ne ha denunciato le nefandezze.
Un fatto è che Emergency è un punto di riferimento per chiunque abbia bisogno e quindi anche per i cosiddetti talebani. Un fatto è che Helmand è ancora una roccaforte dei ribelli pashtun e che il loro smantellamento deve necessariamente passare per quello di qualsiasi organizzazione che li aiuta, anche se per i soli aspetti umanitari.
Un fatto è che la politica inglese di conquistare i cuori degli afgani di Helmand è fallita e ora, nonostante le promesse di Obama, si sta ritornando alla mattanza.
Un fatto è che in Afghanistan è in atto una lotta fra organizzazioni internazionali alla ricerca di giustificazioni sia degli insuccessi sia dei soldi spesi ed Emergency si è invece distinta per i successi e il favore della gente.
Un fatto è che la provincia di Helmand , come altre in Afghanistan, è affidata a politicanti di professione che ruotano ogni due anni traendo il massimo profitto e che si reggono solo sul favore delle truppe straniere.

Il governatore Gulab Mangal, presunta vittima del complotto, vive nel terrore, il figlio è sotto continua minaccia e lui stesso è scampato a diversi attentati veri o presunti. Gli inglesi che si sono sempre scelti il governatore di Helmand cominciano a dimostrarsi stanchi di proteggerli senza avere nulla in cambio ed Emergency non li ha certo aiutati a gestire la provincia. Da questi fatti deriva la concreta probabilità che Emergency sia finita sotto la mannaia della vendetta di alcuni e sotto la logica militare di altri.
Invece di essere bombardato (e non si esclude che prima o poi non lo sia, per sbaglio, naturalmente) l’ospedale deve essere delegittimato e la sua funzione umanitaria deve perdere di credibilità.
Dal punto di vista militare Emergency deve cessare di essere un testimone e un punto di riferimento per i ribelli. Tutti devono sapere che farsi ricoverare può essere l’anticamera dell’arresto che per gli afgani è sempre l’anticamera del cimitero.
Inoltre, il governatore deve riacquistare peso dimostrando ai suoi e ai protettori inglesi che anche le organizzazioni internazionali e gli alleati italiani ce l’hanno con lui. Solo così può sperare di continuare a fare gli affari propri.

Come ottenere tutto questo con un semplice coup di teatro è esattamente quello che si è visto finora. Una soffiata, la perquisizione, una scatola di esplosivo, una pistola, due bombe a mano attive e quattro inattive, gli agenti dei servizi che si portano dietro le telecamere, qualche soldato e poliziotto afgano e un paio di parà inglesi che si dirigono a colpo sicuro in una sala e fra decine di scatoloni individuano subito quelli sospetti.
E quindi l’arresto di nove afgani e tre italiani, la detenzione e, forse, la confessione. Perfetto, come da copione, un po’ grossolano ma sempre efficace.
Pur ammettendo ogni possibilità e perfino qualche deviazione, sono questi fatti ed il corso di eventi probabili a far prevalere l’ipotesi della trappola e dell’intimidazione.

Per questo, per il pedigree dell’organizzazione e per tutta la brava gente che crede nella sua missione oggi bisogna stare con Emergency
. Domani si vedrà.



Generale Fabio Mini

giovedì 8 aprile 2010

I tre referendum sull'acqua: cosa sono, perchè sono importanti.

Il seguente post è un po' lungo e tecnico, però serve a spiegare cosa sono i 3 quesiti referendari sull'acqua depositati in cassazione e condivisi da una larghissima coalizione di associazioni, sindacati e partiti. Sfortunatamente il partito di Di Pietro ha preferito depositare dei quesiti a parte, per motivi che ancora non ha spiegato, sicuramente ottenendo qualche minuto in più nei telegiornali.

Quesito referendario n. 1

Fermare la privatizzazione dell’acqua (Abrogazione dell’art.23 bis L. 133/08)




Il primo quesito che verrà sottoposto a referendum abrogativo riguarda l’art. 23 bis (dodici commi) della Legge n. 133/2008, relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica.

Si tratta dell’ultima normativa approvata dall’attuale Governo Berlusconi.
Al netto delle deroghe successivamente introdotte, la norma disciplina l’affidamento della gestione del servizio idrico, del servizio raccolta e smaltimento rifiuti e del trasporto pubblico locale. Essa stabilisce come modalità ordinarie di gestione del servizio idrico l’affidamento a soggetti privati attraverso gara o l’affidamento a società a capitale misto pubblico-privato, all’interno delle quali il privato sia stato scelto attraverso gara e detenga almeno il 40%. La gestione attraverso SpA a totale capitale pubblico viene permessa solo in regime di deroga, per situazioni eccezionali che, a causa di caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfoligiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. Deroga che deve essere supportata da un’adeguata analisi di mercato e sottoposta al parere dell’Antitrust.
Con questa norma, dando per salvaguardate le attuali gestioni già affidate a soggetti privati o a società miste, si vuole mettere definitivamente sul mercato le gestioni dei 64 ATO (su 92) che o non hanno ancora proceduto ad affidamento, o hanno affidato la gestione del servizio idrico a società a totale capitale pubblico.
Queste ultime infatti cesseranno improrogabilmente entro il dicembre 2011, o potranno continuare alla sola condizione di trasformarsi in società miste, con capitale privato al 40%.
La norma inoltre disciplina le società miste collocate in Borsa, le quali per poter mantenere l’affidamento del servizio dovranno diminuire la quota di capitale pubblico al 40% entro giugno 2013 e al 30% entro il dicembre 2015.
Promuovere l’abrogazione dell’art. 23 bis della Legge n. 166/2009 significa contrastare direttamente l’accelerazione sulle privatizzazioni imposta dal Governo e la definitiva consegna al mercato dei servizi idrici in questo Paese.


Quesito referendario n. 2

Aprire la strada della ripubblicizzazione (Abrogazione dell’art. 150 del D.lgs 152/06)




Il secondo quesito che verrà sottoposto a referendum abrogativo riguarda l’art. 150 (quattro commi) del Decreto Legislativo n. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente), relativo ala scelta della forma di gestione e procedure di affidamento, segnatamente al servizio idrico integrato.

L’articolo che viene sottoposto ad abrogazione richiama espressamente l’art. 113 del D. Lgs. n. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali), disciplinando, come uniche forme societarie possibili per l’affidamento del servizio idrico integrato, le Società per Azioni, che possono essere a capitale totalmente privato, a capitale misto pubblico privato o a capitale interamente pubblico.
Se attraverso il primo quesito si vuole contrastare la privatizzazione imposta dall’attuale Governo Berlusconi, con questo secondo quesito ci si propongono ulteriori obiettivi.
Il primo è quello di qualificare più compiutamente il percorso referendario come relativo al tema dell’acqua; infatti l’art 23 bis (primo quesito) non riguarda nello specifico il solo settore idrico.
Il secondo è relativo alla necessità di intervenire sul problema della gestione diretta del servizio idrico, attraverso forme societarie che siano idonee a svolgere una funzione sociale e di preminente interesse generale. Da questo punto di vista, la mera abrogazione dell’art. 23 bis, lascerebbe immutato il panorama di affidamento oggi interamente coperto da SpA, ovvero da società di tipo privatistico (anche quando a totale capitale pubblico).
Poiché l’obiettivo del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, e della coalizione ancor più ampia che si è costituita per avviare il percorso referendario, è sempre stato l’ottenimento della ripubblicizzazione dell’acqua, ovvero della sua gestione attraverso enti di diritto pubblico partecipati dalle comunità locali, l’abrogazione dell’articolo di cui al presente quesito non consentirebbe più il ricorso all’affidamento della gestione a società di capitali.
Infine, va ulteriormente rimarcato come la mera abrogazione dell’art. 23 bis non provocherebbe alcun sostanziale cambiamento concreto per tutta quella parte di popolazione (metà del Paese), che già oggi e da tempo ha visto il proprio servizio idrico integrato affidato a società a capitale interamente privato o a società a capitale misto pubblico-privato.

Quesito referendario n. 3

Eliminare i profitti dal bene comune acqua (Abrogazione dell’art. 154 del D.lgs 152/06)




Il terzo quesito che verrà sottoposto a referendum abrogativo riguarda l’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente), limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto dell’adeguata remunerazione del capitale investito.

Si tratta in questo caso di abrogare poche parole, ma di grande rilevanza simbolica e di forte e sostanziale concretezza. Perché la norma che si vorrebbe abrogare è quella che consente al gestore di fare profitti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza alcun collegamento a qualsiasi logica di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio.
Con un effetto per i cittadini di doppia vessazione, poiché da una parte viene mercificato il bene comune acqua, dall’altra gli utenti vengono obbligati a garantire il profitto al soggetto gestore.
Abrogando questa parte dell’articolo sulla norma tariffaria, si eliminerebbe il “cavallo di Troia” che, introdotto dalla Legge n. 36/94 (Legge Galli), ha aperto la strada ai privati nella gestione dei servizi idrici, avviando l’espropriazione alle popolazioni di un bene comune e di un diritto umano universale.

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