domenica 28 ottobre 2012

No Monty Day: l'alternativa di sinistra c'è!

Francesco Piccioni 
su Il Manifesto



La battuta migliore circola tra chi guarda il cielo, da cui - contrariamente alle previsioni - non è caduta una sola goccia d'acqua. «Questo è un governo così ladro che pure dio, per non farlo contento, si è rifiutato di far piovere».
Oltre ai metereologi, hanno sbagliato alla grade anche i «professionisti dell'allarme», lungo la filiera che va da palazzo Chigi al Viminale, per scendere fino all'ultima redazione di provincia. Niente black blok, niente scontri, giornata di scorno per chi cerca solo sangue, sudore e polvere da sparo. L'allarmismo ha certo tenuto a casa un sacco di gente, memore di altre giornate e tensioni. Ma non troppa. E comunque quando i problemi reali premono, anche la «criminalizzazione preventiva» perde mordente. È stata perciò una manifestazione riuscita al di là delle più rosee attese degli organizzatori. E il perché è presto detto: c'era, e si vedeva, «organizzazione»; ossia lavoro, volontà, serietà, esperienza, quel pizzico di autodisciplina che aiuta nei momenti difficili.

Non è questione di «servizio d'ordine», di pettorine rosse e occhi aperti. Si è visto in piazza un senso, un ragionare comune che ha il governo come contraltare esplicito. È nato qualcosa. Un discorso sulle politiche economiche di Monti e Fornero, sulle «riforme strutturali» e sulle pretese di Confindustria e delle banche, che ha molto più corpo delle antiche giaculatorie «contro i padroni ed i banchieri». È un ragionamento critico su questa Europa, sul modo in cui viene costruita a tappe forzate e senza alcuna verifica democratica, a nessun livello. È l'emergere di proposte alternative che si pongono esplicitamente il problema della «credibilità», della fattibilità reale; non «il socialismo» in astratto, non una formula retorico.ideologica, ma qualcosa che si può fare e che magari va in quella direzione. Certo, non manca mai il gruppetto che si sgola a gridare «usciamo dall'euro»; ma lo sguardo di compatimento che in genere lo accompagna vale più di un documento critico.
Il gioco di questi tempi è «teso e tetro», ben pochi hanno voglia di far pura testimonianza. La dimensione «di movimento» c'è, è consistente, ma non è quella dominante. Lo spezzone dichiaratamente studentesco, per dire, aveva come punta più visibile e articolata i ragazzi napoletani di ClashCityWorkers; capaci di slogan creativi come «eat the rich», ma anche di gestire un sito di informazione strutturata, che spazia dall'analisi economica all'agitazione politica ragionata.
Sembrano insomma finiti gli anni '90 e il primo decennio del nuovo secolo, quando il solo pensare a unire le forze era tacciato di «vetero-partitismo». Chiunque abbia guardato questo fiume di persone con occhi aperti ha potuto vedere almeno quattro grandi blocchi largamente convergenti nella presa d'atto che si è aperta un'altra stagione, quella dei tagli senza fine e della demolizione del «modello sociale europeo». E che quindi «la politica» per come è stata intesa nell'ultimo ventennio - grandi aggregazioni elettorali con «programmi» sempre più vaghi per «conquistare il centro» e andare al governo a qualsiasi costo - non ha più ragione di esistere.
Se da un lato c'è «il montismo» e la gestione stile troika, non c'è più lo spazio per la «mediazione condizionante» e l'alleanza elettorale finto-indipendente. O si sta in quel gioco, applicando per filo e per segno le disposizioni di Bce, Ue, Fmi; oppure si dà vita, come in tutta l'Europa attraversata dalla crisi, a un'opposizione. Radicale nei contenuti, a «volto scoperto e mani nude». Se si vogliono rappresentare interessi sociali concreti, riconoscibili, bisogna scagliere quale strada si prende. Perché c'è un bivio deciso, davanti a noi, non più un intrecciarsi di sentieri dalle molte direzioni.
È la fine di ogni gauche plurielle. I tanti protagonisti di quella stagione che ieri si aggiravano per il corteo sembravano faticare a trovare il proprio posto. Chi ha deciso che vuol stare nel prossimo governo (in caso di vittoria del centrosinistra), non è venuto in piazza e ha fatto bene a starne lontano. Chi vuol aiutare a costruire un'opposizione chiara, era benvenuto; mettendo infine la sordina alle sempiterne polemichette «di sinistra», pur senza dimenticare nulla. In mezzo non c'è più uno spazio vero d'azione politica. E nessuna retorica può più costruirlo.
La mescolanza generazionale, infine, è apparsa totale. Barbe bianche e volti imberbi camminano di nuovo insieme. Semmai si nota qualche rarefazione nelle generazioni di mezzo, quelle che con cinismo impressionante Monti ha definito «saltate». Ma chi vuol giocare a fare il Renzi, a contrapporre giovani e «maturi», da queste parti non ha spazio.
È nato qualcosa e può svilupparsi perché ha già gambe minimamente solide. Comitato No Debito, Rifondazione, Usb e Cobas sono i pilastri di questa giornata. Ognuno, a suo modo, è un agire collettivo strutturato, non una massa scomposta o uno sciame. Di fronte al senso di «ineluttabilità» e impotenza seminato dalla distanza siderale tra «politiche della troika» e possibilità concrete di reazione, sarebbe del resto ingenuo attendersi un fermentare di iniziative che trova «per sua natura» un alveo comune. Essere un «soggetto istituzionale», un sindacato o un partito, è in queste condizioni un must, non più un handicap.
È stata una giornata davvero particolare. Speriamo sia solo la prima di una nuova stagione.

sabato 27 ottobre 2012

Da Berlusconi a Monti: la tecnica della conservazione

La pura tecnica della conservazione
Alberto Burgio su rifondazione.it

Se ne va? Non se ne va? Berlusconi è talmente inaffidabile che non sarebbe ragionevole azzardare pronostici. Ma forse non è nemmeno così importante saperlo.
Ancora un paio di anni addietro, non avremmo immaginato che il suo personale destino politico potesse apparire irrilevante. Berlusconi aveva il monopolio della rappresentanza di un composito blocco sociale e della direzione del centrodestra. Oggi è tutt'al più un comprimario, sempre meno influente, sempre meno ascoltato all'interno del suo stesso partito. L'insieme degli interessi che aveva saputo tutelare ha trovato un garante ben più autorevole. Se Berlusconi ha deciso di ritirarsi, non è soltanto perché i sondaggi dicono che la sua immagine è in declino. Medita un passo indietro anche perché la sua «rivoluzione» ha trovato il legittimo erede.
Mario Monti è stato in questi undici mesi uno straordinario interprete della rivoluzione conservatrice che da un quarto di secolo viene trasformando l'Italia nel segno della sovranità del capitale e dell'impresa. Lo è stato principalmente in forza di quattro fattori. Due esterni: i diktat della troika e la dittatura dello spread, che hanno legittimato la macelleria sociale, facendola apparire una dolorosa necessità. Due interni: l'investitura del Quirinale (che si rinnova fragorosamente ogni giorno) e l'assenza di un'opposizione parlamentare in grado di impensierire il suo governo. Un quinto fattore - lo scarto di credibilità personale che lo separa dal predecessore - fa di Berlusconi, paradossalmente, il secondo padre del governo Monti, accanto al presidente della Repubblica, che lo ha fortissimamente voluto.
Sta di fatto che in meno di un anno il governo dei pretesi tecnici ha fatto molto di più di quanto lo stesso centrodestra non avesse realizzato in tre anni e mezzo (per limitarci a questa legislatura). L'ennesimo colpo di maglio alle pensioni (senza alcuna giustificazione contabile); la cancellazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; altre drastiche riduzioni dei redditi da lavoro; nuovi micidiali tagli dello Stato sociale. Il tutto salvaguardando caparbiamente profitti, rendite, alti redditi, interessi delle banche (e del Vaticano). Un capolavoro, dinanzi al quale il Cavaliere può recedere in tutta tranquillità, se non con orgoglio.
Oggi si guarda a Monti come al prossimo premier o al futuro presidente della Repubblica. Consideriamo entrambe queste ipotesi esiziali. Non soltanto per quanti - a cominciare dal mondo del lavoro e dalle giovani generazioni - pagano il prezzo più alto del malgoverno di questi decenni. Esiziale la persistenza di Monti sarebbe per la stessa democrazia italiana e per la Costituzione che la ispira.
Più volte il presidente del consiglio ha mostrato di considerare «quantità trascurabile» le istituzioni fondamentali della repubblica parlamentare. Ancora in questi giorni - tra un autoelogio e un esercizio di finta modestia - ha sostenuto che la strada del prossimo governo è già tracciata. Come dire che il Parlamento non serve a niente e che le elezioni sono un'inutile farsa. Anche se privo di tessera della P2, un personaggio del genere non tranquillizzerebbe alla guida del prossimo governo. Figuriamoci al Colle.
E diciamoci la verità. Checché ne pensi il diretto interessato, avere paracadutato l'attuale presidente del consiglio su palazzo Chigi non è un motivo di gratitudine nei confronti di Napolitano. Al quale ci permettiamo di ricordare che, certo, «tenere conto dell'esperienza Monti» nel prossimo futuro sarà inevitabile, ma non compete al presidente della Repubblica dire in che modo e traendone quali conseguenze.

  

Contro le pensioni di Fornero: al via la raccolta firme


di Roberta Fantozzi e Barbara Pettine*

Monti e Fornero hanno gettato nella disperazione centinaia di migliaia di persone, che hanno visto, nel giro di poche settimane, la propria prospettiva di vita messa radicalmente in discussione, dopo anni ed anni di duro lavoro. La cosiddetta riforma delle pensioni del governo dei tecnici, che allunga di sei anni e più il tempo di lavoro, è stato il più violento provvedimento antipopolare, contro le condizioni di vita di uomini e donne, dal dopoguerra ad oggi. Una campagna lampo passata sulla testa della gente, offerta sull’altare del recupero di «credibilità» in Europa e nel mondo dalla neonata unità nazionale del «dopo la caduta di Berlusconi», senza che ci fosse neppure la consapevolezza del disastro sociale che questa sedicente riforma apparecchia.
Il disastro sociale per chi, espulso dai luoghi di lavoro, alla pensione non arriverà mai, tanto più dopo la drastica riduzione dei tempi di erogazione degli ammortizzatori sociali, cui ha provveduto l’altra «riforma» Monti-Fornero: un dramma di cui i lavoratori «esodati», secondo l’orrido neologismo, non rappresentano che la punta dell’iceberg. Uomini e donne che hanno di fronte come sola possibilità, quella di tentare un impossibile riciclaggio contendendo ai propri figli/e un posto precario.
Il disastro sociale per le ragazze e i ragazzi, privati non solo della pensione futura, ma del lavoro presente, giacché è palese come il permanere forzatamente sul lavoro dei più anziani, diventi una barriera insormontabile per le nuove generazioni, in un paese in cui la disoccupazione giovanile è ormai al 35 per cento e l’occupazione globale si restringe per le politiche recessive.
L’accanimento contro le donne, su cui continua a scaricarsi la doppia fatica del lavoro produttivo e riproduttivo, in un’organizzazione sociale in cui il perdurante sessismo si intreccia alle storiche carenze del nostro sistema di welfare, che certo non migliorerà per i tagli feroci prescritti dal pareggio di bilancio oggi, dal Fiscal Compact domani. Penalizzate nell’accesso al lavoro, nelle retribuzioni, nella precarietà dei contratti, nella maturazione dei requisiti per la pensione. Se un operaio potrà «sperare» di andare in pensione a 62 anni, dopo 42 anni e un mese di lavoro, l’operaia non riuscirà ad andare prima dei 67 perché la sua vita lavorativa, fra aspettative non retribuite, part time, periodi più lunghi di attesa per entrare nel lavoro stabile e rientrarvi dopo le gravidanze, non le permetterà di cumulare i 41 anni utili alla pensione cosiddetta anticipata ( oggi solo il 2% delle pensionate del settore privato ha più di 35 anni di versamenti).
La controriforma non è nata dai problemi di tenuta del nostro sistema pensionistico, la cui sostenibilità è stata attestata fino ed oltre il 2060 sia dagli organismi europei che dal nucleo di valutazione del ministero del Lavoro, e i cui saldi tra entrate contributive e uscite effettive al netto delle tasse, sono sempre stati in attivo dal 1998, attestandosi oggi intorno all’1,8% del Pil, come ci ricorda instancabilmente Roberto Pizzuti.
Le motivazioni sono state invece quelle di fare «cassa» nell’immediato e arrivare in prospettiva allo smantellamento del sistema pubblico a favore dei fondi privati: per dare nuova linfa ai processi di privatizzazione e speculazione finanziaria. La controriforma delle pensioni è il primo provvedimento «costituente» del governo Monti. Al pari della manomissione dell’articolo 18 e del via libera ai licenziamenti arbitrari, al pari dell’articolo 8 Sacconi-Berlusconi che svuota il contratto nazionale e cancella i diritti del lavoro, la controriforma delle pensioni ridisegna nel profondo i rapporti tra le classi, le relazioni sociali, persino le antropologie. Ed è emblematica della logica perversa dell’iperliberismo per cui la risposta alla crisi risiede nell’ipertrofia delle politiche che la crisi l’hanno causata: distruzione del welfare e incremento delle disuguaglianze di pari passo alla precarizzazione del lavoro e all’aumento vertiginoso dell’orario di lavoro settimanale, annuo e nell’ arco dell’intera vita.
Per questo il referendum, per noi strettamente intrecciato a quelli sul lavoro. Crediamo sia ora che le persone si esprimano, che disperazione, rabbia, voglia di dignità e di rispetto per le proprie condizioni di vita, di lavoro e di reddito, si facciano sentire attraverso il protagonismo diretto dei soggetti. Contro chi ci ha sottratto il futuro, contro una riforma ingiusta e misogina che si accanisce contro i più deboli, la parola va restituita alle donne a agli uomini, che questo paese abitano, vivono e fanno progredire. Riprendiamoci il futuro. Abroghiamo la controriforma delle pensioni.
* comitato promotore del referendum abrogativo della riforma delle pensioni

mercoledì 3 ottobre 2012

Referendum: i quesiti punto per punto

I quesito punto per punto.
Tonino Bucci su Ombre Rosse.

La campagna per le prossime elezioni politiche è già cominciata. L'iniziativa referendaria sarà uno dei fronti caldi. Guai però a sminuire l'importanza dei temi, ciascuno dei quali viaggerà separatamente da quelli che saranno gli schieramenti e le alleanze alle prossime consultazioni politiche. La Federazione della sinistra è impegnata su due quesiti riguardanti il lavoro presentati già in Cassazione con altre forze politiche, ai quali si aggiunge il quesito sulle indennità parlamentari presentato dall'Idv – che la Fds sostiene – più un quarto quesito sulle pensioni del Prc in via di formulazione.
Nel pacchetto spiccano – si diceva – i due quesiti sul lavoro, uno sull'abrogazione dell'articolo 8 che oggi consente la deroga alla contrattazione collettiva, l'altro che punta invece al ripristino del vecchio articolo 18 e della norma della reintegra del lavoratore licenziato. A sostenere i due quesiti è un arco di forze che raggruppa Idv, Federazione della sinistra e Sel, oltre alla Fiom e singoli giuristi. Il Pd ha deciso di non sostenerli, ma singoli suoi esponenti hanno fatto un'altra scelta. È il caso, per esempio, di Sergio Cofferati, l'ex leader della Cgil che a difesa dell'articolo 18 impegnò la propria organizzazione nel memorabile corteo dei tre milioni a Circo Massimo nel 2002. Anche il senatore del Pd Vincenzo Vita ha deciso di sostenere le proposte referendarie sul lavoro.
Nel dettaglio il quesito sulla contrattazione collettiva chiede l'abrogazione dell'articolo 8 del decreto legge del 13 agosto 2011, n. 138, (titolato “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”), poi convertito in legge. Allora c'era ancora il governo Berlusconi, oggi c'è il governo Monti. Ma le posizioni non cambiano. Anche l'attuale ministro del welfare, Elsa Fornero, è una fan dell'articolo 8. La norma vigente permette in sostanza la stipula di contratti in deroga alla contrattazione collettiva nazionale.
Più articolato il quesito sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (la legge 20 maggio 1970), che chiede di abrogare diverse modifiche introdotte dal ministro Fornero – sempre lei – per evitare la riassunzione dei lavoratori ingiustamente licenziati. Per questi è prevista solo la liquidazione con un indennizzo economico. L'intervento più significativo sarebbe sul quinto comma che attualmente stabilisce, nel caso di licenziamenti senza giusta causa, un semplice indennizzo economico da parte del datore di lavoro. I referendari propongono di abolire il seguente passaggio: «Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo».
Un terzo quesito referendario, presentato dall'Idv e sostenuto anche dalla Fds, riguarda la modifica parziale dell'attuale legge per la «determinazione» dell'indennità dei parlamentari. Nel dettaglio si propone la cancellazione dell'articolo due e del terzo comma dell'articolo 5 che recita: «L'indennità mensile e la diaria per il rimborso delle spese di soggiorno prevista dall'art. 2 sono esenti da ogni tributo e non possono comunque essere computate agli effetti dell'accertamento del reddito imponibile e della determinazione dell'aliquota per qualsiasi imposta o tributo dovuti sia allo Stato che ad altri Enti, o a qualsiasi altro effetto».
Il quarto quesito è in corso di stesura. Rifondazione - come spiega il responsabile lavoro e welfare Roberta Fantozzi in questo numero di Ombre Rosse – ci sta lavorando con l'aiuto dei giuristi. A giorni conosceremo il testo.

Referendum sul lavoro: articolo 18 e articolo 8

Il Partito della Rifondazione Comunista aderisce al comitato unitario per i referendum sul lavoro.
Abolire la riforma dell'articolo di 18 fatta Monti e abolire l'articolo 8 della manovra 2011 di Berlusconi!

Una grande battaglia per i lavoratori, per i precari e per i disoccupati

Alberto Lucarelli, docente e assessore della giunta De Magistris ha lavorato anche all’elaborazione del “manifesto di ALBA” (Alleanza Lavoro Beni comuni, Ambiente) Alba fa parte del comitato referendario e non solo in virtù delle parole contenute nel suo acronimo.

La democrazia diretta apre contraddizioni.
«L’acronimo è la conseguenza di una scelta forte. Quella di voler ridare voce alla Costituzione che rappresenta l’elemento più democratico di questo Paese ed in molti punti o è attaccata o disapplicata. La scelta referendaria fa parte di una richiesta di democrazia diretta laddove predomina una sistema di rappresentanza, bloccato da gruppi di potere, i partiti, che non tutelano le minoranze. Ci accorgiamo che c’è bisogno di spazi in cui i cittadini possano esprimere un parere vincolante al di là degli schieramenti politici. Non agiamo secondo la vecchia logica radicale, crediamo solo di poter determinare un miglioramento della democrazia».

C’è stata una reazione di alcune forze politiche estremamente dura nei confronti della scelta dei referendum, senza peraltro entrare nel merito delle questioni che il comitato promotore pone.
«Mah io credo che questa scelta di difesa di diritti crei di fatto un fronte comune. Questo ha fatto emergere contraddizioni e ipocrisie fra gli schieramenti. Ci sono state soprattutto le reazioni nervose del Pd. Eppure nei referendum non si fa altro che richiamare all’applicazione del concetto di lavoro come diritto da difendere. La difesa dei diritti dei lavoratori ma anche l’attuazione piena di alcuni articoli della costituzione (dal 36 al 39)».

Uno degli attacchi che è stato rivolto alla presentazione dei referendum è che si tratti solo di propaganda, visto che si terrebbero nel 2014 con un parlamento totalmente diverso.
«Non mi sembra che tale argomentazione abbia fondamento. I referendum hanno valenza politica anche se presuppongono un risultato “giuridico demolitorio”. Del resto la campagna per i referendum sull’acqua è durata 4 o 5 anni prima che si votasse e si vincesse. E avevamo a fare battaglie nei territori già dalla stagione 2001/2002. Nonostante nel frattempo siano cambiati parlamenti e governi».

Una campagna di opinione che è già partita definisce i referendum in maniera allarmistica perché mettono a repentaglio il lavoro svolto da Monti & company per “salvare il paese”.
«La sola risposta da dare è che il welfare è stata la più grande conquista del ventesimo secolo nei rapporti con la borghesia. Una conquista che non può dipendere dal debito pubblico. Che si colpiscano meglio le evasioni fiscali, che si ristabilisca una progressività reale nelle imposte. Negli anni Settanta le aliquote per i più facoltosi erano del 60% oggi sono del 43%, mentre sono cresciute quelle per lavoratori dipendenti e pensionati.».

Ora saranno fondamentali i comitati unitari nei territori per la raccolta firme. Alba che ruolo può svolgervi?
«Noi siamo una realtà nata da poco con una caratteristica fortemente magmatica. C’è di tutto fra i nostri sostenitori, iscritti a Sel, a Rifondazione alla Fds all’IdV e persone che ormai non si riconoscono in nessun partito. Questo potrebbe permetterci di far prevalere nelle nostre discussioni, la coerenza e l’attuazione dei contenuti. Stiamo costruendo una presenza dappertutto e aumentando i legami con le tante realtà vive del Paese. Ci è stata di molto aiuto l’iniziativa di Napoli della Rete dei Beni Comuni».

 Quando vi siete recati in Cassazione a depositare i quesiti, c’erano gli esponenti di forze i cui rapporti sono stati a volte difficili.
«Quando abbiamo presentato i referendum sull’acqua è stata una festa. L’altro giorno il clima era diverso ma cercheremo di renderlo migliore con il lavoro comune».

A tuo avviso di fronte a questa proposta di partecipazione, gli aventi diritto al voto sono oggi più consapevoli che in passato o prevale la resa e il disincanto?
«Siamo ad un momento di rottura perché c’è consapevolezza ma anche grande distacco dai partiti col rischio che prevalgano alcune patologie. Nel contempo ci sono forti spinte di socializzazione fra le persone. Si torna a discutere e a impegnarsi. Ieri si parlava ad un affollato dibattito con Paolo Ferrero, della contrapposizione fra lavoratori in entrata e in uscita. Uno schema per certi versi classico su cui lavorare seriamente».

Proporre i referendum a Napoli e più in generale in Campania, dove aumentano i licenziamenti e contemporaneamente il numero delle persone rassegnate a non aver lavoro, sarà dura.
«Ci lavoreremo partendo proprio dal fatto che i diritti di chi ha un lavoro da difendere e quelli di chi un lavoro lo cerca non vanno messi in contrapposizione».

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