giovedì 24 febbraio 2011

Nord Africa: nulla sarà più come prima / Chavez, Gheddafi e l'ipocrisia dell'occidente

Nord Africa: nulla sarà più come prima di Fabio Amato, responsabile Esteri del PRC

Liberazione del 23 febbraio 2011



La rivoluzione del nord Africa travolge la Libia e il suo ultraquarantennale leader Gheddafi. Le notizie che arrivano dal paese nordafricano, frammentate e dall’unica fonte che non è stata oggetto della censura del regime, Al Jazeera, parlano di una carneficina e di una violenza inaudita nella repressione. L’uso dell’aviazione contro i manifestanti a Tripoli avrebbe prodotto oltre mille morti. La rivoluzione nordafricana non si ferma, e travolge anche quello che veniva considerato come uno dei regimi più stabili, grazie ai dividendi della rendita petrolifera ed energetica, che hanno reso la Libia uno dei paesi con dati macroeconomici e di reddito fra i più alti del continente africano e dell’area. Non basta questo dato a placare la rabbia, soprattutto giovanile, che ha travalicato la cirenaica e la ribelle Bengasi per arrivare nel cuore del potere del regime di Gheddafi, Tripoli. La crisi e le riforme neoliberali comunque applicate anche dalla Libia in questi anni, insieme alla concentrazione nelle mani del clan vicino al Colonnello di gran parte delle ricchezze, hanno creato sacche grandi di malcontento e rabbia. Rabbia unita alle domande e speranza di libertà dall’oppressiva macchina poliziesca, dalla censura e dalla grottesca idea della successione dinastica dell’oramai anziano leader che hanno come protagonisti anche in Libia le giovani generazioni. 
Nel suo disperato e criminale tentativo di mantenere il potere a tutti i costi, Gheddafi sta giocando le ultime carte della sua storia politica. Contro il suo popolo e contro ogni senso di umanità. Una carta disperata e inutile, che non salverà il suo regime e il suo proposito di continuazione dinastica del potere. 
Una carta il cui esito potrebbe essere quello di far sprofondare il paese in una guerra civile dagli esiti catastrofici. Già pezzi dell’esercito e della diplomazia si sono uniti alle proteste e alle rivolte. 
Anche se è complesso prevedere quali saranno le evoluzioni delle rivoluzioni arabe, è bene ricordare come altri paesi ne siano contagiati, come il Marocco, lo Yemen, il Barhein, crediamo che se anche le transizioni saranno gestite dalle forze armate, e che nel breve periodo esse garantiranno una continuità perlomeno formale nella collocazione geopolitica dei paesi del sud del mediterraneo, i movimenti sociali che sono esplosi avranno conseguenze durature, apriranno scenari di cambiamento impensabili fino a poco tempo fa. Tutto il quadro mediorientale ne uscirà ridisegnato. Le ipocrisie e la politica dei due pesi e delle due misure applicata dall’imperialismo e dall’occidente in questi anni avranno vita breve. 
Lo abbiamo già scritto a proposito di Tunisia ed Egitto, lo ribadiamo oggi. Nulla potrà tornare come prima. Il risveglio delle masse arabe rappresenta una tappa storica, paragonabile, come ha scritto Valli su Repubblica, a quello che accadde nel 1848 in Europa. 
Un’Europa, quella attuale, le cui responsabilità sono grandi nell’aver in questi anni fatto fallire l’ipotesi euro mediterranea, nell’essere stata semplice spettatrice o esecutrice dei voleri di Washington, e nell’aver limitato la sua azione politica a garantirsi liberalizzazioni dei mercati e risorse energetiche, mantenendo al potere, con la scusa della minaccia islamica, regimi indifendibili, che hanno represso, vale la pena ricordarlo, anche tutte le forze progressiste, democratiche e fra queste quelle comuniste, di quei paesi. Ora si trova del tutto impreparata difronte alle conseguenze che i cambiamenti in corso porteranno. 
Occorre però soffermarsi su quello che l’Italia ha fatto e detto in questi giorni. La carneficina che le forze armate fedeli al regime del colonnello Gheddafi stanno perpetrando in Libia ha dei complici politici evidenti: Silvio Berlusconi e il suo zelante portavoce Ministro degli Esteri Frattini. Le loro tardive condanne servono oramai a ben poco. Il loro silenzio prima, le allucinanti e vergognose dichiarazioni di sostegno durante l’esplosione della rivolta e della sanguinosa repressione, rimarranno tra le pagine più vergognose della triste storia del berlusconismo e dei suoi ultimi giorni a cui assistiamo. Berlusconi non disturba Gheddafi mentre massacra il suo popolo, perché teme che quello che travolge oggi i suoi amici del sud del Mediterraneo, possa molto presto travolgere anche lui e porre fine alla sua squallida stagione politica.

Hugo Chavez, Muhammar Gheddafi e l'ipocrisia dell'Occidente

di Gianni Minà


E' vero che non solo Silvio Berlusconi ha avuto buone relazioni con Muammar Gheddafi. Anche la Gran Bretagna, tra i molti, non ha avuto remore a svendere i morti di Lockerbie per passare oltre e tessere la sua tela energetica anche con il dittatore libico. Soprattutto però, per quanto ci concerne, non sono negabili le buone relazioni diplomatiche tra i paesi integrazionisti latinoamericani e la Libia e nella fattispecie tra Venezuela e Libia.
E' commendevole la buona relazione tra paesi latinoamericani, il Brasile in primo luogo, e paesi come la Libia o l'Iran? Dipende da come la si voglia guardare. Da parte occidentale, avere relazioni con la Libia o con l'Iran vuol dire abiurare ogni singolo discorso sulla democrazia e sui diritti umani sull'altare di interessi economici. Germania e Italia, che a parole disdegnano Ahmedinejad, sono i principali partner commerciali dell'Iran. Detto della Gran Bretagna e di Lockerbie, o di Nicolas Sarkozy che si offre di mandare l'esercito per aiutare Ben Alì in Tunisia, l'Italia di Silvio Berlusconi ha trasformato Gheddafi in un "campione delle libertà" soprattutto per le sue mani libere nel massacrare i migranti.
Inoltre, e infine, i paesi ex-colonizzatori, per esempio l'Italia verso la Libia, hanno responsabilità storiche e geopolitiche incomparabilmente superiori nell'avere relazioni con governi scarsamente indifendibili. Le relazioni dell'Italia verso la Libia, degli Stati Uniti rispetto all'Honduras, del Giappone o l'India con la Birmania, della Cina verso la Corea del Nord hanno un peso politico non comparabile di quelle tra Brasile e Iran o Venezuela e Libia perché diversissime per natura e motivazioni.
Infatti una delle grandi caratteristiche della diplomazia latinoamericana degli ultimi dieci anni è stata quella di rompere le catene del modello economico coloniale e post-coloniale, per il quale ad ogni paese periferico era permesso avere relazioni e fare affari solo con il proprio centro imperiale. Così sono fiorite le relazioni politiche ed economiche Sud-Sud. L'America integrazionsta ha guardato all'Africa, all'Asia, al Medio Oriente, continenti con i quali non aveva praticamente mai avuto relazioni nella storia ed ha di recente preso la storica decisione, asperrimamente criticata in Occidente, di riconoscere lo stato di Palestina nei confini del 1967 tagliando il nodo di connivenze e titubanze. Inoltre, di nuovo il Brasile, in sinergia con la Turchia, ha seriamente cercato di trovare una soluzione, peraltro disdegnata dagli occidentali, al problema nucleare iraniano.
Quindi il problema delle relazioni tra America latina e Libia o Iran o altri paesi con regimi in tutto o parzialmente esecrabili non è la sintonia politica. A volte con retorici discorsi antimperialisti, più spesso con passaggi concreti, il nodo sta in una ineludibile sinergia sud-sud tra paesi che hanno grandi caratteristiche in comune.
Ci sia chi ci sia al governo in America Latina o in Libia o in Iran o nel Medio oriente in senso più amplio, gli interessi delle due regioni hanno molteplici convergenze, nell'esperienza storica coloniale, nella persistente aggressività occidentale nei loro confronti, nei modelli economici basati sull'estrazione e l'esportazione di combustibili, nell'interesse ad un mondo multipolare.
Ancora una dozzina di anni fa i paesi latinoamericani si sarebbero fatti dettare da Washington con chi avere relazioni economiche e politiche (e quindi per esempio non avevano relazioni con Cuba). Oggi ragionano con la loro testa e profilano una politica nella quale l’Occidente non è più il centro del mondo. Questa riflessione è ineludibile, perché solo l’Occidente continua a pensare di essere il centro del mondo e crede di essere il solo ad avere il diritto di scegliere di avere relazioni con regimi impresentabili (come quelli di torturatori e assassini come Bush, Ahmedinejad, Blair, Gheddafi) ma poter giudicare e condannare la politica estera altrui.
Uno dei fattori principali di cambiamento in America Latina è proprio il fatto che rispetto agli anni ’80-’90, quando l’unico partner strategico del continente erano gli Stati Uniti, in un contesto ortodossamente neoliberale, è che adesso l’economia latinoamericana può servirsi ad un numero molteplice di forni. C’è quello cinese che è oggi un mercato fondamentale, le relazioni con l’India si approfondiscono giorno per giorno, si sta ricostruendo un mercato interno che era crollato ai minimi storici negli anni ’90, e in generale le relazioni sud-sud sono in crescita, dall’Africa al Medio Oriente.
Poter scegliere, avere finalmente il diritto di scegliere ed avere un mondo intero e non un mondo unipolare come partner è il principale fattore di consolidamento dei processi sociali e politici che stanno cambiando l'America latina e il pianeta.
Tutto ciò non verrà mai spiegato dai giornali che strumentalizzano quelle relazioni svuotandole del loro senso liberatorio. Resta, nonostante tutto, il senso di disagio per gli abbracci tra Lula o Evo o Chávez e un Ahmedinejad o un Gheddafi. Con la testa si capiscono, con il cuore c'è più difficoltà.

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