martedì 17 agosto 2010

Cossiga è morto.

Non ci mancherà.
Non ci mancheranno i silenzi sulle stragi e i complotti.
Non ci mancheranno le parole sulle stragi e i complotti, pronunciate per depistare.
Non ci mancheranno i carriarmati per le strade.
Non ci mancheranno i giochi di potere.
Non ci mancheranno gli incitamenti a massacrare gli studenti.

Ci mancherà, purtroppo, la verità.

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Il Giovanni Battista del berlusconismo

di Angelo d’Orsi

Da tempo capita di sentir sospirare: «Ah, i bei tempi della Dc! Come li rimpiangiamo, quei democristiani di una volta…». Certo, al cospetto con i rozzi e beceri signor Nessuno, portati alla ribalta da Umberto Bossi – a cominciare da lui stesso, et familia -, davanti al pullulare di young men & pretty girls divenuti, da pubblicitari e fotomodelle, classe dirigente del “Popolo delle Libertà”, immersi nella sozzura di un ceto politico “post-ideologico”, intriso di amoralismo, opportunismo, e, sovente connesso o addirittura integrato in organizzazioni criminali… Ebbene, certo, possiamo guardare con attenzione alla classe politica democristiana dei decenni passati, ma senza alcuna tentazione apologetica. Prendiamo il caso di Francesco Cossiga, alter ego, in certo senso, di Giulio Andreotti: non a caso i due furono sempre acerrimi avversari, per non dire nemici. La Dc, si sa, più che un partito era una rissosa confederazione di partiti, spesso collocati politicamente su posizioni avverse, e se di Andreotti sappiamo che è uomo di cultura, spiritoso e politicamente sagace - per quanto di meglio e insieme quanto di peggio ha rappresentato il partito cattolico -, di Cossiga non si può dire altrettanto, nemmeno volendo rispettare il precetto Parce sepulto. E, in definitiva, non si può dire molto, perché gran parte della sua carriera politica si svolge all’insegna degli arcana imperii. Chissà quando giungerà il momento di sciogliere qualche nodo, di aprire qualche cassetto, di spalancare finestre e rovesciare suppellettili; chissà quando un ricercatore riuscirà a mettere le mani sugli armadi della vergogna che questo politico di lungo corso e di modesta levatura ha custodito, direttamente o indirettamente.
Se dovessi trovare un’etichetta per lui, che pure ne ha ricevute numerose, direi che è stato il Giovanni Battista del Berlusconismo, così come Craxi ne è stato il padre; Berlusconi è stato l’attore del dramma, che, come stiamo vedendo in questi ultimi giorni di Pompei, sta diventando insieme tragedia e farsa.
Attraversando, in una carriera tutta all’insegna della precocità, larga parte della storia repubblicana, il sardo di stretta osservanza Cossiga ha ricoperto tutte le cariche possibili, in una irresistibile ascesa dei gradini del potere, da segretario provinciale della Dc a Sassari a notabile del partito, da ministro dell’Interno a primo ministro, da presidente del Senato a capo dello Stato.
Che sia arrivato là dove invano un uomo assai più abile e intelligente come Andreotti non sia giunto, è un mistero, che si può sciogliere solo, probabilmente, guardando a fondo entro il groviglio della Democrazia cristiana, e, chissà, con l’ausilio di documenti per ora inaccessibili. Ad esempio, che Cossiga fosse “amico” di Israele, è noto; come lo è la collocazione più filoaraba di Andreotti, solo per fermarsi su uno dei tanti punti di dissenso politico fra i due. I quali, peraltro, sono stati in grado di cambiare linea a seconda delle circostanze, ma, nel caso di Cossiga, anche a seconda degli sbalzi umorali di una persona che non so se si possa definire mentalmente disturbata, ma certo diciamo quanto meno non in grado di controllare i propri flussi di coscienza.
Famoso per le sue trovate bislacche, per i regali provocatori – il bambino di zucchero donato a D’Alema, alludendo alla diceria riportata in auge da Berlusconi dei comunisti divoratori d’infanti… – , per le battute di spirito (assai grevi), Cossiga ha interpretato il ruolo insieme di guastatore e di giullare, diventando, forse non del tutto consapevolmente, il pontiere tra un’Italia che ancora stava entro il perimetro delle “regole del gioco”, e un’altra Italia, che, ahinoi, non è quella dei resistenti, del sogno maturato nel biennio 1943-45, quando il “vento del Nord” significava non già la sciocchezza pericolosa della secessione “padana”, bensì l’ansia di liberare tutta l’Italia da rapporti sociali ingiusti, come i partigiani avevano liberato il Nord dalle armate tedesche e dai loro complici italiani.
L’altra Italia che si affacciò tra la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta del secolo scorso, era l’Italia degli egoismi e dei particolarismi, non più tenuti a bada dal potere centrale; l’Italia dei padroncini e degli evasori fiscali; l’Italia della corruzione divenuta pratica non solo usuale, ma essenziale dello stesso funzionamento tanto dell’economia, quanto della pubblica amministrazione. L’Italia del rifiuto delle norme, dell’idiosincrasia per le regole, e addirittura del disprezzo verso la legge e coloro che, bizzarramente, la rispettano.
Il primo a mostrarsi, platealmente idiosincratico alle une e alle altre, il primo a ridurre drasticamente la considerazione pubblica della legge, a preparare il terreno per la creazione di un senso comune ostile o quanto meno diffidente verso la legalità, e via via tendenzialmente estraneo alla stessa democrazia liberale, fu Francesco Cossiga. Le sue bordate contro il Parlamento, i suoi scriteriati attacchi a certi magistrati o anche a certi dirigenti delle forze dell’ordine, le sue trovate extraistituzionali, i suoi legami oscuri con segmenti di apparati di polizia, e di servizi di sicurezza (che egli “riordinò” ponendoli alle proprie dirette dipendenze), il suo coinvolgimento diretto in vicende oscure e inquietanti fecero di lui un crocevia di poteri paralleli, invisibili, assolutamente extraistituzionali. E per uno che esercitava ruoli istituzionali ciò è paradossale. Il suo esibizionismo morboso lo indusse sovente a fare “rivelazioni”, su cui naturalmente occorre la prova documentaria, trattandosi talora di esercizi di sospetta mitomania; ma tra il dire e il non dire, qualcosa – e più di qualcosa – di vero nelle esternazioni cossighiane c’era.
A cominciare dalla vicenda della Gladio, organizzazione militare segreta anticomunista, legata alla Dc e a Washington, di cui Cossiga fu, sembrerebbe, a capo. E come dimenticare l’assassinio di Giorgiana Masi, quando Cossiga era ministro dell’Interno, e si guadagnò così la doppia SS e la K iniziale? O l’aereo abbattuto nei cieli di Ustica…, e, infine, il caso Moro. In quella circostanza, dopo l’assassinio dello statista – con cui certo Cossiga non era in buoni rapporti, come gran parte del gruppo dirigente democristiano – egli si dimise, e quel gesto gli attirò grandi simpatie, anche a sinistra, dove peraltro vantava – nella concezione del familismo amorale che inquina la vita pubblica nazionale – una utile parentela con la famiglia Berlinguer.
Furono tali aperture di credito che favorirono – in un clima emergenziale, in seguito all’assassinio del generale Dalla Chiesa - l’elezione plebiscitaria al Quirinale di colui che fu il più giovane capo dello Stato nella storia italiana. E Cossiga, sullo scranno più alto della vita pubblica nazionale, dopo un primo periodo in sordina, sfruttando le potenzialità che la Costituzione concede al presidente, divenne protagonista sia pure in chiave talora parodistica, di un bonapartismo rumoroso. Le sue caratteristiche, tra folclore e oscillazioni ideologiche, indussero a sottovalutarne la pericolosità.
Cossiga, uomo d’apparato di polizia, non fu, in sostanza, un uomo d’ordine, ma un elemento di disordine, favorendo lo sgretolamento istituzionale. E fu grave colpa, alla caduta del Governo Prodi, che una parte della sinistra italiana si sia ridotta a un accordo con siffatto personaggio per realizzare ministeri di piccolo cabotaggio, in inedite alleanze che mostravano uno dei guasti in atto della vita politica successiva alla “discesa in campo” del Cavaliere. Tant’è che lo stesso Cossiga, dopo essere stato pedina dei Governi D’Alema contribuì poi ad affondarli. D’altronde il pendolo politico dell’ormai ex presidente continuava ad oscillare pericolosamente, tra Berlusconi e i suoi avversari. Anche in siffatti comportamenti, la fisionomia del personale politico da lui impersonata fu tanto di basso profilo etico e intellettuale, quanto di forte rumorosità pubblica, e la linea di continuità tra Cossiga e Berlusconi è tutta da esaminare: di sicuro si presta a interessanti collegamenti e raffronti, finora poco studiati.
Chi gli tenne testa mirabilmente fu un altro democristiano (ad avvalorare la pluralità di voci del tutto fra loro discordi nella Dc), Oscar Luigi Scalfaro, che, per nostra fortuna, divenne presidente della Repubblica, tenendo a bada, come un leone, Berlusconi, Bossi e tanti altri. Ma Cossiga non si diede per vinto, e anche dopo la sceneggiata – pur essa misteriosa delle dimissioni da presidente, due mesi prima della scadenza naturale – non volle tacere, mettendo sovente i piedi nel piatto della politica nazionale, contraddittoriamente, e sempre con un certo clamore, ma invece di ricevere le meritate stroncature, o le doverose denunce (si pensi alle dichiarazioni rilasciate in merito al movimento nell’Università, in cui invitava la polizia a usare infiltrati e provocatori per poi poter dare una lezione “esemplare” ai giovani, magari lasciandone qualcuno sul campo, stecchito), ricevette al massimo qualche rabbuffo, qualche alzata di spalle, qualche motto spiritoso: come si fa col vecchio nonno arteriosclerotico, ma in fondo innocuo.
Invece Cossiga era da prendere sul serio, molto, molto tempo prima. E non lo si fece. Ora che è scomparso, tracciare un bilancio della sua biografia politica, ci impone di riflettere sulla vicenda italiana, dagli anni della fine della contestazione e dell’emergere del terrorismo, agli anni della restaurazione craxiana, dalle illusioni della “rivoluzione” di Mani Pulite, fino alle controrivoluzioni berlusconiane.
Certo, se oggi un presidente del Consiglio si permette, nella sostanziale indifferenza di un’opinione pubblica anestetizzata, di insultare magistrati e giornalisti a lui non graditi, politici non sul suo libro paga, e di decretare quotidianamente che c’è troppa libertà, e che la legge è un intralcio “all’azione di governo”, vale la pena di chiedersi se all’origine di questa politica devastante delle istituzioni e della stessa non vi sia pure, almeno un po’, il lascito di Francesco Cossiga.

2 commenti:

  1. Per l'occasione, il Manifesto ripropone un articolo scritto da Pintor vent'anni fa. Vale la pena leggerlo.

    http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/08/articolo/3252

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